27 novembre 2016

Andy Garcia, l’attore racconta: «Una vita da esiliato per colpa di Castro. E il regime c’è ancora»

L'esule
di Giovanna Grassi
L’attore: «Castro era accecato dalle sue idee e nessun revisionismo storico mi farà cambiare idea. Mai per il mio Paese mi sono sentito un figliol prodigo»
LOS ANGELES - Andy García, nato all’Avana nel 1956, naturalizzato cittadino statunitense da molti anni, dice d’un fiato: «Cuba e la sua cultura sono nel mio Dna, sono l’essenza della mia identità, ma non ho mai risparmiato critiche a Castro. Ho sempre detto che Cuba è stata tradita, mistificata, usata da Fidel. Un dittatore. Non una icona rivoluzionaria». L’attore (che ha sfiorato l’Oscar con Il Padrino III) ha girato un film da regista, The Lost City, proprio sulla Cuba di Batista e della presa del potere di Castro.

Una saga ispirata anche alla storia della sua famiglia...
«Avevo 5 anni quando mio padre decise di emigrare a Miami, come centinaia di esuli cubani. Per anni mi ha spaventato e fatto soffrire vedere su tante magliette l’immagine di Castro “salvatore”, quando, invece, ha distrutto l’economia del mio Paese. Ho portato dentro di me per anni il dolore dell’esilio della mia famiglia per colpa di quello che, ripeto, ho sempre considerato un cattivo condottiero».

Che ricordi ha di suo padre e della fuga a Miami in cerca di una nuova vita?
«Mio padre era stato un grande avvocato e un libero giornalista e pensatore. In America cominciò a lavorare come cameriere. Gli sono grato per il suo coraggio e perché ha dato a tutti noi figli il più autentico valore della libertà e la conoscenza di tanti nostri compatrioti dissidenti gettati in fondo al mare, dopo essere stati uccisi e aver sofferto nelle prigioni. Castro era accecato dalle sue idee e nessun revisionismo storico mi farà cambiare idea».

Si è mai sentito un figliol prodigo?
«Posso solo dire che tutta la mia vita è stata segnata dalla nostalgia per Cuba. Mai per il mio Paese mi sono sentito un figliol prodigo. Non ho mai creduto in questa rivoluzione. Penso che per anni e anni la mia splendida Cuba sia diventata un Paese amletico e ferito per colpa di due regimi, quello di Batista e quello di Castro».

Quanto si considera americano e democratico e quanto cubano e conservatore?
«Non mi piacciono queste etichette, comunque l’anima più autentica di Cuba ha sempre cercato la libertà. Il presidente Obama ha giustamente più volte ricordato le parole del poeta cubano Josè Martí: “Libertà è la condizione base per ogni uomo che voglia sentirsi ed essere onesto”».

Lei ha denunciato anche in televisione quelli che ha definito «gli eccidi di Castro» ...
«Hanno causato spaccature ideologiche in diverse generazioni. Il sogno della rivoluzione ha segnato, più nel male che nel bene, tante identità. Tanti giovani si sono uccisi per questo. Ho rifiutato molti commenti quando Obama con una cosiddetta “nuova era” decise di ripristinare le relazioni tra Cuba e Stati Uniti dopo colloqui con Raúl Castro e ho taciuto su alcuni appelli di papa Francesco».

Che cosa vuole dire oggi?
«Quello che ho sempre ripetuto: tornerò a Cuba quando finirà il regime e il mio popolo non sarà più oppresso. L’America mi ha offerto la libertà, le sarò sempre grato».

In tanti la pensano diversamente, anche fra i «latinos» in Florida o in California ...
«Spero che si avvicini la libertà per il popolo cubano ma le diramazioni del potere di Castro sono infinite. Anche se siamo lontani dagli anni Sessanta che hanno ingiustamente idealizzato Fidel trasformandolo in una sorta di Robin Hood».
«Corriere della sera» del 26 novembre 2016

