31 gennaio 2017

Filmare un uomo sbranato da una tigre è da sciacalli?

di Luca Mastrantonio
In Cina, in uno zoo a Ningbo (Shanghai), domenica un uomo è stato attaccato e sbranato da un gruppo di tigri, una delle quali è stata abbattuta per recuperare l’uomo, poi morto in ospedale. Alla scena hanno assistito anche la moglie e i due figli dell’uomo che aveva scavalcato il muro del recinto per non pagare il biglietto. Le associazioni animaliste hanno protestato per le condizioni di cattività che rendono le tigri più aggressive. YouTube e i social intanto si sono riempiti di video dell’accaduto.
Qualcuno, tra i commenti, ha notato un fatto che dovrebbe sorprenderci, ma forse siamo così assuefatti alla dipendenza tecnologica da ignorarlo: sugli spalti ci sono persone che filmano tutto con il proprio cellulare. Lunghissimi minuti in cui i felini attaccano l’uomo; qualcuno urla, le guardie intervengono, e in tanti mettono a fuoco la scena sugli schermi, per riprendere al meglio il numero fuori programma, che trasforma lo zoo in un’arena mediatica; e trasforma però quelli che filmano l’uomo senza sapere se ce la farà, se è già cadavere o respira ancora, in sciacalli.
Un voyeurismo circense che ben conoscono lettori e telespettatori della saga di Hunger Games, dove le prove assassine dei concorrenti sono seguite da tutti gli abitanti dei distretti assoggettati a una specie di Grande Fratello sadico, un Minotauro mediatico che esige il suo tributo di sangue.
Torna alla mente, per chi ha visto la serie tv Black mirror, la puntata Orso bianco, dove i visitatori di un parco assistono e riprendono la caccia che alcuni uomini danno a una donna. Si muovono come zombie acerbi perché ancora vivi, lobotomizzati quasi dal voyeurismo cui danno sfogo.
Non è tutta colpa del mezzo, certo. In parte è la versione digitale e globale della stupida curiosità che causa rallentamenti, pericolosi, in autostrada, di chi si ferma per vedere l’incidente nell’altra corsia.
Ma siamo oltre la morbosità per un evento cruento; o il cinico sollievo di osservare a quali sventure si è scampati; c’è una bulimia della realtà, anche la più cruda, da catturare con i cellulari nell’illusione di poterla vivere di più, perché rivista, condivisa. È però è un’autoipnosi pericolosa, simile a quella che colpì il protagonista del libro di Luigi Pirandello, I quaderni di Serafino Gubbio operatore (1916), che riprende un attore sbranato da una tigre. Alienato, muto per lo choc, finisce di essere umano e diventa, meccanicamente, una mano.
«Corriere della sera» del 30 gennaio 2017

