13 maggio 2017

“Meno è meglio” e altri piccoli consigli fondamentali

Suggerimenti per liberarsi dalle zavorre nella scrittura e nel pensiero
di Beppe Severgnini
Credo che ogni ufficio conosca le tendenze del capoufficio. Materne, montessoriane, mussoliniane. Io m’iscrivo tra i montessoriani: credo all’anarchia rispettosa, e penso funzioni anche dentro una redazione. Penso anche che direttore, vicedirettori e capiredattori debbano insegnare qualcosa. Altrimenti, che ci stiamo a fare? Solo a disegnare pagine, rispondere al telefono e gestire epidemie di mail inutili? Ovviamente ognuno deve insegnare quello che sa. Se io provassi a spiegare come usare il sistema editoriale – Méthode! Sembra il nome di una località sciistica francese – tutti riderebbero di gusto (vero, Irene?). Quindi, mi astengo. Sull’organizzazione del lavoro e sulla scrittura, però, qualcosa da dire ce l’avrei. E, ovviamente, la dico. Tre parole, undici caratteri: “Meno è meglio”. Per esempio: la riunione migliore è quella che non si fa. Quando sono necessarie – e talvolta lo sono – le riunioni devono essere brevi. Ma bisogna arrivare preparati; e nel tempo in cui si sta insieme occorre concentrarsi.
Vietato controllare lo smartphone. Un gesto che, per molti, è diventato un tic nervoso. Chi ci casca, nel nostro nuovo 7, deve mettere 1 euro in un salvadanaio lilla (a forma di porcellino). Le monete, all’interno, aumentano e tintinnano felici. Un nostro redattore, se va avanti così, dovrà accendere un mutuo ipotecario. Ma è una persona intelligente, e prima o poi capirà. “Meno è meglio” è una regola infallibile per la scrittura. Nei titoli, nei sommari, nelle didascalie, nei testi: tutto quello che non è indispensabile è dannoso. Perché rallenta, complica, confonde. Mi piace ragionare con i miei giornalisti, soprattutto con i più giovani, sulla loro scrittura. Mi piace correggere i pezzi, e spiegare che, in fondo, l’operazione è una sola: togliere. Scrivere è come scolpire: occorre levare, non aggiungere. Dev’essere un processo gioioso, non penoso. È entusiasmante vedere il proprio testo che prende il volo, appena lo liberiamo dalla zavorra (secondarie implicite, aggettivi inutili, ripetizioni, due “che” nella stessa frase). Purtroppo quest’impostazione è rara. A molti giovani colleghi, appena iniziano a lavorare in una redazione, viene chiesto di produrre tanto, in fretta e da soli. Per pochissimi soldi, oltretutto. Un cottimismo professionale che non porta da nessuna parte.
Inflaziona il prodotto, invece; stanca il lettore; banalizza le firme e non aiuta a crescere. Ricevo confidenze inquietanti, in proposito. Non ho la bacchetta magica, e non posso cambiare i metodi di una parte del giornalismo italiano. Posso provare ad aiutare chi lavora con me, però. È la parte più affascinante del mio incarico, devo dire. Non c’è solo la scrittura. Anche sul conflitto d’interessi ho spiegato che la stesura di cavillosi regolamenti interni è inutile. Una regola basta: non fate nulla che vi metterebbe in imbarazzo davanti ai lettori e ai colleghi. Quattordici parole.
«Corriere della sera - Suppl. 7» dell'11 maggio 2017