17 gennaio 2017

I no impossibili dei genitori ai loro ragazzi

Il delitto del Ferrarese
di Antonio Polito
Forse dovremmo rassegnarci al fatto che non abbiamo un diritto all’amore dei nostri figli. La santa alleanza per l’educazione è venuta meno: la scuola è l’epicentro del conflitto. La cultura del narcisismo
Forse dovremmo rassegnarci al fatto che non abbiamo un diritto all’amore dei nostri figli. Da quando si aggrappano a noi per tirarsi in piedi facendoci sentire onnipotenti, a quando noi ci aggrappiamo a loro per frenarne il delirio di onnipotenza, passa tanto tempo. Ci sembrano sempre nati ieri; ma sedici, diciotto anni sono abbastanza per fare del nostro bambino un individuo dotato di
libero arbitrio, di conseguenza diverso da noi. Talvolta estraneo. O addirittura nemico. Riccardo e Manuel, i due complici del parricidio e matricidio di Pontelangorino di Codigoro, sono una storia a sé. Il loro è un comportamento deviante, materia per giudici e psichiatri. Ma anche quei due adolescenti in fin dei conti sono millennials, come chiamiamo con enfasi anglofona i ragazzi di oggi. E lo sappiamo, ce lo raccontiamo ogni giorno, che tra la generazione Y (ormai quasi Z) e quella dei genitori è aperto oggi un conflitto molto aspro. Ce l’hanno con noi. Sostanzialmente perché stiamo lasciando loro meno benessere di quello che abbiamo trovato.
Insieme con il trasferimento del reddito, si è però interrotto il canale di trasmissione di molti altri beni dai padri ai figli. Di valori, per esempio; di conoscenza storica, di credi religiosi, di senso comune, perfino di lingua (si diffonde un italiano sempre più maccheronico). Si è aperto un vuoto di tradizione, insomma; parola la cui etimologia viene per l’appunto dal latino «tradere», trasmettere. I ragazzi vivono così in un mondo in cui le cose che contano sono diverse da quelle che contano per i genitori. Ma il guaio è che è il loro mondo a essere quello ufficiale e riconosciuto, vezzeggiato e corteggiato, perché sono loro i nuovi consumatori.
Al centro di questo mondo c’è una cultura del narcisismo, per usare l’espressione resa celebre da Christopher Lasch. Lo spirito del tempo ripete come un mantra slogan da tv del pomeriggio: «sii te stesso», «realizza tutti i tuoi sogni», «non farti condizionare da niente e nessuno», «puoi avere tutto, se solo lo vuoi». Più di un’educazione sentimentale è un’educazione al sentimentalismo. Al culto del sé, del successo facile, e del corpo come via al successo, sul modello dei calciatori e delle stelline. I genitori, anche i migliori, sono rimasti soli. È finito il tempo in cui «i metodi educativi in famiglia non venivano smentiti o condannati dal contesto», protesta Massimo Ammaniti ne Il mestiere più difficile del mondo, il libro scritto con Paolo Conti e pubblicato dal Corriere. Oggi invece la smentita è continua.
Nessun rifiuto, nessun limite, nessun «no» che venga detto in famiglia trova una sua legittimazione nel mondo di fuori. Il fallimento educativo che ne consegue è una delle cause, non una conseguenza, della crisi italiana. Ne è una prova il fatto che a parlare del disagio giovanile oggi siano chiamati solo gli psicologi e gli psicanalisti, e non gli educatori: come se il problema fosse nella psiche dell’individuo e non nella cultura della nostra società, come se la risposta andasse cercata in Freud e non in Maria Montessori o in don Bosco. È dunque perfino ovvio che l’epicentro di questo terremoto sia la scuola. E che il conflitto più aspro con i nostri figli avvenga sul loro rendimento scolastico. A parte una minoranza di dotati e di appassionati, per la maggioranza dei nostri figli lo studio è inevitabilmente sacrificio, disciplina, impegno, costanza. Tutte cose che non c’entrano niente con il narcisismo del tempo.
Chiunque abbia figli sa quanto sia dolorosa questa tensione. I ragazzi fanno cose inaudite pur di sottrarsi. L’aneddotica è infinita. C’è la giovane che riesce a ingannare i genitori per anni, fingendo di fare esami che non ha mai fatto ed esibendo libretti universitari contraffatti. C’è il ragazzone che scoppia a piangere come un bambino ogni volta che il padre accenna al tema dello studio. C’è quello che dà in escandescenze. Quello che mette il cartello «keep out» sulla porta della cameretta. Quello che non toglie le cuffie dell’iPod. Padri e madri non sanno che fare: fidarsi dei figli e del loro senso di responsabilità, rischiando di esserne traditi? O trasformarsi in occhiuti sorveglianti, rischiando di esserne odiati? Lo spaesamento è testimoniato dall’espressione che usiamo correntemente nelle nostre conversazioni: «Ciao, che fai?». «Sto facendo fare i compiti a mio figlio». «Far fare», un unicum della lingua italiana, una costruzione verbale che si applica solo alla lotta quotidiana con gli studi dei figli.
Bisognerebbe invece fare qualcosa. Ci vorrebbe una santa alleanza tra genitori, insegnanti, media, intellettuali, idoli rock, stelle dello sport, per riprendere come emergenza nazionale il tema dell’educazione, e sottoporre a una critica di massa la cultura del narcisismo. Ma i miei figli cantano, insieme con Fedez: «E ancora un’altra estate arriverà/ e compreremo un altro esame all’università/ e poi un tuffo nel mare / nazional popolare/ La voglia di cantare non ci passerà».
«Corriere della sera» del 13 gennaio 2017

A scuola per il futuro. Cosa studiare per non essere impreparati quando la tecnologia rivoluzionerà il lavoro

Mentre gli istituti aprono le iscrizioni, una guida alle professioni di domani e a quelli (pochi) che già le insegnano
di Jaime D'Alessandro
C'è tempo fino al 6 febbraio per farsi un'idea del futuro. Ed è bene che sia un'idea chiara, il rischio è di mandare allo sbando i nostri figli. Mentre si aprono le iscrizioni alle scuole primarie, medie e superiori in Italia - tre le settimane a disposizione - diventa sempre più difficile capire il senso della parola "formazione" e immaginare quello che potrebbe avere nei prossimi anni. L'importante quindi è mantenere la calma: con buona probabilità la scelta che faremo sarà quella sbagliata.
Qualcuno si consola rifugandosi nel passato. Davanti ad un liceo romano che ha fatto del rigore il suo marchio di fabbrica, un genitore soddisfatto nota come lì "i ragazzi li facciano studiare come ai vecchi tempi ". Un altro scuote la testa: "È questo il problema: li fanno studiare come quaranta anni fa. E a loro non servirà a nulla se non a bruciargli la giovinezza a forza di compiti".
Oltre la metà dei lavori che verranno svolti fra venti anni devono ancora essere inventati, nel frattempo la metà di quelli che conosciamo verrà automatizzata.
In Europa la rivoluzione tecnologica avrà un impatto tangibile su 54 milioni di persone fra Francia, Germania, Spagna, Inghilterra e Italia stando alla Oxford Economic. In Cina si arriva a 394 milioni, in India a 233. Se lo chiedete agli esperti della Silicon Valley, la risposta più frequente che vi daranno di questi tempi e di non prendere la patente C da camionista perché loro verranno presto soppiantati dai veicoli a guida autonoma. Peccato che analizzare i big data o mettersi a programmare, professioni altamente specializzate e oggi tanto richieste, possono dare qualche garanzia solo nell'immediato. Se la rivoluzione dell'intelligenza artificiale manterrà le sue promesse, né loro né gli avvocati o i radiologi saranno al riparo. In un mondo dai ritmi accelerati, dove le macchine apprendono da sole, le professioni verranno create e soppresse a ciclo continuo. E allora cosa far studiare a chi entra a scuola oggi è un quesito che non ha una risposta se si vuole andare sul sicuro.
"Imparare bene a scrivere e parlare la propria lunga e almeno una straniera, oltre alla scienza, storia e matematica servirà sempre", avverte Salvatore Giuliano, dirigente del Majorana di Brindisi, istituto pubblico dove i testi sono digitali e condivisi e le classi hanno perduto le pareti aprendosi al mondo. "Lo sforzo vero va fatto sul metodo: lavorare in gruppo, far circolare le idee, sperimentare. Come avviene nel mondo del lavoro che funziona. E incoraggiare il "pensiero divergente": la scuola e la società italiana insegnano a rispondere in un solo modo ad una domanda, quando invece le risposte possibili sono sempre molte di più".
All'atto pratico non resta che frequentare gli "open day" delle medie e dei licei, quando vengono aperte le porte ai genitori, cercando di non farsi abbindolare da una vetrina che come vetrina è stata pensata e non è detto rifletta pienamente la realtà delle cose.
Ma che serva un percorso aperto è chiaro a tutti. O meglio, a molti. A Milano quattromilacinquecento studenti hanno preso d'assalto i mini corsi organizzati gratuitamente da Sky nella sua sede. I ragazzi realizzano un telegiornale usando apparecchiatura professionale in quattro studi diversi e tornano a casa con il loro montato e un software per proseguire a divertirsi a casa sul pc. Tutto pieno fino al prossimo anno e le classi cominciano ad arrivare anche dal centro e sud Italia.
Tornando ai numeri il European Centre for the Development of Vocational training (Cedefop) dell'Unione europea, sostiene che da qui al 2025 delle 107 milioni di opportunità di lavoro, circa 46 milioni saranno lavori altamente qualificati, dunque con una preparazione alle spalle che è di livello universitario o fortemente specializzata. Seguiti da 43 milioni di lavori mediamente qualificati. Solo 10 milioni saranno quelli per i quali non serve una particolare preparazione. E negli Stati Uniti la musica è la stessa. Imparare a confezionare un video quindi può tornare anche utile. I video già ora rappresentano il 55 per cento del traffico dati da mobile. E nessuno prevede una diminuzione ma anzi, un aumento esponenziale.
"Torniamo sempre al solito punto: non sappiano cosa servirà domani con esattezza", racconta Riccardo Donadon, fondatore a Venezia di quella strana realtà chiamata H-farm che dalle startup e dall'innovazione per le aziende ora è passata alla formazione di studenti fra i sei e i 17 anni. "La scuola deve essere divertente. Se tutto cambia, l'unica è divertirsi a imparare. Imparare in forma continua. Puntando sulla tecnologia e allo stesso tempo sulla parte umanistica. La sbornia da digitale è controproducente senza questa base di fondo".
A Fabrica, che sorge poco distante e che da anni sforna talenti legati alla comunicazione e alla creatività, la pensano allo stesso modo. "La curiosità", spiega Carlo Tunoli, che dirige l'istituto. "Non conosco altro metodo. La parte tecnico-scientifica ha un ruolo di grande
impatto. Ma io personalmente non sottovaluterei la filosofia. Apre la mente e ti prepara all'inaspettato". Ecco: prepararsi all'inaspettato, assumere le basi, frequentare una scuola dove l'apprendere sia divertimento. Incrociando le dita e sperando che tutto vada per il meglio.
«la Repubblica» del 17 gennaio 2017

Se il totalitarismo è giudiziario

di Pierluigi Battista
A Roma non si sa dove e quando e come potranno essere collocate le bancarelle dei libri (che ci sono da sempre, e sono un meraviglioso momento di sosta) perché lo deve stabilire la magistratura. Nel Texas la Apple è stata messa sotto accusa giudiziaria perché un automobilista, usando FaceTime mentre era alla guida, aveva violentemente urtato un’altra macchina provocando la morte di una bambina che era a bordo. La colpa è di aver inventato la app per le videochiamate senza la funzione che la disattiva nei veicoli in movimento. Cioè la colpa non è solo del deficiente criminale che fa videochiamate mentre guida, ma della società che non ha previsto l’esistenza di un deficiente criminale che guarda dentro al telefonino ammazzando la gente con la macchina che guida. Intanto in Italia si stabilisce che le leggi elettorali non le fa il Parlamento ma la Corte Costituzionale. La quale Corte Costituzionale aveva già deliberato su importanti provvedimenti di politica economica del governo, come l’intervento sulle pensioni. Con l’approvazione della legge sulle unioni civili, pare non abbia molta importanza la disciplina della stepchild adoption perché valuteranno i magistrati caso per caso. E del resto, l’assenza di una legge sul testamento biologico demanda alla magistratura anche l’ultima parola sui temi decisivi come la vita e la morte. La magistratura francese può decidere se a un intellettuale è permesso di sottolineare i pericoli dell’islamismo politico senza essere portato in tribunale come «islamofobo». In Italia la magistratura può disporre il sequestro giudiziario, con conseguenze economiche notevolissime, della centrale termoelettrica di Vado Ligure mentre in un’altra regione un’altra centrale identica può continuare a lavorare con gli stessi livelli di inquinamento accertati dalle autorità sanitarie e ambientali. Cosa ci dice questa macedonia di casi tanto diversi tra loro? Cosa hanno in comune tutti questi episodi? Hanno in comune in tutto il mondo lo strapotere della dimensione giudiziaria su ogni altro aspetto della vita pubblica. La «giuridicizzazione» radicale e totale dei rapporti sociali, politici, economici, antropologici in cui si imbatte l’umanità. L’idea che l’ultima parola spetti sempre a un’autorità giudiziaria. In Italia e ovunque. Vi sentite tranquilli nel mondo del totalitarismo giudiziario?
«Corriere della sera» del 15 gennaio 2017

09 gennaio 2017

Educare, non solo istruire. Contro il buonismo di stato

Una emergenza nazionale
di Susanna Tamaro
Questa scuola sommamente democratica, che da troppo tempo ha smesso di pretendere, è una scuola sempre più classista. Chi può, infatti, già da tempo manda i figli negli istituti privati, se non all’estero; chi ha meno possibilità ma è consapevole della catastrofe, supplisce con l’impegno personale
Non so quanti spettatori abbia avuto il nuovo reality della Rai Il Collegio. Non essendo un’esperta di format non so dire quanto di quello che ho visto sia reale o sia invece frutto di una forzatura drammaturgica degli sceneggiatori. Certo che ad assistere alle prestazioni scolastiche di questo drappello di simpatici adolescenti c’è da rimanere davvero turbati. Davanti a una cartina muta dell’Italia, le Marche sono state scambiate per la Puglia e le città citate qua e là senza cognizione alcuna della loro reale posizione. Per non dire della lezione di storia, in cui i ritratti di Mazzini e Cavour risultavano praticamente sconosciuti ai più, o della lezione di matematica in cui un problema di quinta elementare degli anni 60 è stato risolto solo da una ragazza che ha ammesso di amare la matematica. Che questa non sia finzione ma triste realtà ce lo confermano le statistiche internazionali che ci hanno visto precipitare nelle graduatorie Ocse di due punti in un solo anno, relegandoci al 34° posto su 70 paesi. Ci difendiamo a stento nella matematica, mentre nel campo delle lettere e delle scienze l’ignoranza risulta pressoché assoluta. Del resto anche i dati nazionali ci confermano che il numero di persone capaci di leggere un testo e di capirne il significato sia calato di anno in anno in maniera esponenziale.
Si è parlato molto della Buona Scuola come di una riforma determinante, purtroppo — posto che tutte le riforme sono un segno di buona volontà e perfettibili — non sembra per il momento essere riuscita ad intaccare la degradata fossilizzazione del nostro sistema educativo. Introdurre i tablet, le mitiche lavagne interattive, facendo credere che l’àncora di salvezza stia nella modernizzazione informatica è un po’ come mettere del cerone su un volto ormai devastato dalle rughe. E inoltre, come ben spiega Adolfo Scotto di Luzio nel suo bel saggio Senza educazione, per non far sì che le nostre aule si trasformino in un museo del modernariato l’informatizzazione richiederebbe un enorme impegno economico, impossibile da sostenersi senza il contributo di realtà esterne.
È indubbio che il primo passo verso questo inarrestabile degrado sia da far risalire alla riforma compiuta negli anni ottanta del secolo scorso. Fu allora che la scuola elementare, in omaggio al mondo anglosassone, venne trasformata in primaria, avviandola verso una rapida «liceizzazione», abolendo l’insegnante unica per venire incontro ai sindacati, da sempre gli unici veri interlocutori del Ministero. Così i pensierini sono stati sostituiti dall’analisi del testo, la grammatica — «sul qui e sul qua l’accento non va», ricordate? — è stata rimpiazzata da schede prestampate; al posto delle ciliegie da sommare e delle torte da frazionare sono comparse le corrispondenze biunivoche e le entità equipotenti. Per non parlare del riassunto e del ripetere un testo a memoria: cancellati con un colpo di spugna in quanto richiedevano troppo sforzo. In un mondo che insegue ormai unicamente ciò che è fluido, l’idea che esistano dei principi fondanti nel sapere — gli elementi, appunto, cioè qualcosa di universale e stabile nel tempo — non può che venir considerata obsoleta e anacronistica.
Il disastro dei ragazzi che confondono le Marche con la Puglia, che scrivono, come mi è capitato di leggere in una tesi di laurea «s’eppure» oppure «io, vado, a casa,» e che davanti ad una foto di Mussolini balbettano incerti sul nome. «Maurizio?» e poi si giustificano dicendo, a pochi mesi dalla maturità, «veramente non l’abbiamo mai fatto…» è un disastro partorito da un sistema che, in nome del lassismo, della demagogia, del vivi e lascia vivere «tanto l’importante è il pezzo di carta», ha costantemente abbassato il livello delle pretese. È anche colpa di un sistema politico che ha sempre considerato il Ministero dell’Istruzione come un jolly da tirar fuori dal cappello nei momenti di bisogno, una botta ai sindacati, una botta ai concorsi, un po’ di fumo soffiato in faccia alle famiglie per mascherare che sotto il fumo non c’era nessun arrosto e avanti così, inventando pompose rivoluzioni che, alla prova dei fatti, si sono mostrate, per lo più, drastiche involuzioni. Delle famose tre «I» — Informatica, Inglese, Impresa — che cos’è rimasto? Aule intasate di computer obsoleti e generazioni di ragazzi che dopo tredici anni di studio della lingua e grammatica inglese sono totalmente incapaci di sostenere anche una minima conversazione dell’agognato idioma. La «I» di impresa non la cito neppure perché il più delle volte la sua stessa realizzazione è stata falciata sul nascere da una burocrazia ottusamente elefantiaca e dai capestri delle banche.
Diciamolo una volta per tutte. Questa scuola sommamente democratica, che da troppo tempo ha smesso di pretendere dai suoi studenti — e dunque di educare — è una scuola sempre più classista. Chi può, infatti, già da tempo manda i figli negli istituti privati, se non all’estero; chi ha meno possibilità ma è consapevole della catastrofe, supplisce con l’impegno personale — ripetizioni, corsi estivi, etc. Per tutti gli altri non c’è che la deriva del ribasso, l’andare avanti di inerzia con la costante consapevolezza che impegnarsi o non impegnarsi in fondo sia la stessa cosa.
L’educazione è la vera e grande emergenza nazionale. Non essere gravemente allarmati e non fare nulla per risolverla vuol dire condannare il nostro Paese ad una sempre maggior involuzione economica e sociale. Che adulti, che cittadini, che lavoratori saranno infatti i ragazzi di queste generazioni abbandonate alla complessità dei tempi senza che sia stato loro fornito il sostegno dei fondamenti? Sono stati cresciuti con il mito della facilità, del tirare a campare, ma la vita, ad un certo punto, per la sua stessa natura pretenderà qualcosa da loro e gli eventi stessi inevitabilmente li porranno davanti a delle realtà che di facile non avranno nulla. Allora, forse, rimpiangeranno di non vere avuto insegnanti capaci di prepararli, di educarli.
Già, educare! Termine reietto, spauracchio dell’abuso e della diseguaglianza. Non sarà per questo che in Italia il nostro Ministero, diversamente che in Inghilterra, è chiamato dell’Istruzione non dell’Educazione? Sono la stessa cosa? Non proprio, perché istruire - cito il dizionario della lingua italiana — vuol dire «far apprendere qualcuno le nozioni di una disciplina» mentre educare vuol dire «formare, con l’insegnamento e con l’esempio, il carattere e la personalità dei giovani, sviluppando le facoltà intellettuali e le qualità morali secondo determinati principi». Educare richiede l’esistenza di un principio di autorità, principio ormai scomparso da ogni ambito della vita civile. Chi educa oggi? Le poche famiglie che caparbiamente si intestardiscono a farlo si trovano a vivere come salmoni controcorrente. Il «vietato vietare», con la rapidità osmotica dei principi peggiori, ormai è penetrato ovunque, distruggendo in modo sistematico tutto ciò che, per secoli, ha costituito il collante della società umana.
Dalle maestre chiamate per nome, ai professori ai quali si risponde con sboccata arroganza, al rifiuto di compiere qualsiasi sforzo, all’incapacità emotiva di reggere anche una minima sconfitta: tutto il nostro sistema educativo non è altro che una grande Caporetto. Agli insegnanti validi — e ce ne sono tanti — viene pressoché impedito di fare il loro lavoro, anche per l’aureo principio, tipicamente italiano, per cui un eccellente ombreggia i mediocri che non vogliono essere messi in discussione nella loro quieta sopravvivenza. Abbiamo il corpo insegnante più anziano d’Europa, il gran caos demagogico dei concorsi ha paralizzato il naturale ricambio generazionale e la miserabile retribuzione della categoria ha trasformato l’insegnamento in una sorta di sine cura per molti.
In realtà insegnare è un lavoro altamente usurante, richiede energie enormi, intelligenza della mente e del cuore, passione per la materia e una visione costruttiva del futuro. Fin da subito dunque migliori risorse economiche andrebbero destinate proprio alla classe docente, cominciando a restituire agli insegnanti, oltre alla dignità, l’autorità necessaria per educare veramente le giovani generazioni. Solo così la scuola tornerà ad essere una possibilità di crescita offerta a tutti, e non solo ai pochi privilegiati che si possono permettere la fuga dal demagogico lassismo dello Stato.
«Corriere della sera» dell'8 gennaio 2017

05 gennaio 2017

Il successo di Alberto Angela, una lezione per la Rai

L’unica strada per uscire dal tunnel imboccato ai tempi del duopolio con Mediaset (che portò a una omologazione miseramente «al basso» del prodotto) è puntare sulla qualità, perno identitario del servizio pubblico
di Paolo Conti
Partiamo dalle cifre: 14 milioni di persone hanno visto, martedì alle 21 in prima serata su Raiuno, «Stanotte a San Pietro» di e con Alberto Angela, con un ascolto medio di 6 milioni di persone e uno share di oltre il 25%. Era dal 2003, sottolineano a viale Mazzini, che un programma di divulgazione culturale non otteneva un successo clamoroso come questo. La Rai, lo sappiamo, è in una vistosa crisi legata alla progressiva decadenza della tv generalista e alla parallela crescita dell’offerta digitale e dei grandi distributori di contenuti su tutte le piattaforme, Netflix è forse l’esempio più eloquente.
Il risultato di Alberto Angela è la prova plastica di ciò che tanti continuano, e inutilmente, a raccomandare alla Rai: l’unica strada per uscire dal tunnel imboccato ai tempi del duopolio con Mediaset (che portò a una omologazione miseramente «al basso» del prodotto) è puntare sulla qualità, perno identitario del servizio pubblico. Ma la qualità, la serata di Angela lo dice, non è noia (come teorizzano certi «maghi del palinsesto» pronti a mettere mano ai reality per fare cassa e ascolti) ma intrattenimento, scoperta, legame con le radici culturali, racconto storico-artistico, bellezza tecnica delle immagini. Difficile, certo, perché ci vuole conoscenza e professionalità. Ma non impossibile.
È ovvio che mezza Rai oggi alzi il vessillo della vittoria, con certi numeri è fin troppo facile. Il problema è il passo successivo: cioè continuare a credere in questa scommessa editoriale, in un cambiamento di rotta che può portare solo dati positivi non solo in termini di share ma anche nella società diffusa. Un prodotto di qualità attira diverse generazioni davanti al video, favorisce lo scambio delle idee e delle opinioni, spinge ad altre avventure culturali. Festeggiare è ovvio, a patto che domani non si dimentichi tutto nel nome dell’ennesimo, triste, Talent visto e stravisto.28 dicembre 2016
«Corriere della sera» del 28 dicembe 2016

04 gennaio 2017

Il giudice è il lettore

Nel dibattito sui falsi che circolano in rete non siamo noi i colpevoli. La prima responsabilità ricade infatti su chi da anni predica l’inutilità di esperienza e competenza
di Mario Calabresi
L’Italia è al 77esimo posto nella classifica della libertà di stampa, dietro Paesi africani come Burkina Faso e Benin. Il motivo? Non quello che pensano i detrattori del nostro giornalismo, ovvero l’asservimento al potere, ma il contrario: troppi sono i giornalisti minacciati dalle mafie e dalla criminalità organizzata per le loro inchieste su malaffare e corruzione. Come se non bastasse abbiamo il record delle cause contro i giornali intentate dai politici, che mal sopportano l’idea che qualcuno faccia loro le pulci o li critichi e così ricorrono ai tribunali con evidente scopo intimidatorio.
Non da ieri si è aggiunto alla schiera dei politici che vorrebbero mettere la museruola ai giornalisti anche Beppe Grillo. Evidentemente infastidito dall’idea che qualcuno rompa l’incantesimo a 5 Stelle e denunci corruzione, incapacità e opacità delle amministrazioni a lui legate, come sta accadendo a Roma.
Sarebbe sbagliato orchestrare una difesa d’ufficio del giornalismo italiano, senza dubbio non esente da pecche e peccati, ma nel dibattito sui falsi che circolano in rete non siamo noi i colpevoli. La prima responsabilità ricade infatti su chi da anni predica l’inutilità di esperienza e competenza, per cui chiunque può concionare su vaccini, scie chimiche, chemioterapia o cellule staminali con la pretesa di avere in tasca una verità popolare, da nulla suffragata se non da un sentimento di massa.
I danni che questo nuovo conformismo della Rete sta facendo al dibattito pubblico sono incalcolabili. Grillo propone una giuria popolare di fronte alla quale trascinare i direttori per far loro ammettere gli errori a testa bassa. Se l’idea della giustizia popolare non facesse venire alla mente precedenti storici drammatici, sarebbe da riderci sopra. E quanto ai tribunali, esistono già e continuamente si occupano di direttori chiamati a rispondere per quanto scritto sui loro giornali. A Grillo piace l’idea di una giustizia fai da te, come quella che decide espulsioni e ammende all’interno del movimento.
A noi, però, preoccupa di più il danno che la propaganda grillina arreca al tessuto sociale, alla fiducia nell’informazione
e il farsi strada dell’idea che il giornalismo sia establishment a cui contrapporre il popolo. Il nostro popolo è la comunità dei lettori, che è anche il nostro unico giudice. Il suo verdetto lo emette ogni mattina, decidendo se leggerci o no.
«la Repubblica» del 4 gennaio 2017

01 gennaio 2017

Consigli di lettura per chi dice no al presepe

Interessante la testimonianza contenuta nel libro «L’Iran oltre l’Iran» di Alberto Zanconato: «Nei due decenni che ho passato in Medio Oriente non ho incontrato un solo musulmano che si sentisse offeso da alberi di Natale e presepi»
di Gian Antonio Stella
Il cappellano del cimitero di Cremona, don Sante Braggiè, che si è rifiutato di allestire il presepe per il «rispetto verso altre religioni e la volontà di non entrare in dinamiche politiche» dovrebbe leggere un po’ di più. Se aprisse ad esempio il libro «L’Iran oltre l’Iran» di Alberto Zanconato, a lungo corrispondente dell’Ansa a Teheran e oggi a Beirut, troverebbe queste righe: «Tra i seguaci del Politicamente Corretto ci sono coloro che vorrebbero vietare i festeggiamenti di Natale nelle scuole per non urtare la sensibilità dei bambini musulmani e dei loro genitori. Nei due decenni che ho passato in Medio Oriente non ho incontrato un solo musulmano che si sentisse offeso da alberi di Natale e presepi».
Inoltre, prosegue, «Gesù è uno dei più importanti profeti dell’Islam e Maria una figura tra le più venerate dai musulmani. Reza, un amico iraniano che non mancava di recitare quotidianamente le preghiere, non beveva alcol e osservava coscienziosamente il digiuno del Ramadan, mi chiese un giorno, mentre partivo per le vacanze in Italia, di portargli al mio ritorno le statuine del presepio, per suo figlio. Diverse volte per Natale la televisione di Stato di Teheran ha trasmesso un film sulla Madonna di Lourdes, e i presidenti iraniani non mancano di fare gli auguri al Papa e a tutti i cristiani». Nel 2006 perfino l’allora presidente Mahmud Ahmadinejad, considerato un integralista, «ricordò la credenza degli sciiti secondo la quale Gesù tornerà sulla Terra al fianco del loro dodicesimo Imam, il Mehdi, nel giorno della riapparizione di quest’ultimo per “porre termine alla tirannia” insieme a lui. Gesù, diceva l’ayatollah Rouhollah Khomeini, il fondatore della Repubblica islamica, “era un grande profeta”. Anzi, secondo il Corano, è stato un profeta fin da quando era nella culla”».
E parliamo, ovvio, della culla di Betlemme. Dove spicca la figura della Madonna. La quale, come ha ricordato sul Corriere Vittorio Messori, è amata in tutto il mondo islamico: «Il Corano dedica alla Madre di Gesù un’intera Sura, ne fa il nome venerato per 40 volte, l’innalza sino al fianco di Fatima, la figlia prediletta del Profeta, le affida un ruolo di maternità misericordiosa, ne difende l’onore contro gli ebrei che la diffamano (la “calunnia mostruosa” sulla sua verginità che provocherà “il castigo di Dio” e “l’ira dei credenti” contro Israele, dice il Testo sacro)». A farla corta: Dio ci scampi dai fanatici del presepe usato come vessillo identitario. Ma anche dai sacerdoti del politicamente corretto ...
«Corriere della sera» del 27 dicembre 2016