Il mito di Castro e la negazione della realtà

Gli intellettuali di sinistra hanno chiuso gli occhi per credere all’utopia comunista e non vederne le ombre
di Pierluigi Battista
Nei cuori dei suoi adoratori d’Occidente, Fidel Castro non era un essere umano in carne e ossa, ma un mito, un idolo, una figura onirica. Era l’Utopia dei Caraibi. Rousseau al potere. La poesia del socialismo tropicale. La fantasia dell’«uomo nuovo» che si incarna tra le acque coralline e la sabbia candida. Era la nuova frontiera di un sogno rivoluzionario che fosse attraente e allegro, non il grigiore lugubre della caserma sovietica uscita dal mito o l’ascetismo conventuale del pauperismo maoista. Diceva Alberto Ronchey che Castro «non scrive, tiene lunghi discorsi nei quali discioglie pensieri e problemi. Non s’affida quasi mai al mezzo gutenberghiano, lascia fluide le parole con i loro suoni». La parola scritta congela i pensieri, li fa misurare con la durezza della realtà. Il romanticismo dei castristi ignora la realtà. Si lascia abbracciare dal fluido ipnotico delle parole. Se si misurasse con la realtà sarebbe costretto a scoprire che il socialismo dei Tropici è una prigione a cielo aperto, e l’esotismo è un velo per nascondere atrocità da dittatura.
Gli scrittori e gli intellettuali che si sono fatti catturare dalla fantasia castrista hanno messo da parte la realtà per idolatrare il loro mito. I dissidenti in galera sono stati ignorati. Gli esuli che pure erano stati al fianco di Fidel Castro nell’epopea della Sierra Maestra messi in un angolo. Carlos Franqui, un grande rivoluzionario che ha avuto il torto di dissentire dalla stretta repressiva del regime, è stato costretto ad espatriare e nei circoli progressisti del mondo il suo nome è sparito (solo i socialisti di Bettino Craxi e i Radicali in Italia si sono accorti di lui). Gabriel Garcia Marquez, Susan Sontag, Jean-Paul Sartre e altri meno celebri venivano omaggiati nelle manifestazioni dell’Avana, ma non spesero una parola di solidarietà per gli scrittori perseguitati. Ha scritto Hans Magnus Enzensberger, che pure ha fatto parte della folta schiera dei «pellegrini politici» che avevano preso Cuba come meta privilegiata di turismo rivoluzionario: «All’Avana incontrai alcuni comunisti negli hotel per stranieri che non avevano la più pallida idea che nei quartieri operai la popolazione doveva fare la fila di due ore per un pezzo di pizza, nel frattempo i turisti, nelle loro stanze d’hotel, discutevano di Lukács». Quando un prigioniero politico, Orlando Zapata Tamayo, si è lasciato morire in carcere dopo 85 giorni di sciopero della fame per protestare contro le condizioni inumane in cui il regime di Castro ha costretto i dissidenti, non un parola di pietà si è alzata dai sostenitori dell’esotismo socialista a Cuba. Nel 2005, al termine di uno dei processi farsa con cui la dittatura amava procedere alle sue «epurazioni», le squadracce del regime trascorsero una notte a malmenare i dissidenti che protestavano, Gianni Vattimo ebbe l’ardire di scrivere che «il popolo, indignato con atti di tradimento così sfacciato, è intervenuto con la sua espressione di fervore patriottico»: nessuno si indignò in Italia per queste enormità, molto cool.
Attorno alla figura di Castro si creò tra gli intellettuali, gli artisti, gli scrittori, una corrente miracolistica che stingeva molto spesso nella collaudata retorica del culto della personalità. Per Sartre Castro e Che Guevara, proiettati verso il paradiso del socialismo da realizzare, erano sempre svegli e vigili: «Il dormire è per questi uomini una routine dalla quale si erano più o meno liberati». E qualcosa di questa insonnia rivoluzionaria doveva essere vera se perfino Paolo Spriano, durante un suo viaggio a Cuba in cui pure non lesinò larvate espressioni critiche per una rivoluzione in cui l’Internazionale stava per «trasformarsi in un ritmo ballabile», aveva scritto: «Qui non dorme nessuno, si direbbe». Nell’epopea castrista sono da ricordare i film di propaganda di Michael Moore, le interminabili interviste devote di Oliver Stone e di Gianni Minà in cui Castro poteva sfogarsi nei suoi comizi fluviali, Norman Mailer che vedeva in Castro la «dimostrazione che esistono degli eroi nel mondo», «il fluire della vita nelle vene», «come se il fantasma di Cortés fosse apparso nel nostro secolo cavalcando il cavallo bianco di Zapata».
E la realtà? Non doveva esistere. Se veniva incarcerato come controrivoluzionario il poeta Heberto Padilla, che per essere liberato avrebbe dovuto sottoscrivere una «confessione» in cui ammetteva di aver avuto contatti con K.S.Karol un comunista onesto e coraggioso che denunciava apertamente la repressione del regime, lo scrittore García Márquez non rinunciava alle sue cerimonie con Castro. O se incarceravano per 19 anni Armando Valladares, o il regista Amaro Gomez, condannato a 8 anni di carcere per essersi procurato clandestinamente una copia dell’Arcipelago Gulag di Solženicyn. E non esistevano nemmeno nel mito i «maricones», gli omosessuali «immorali» rinchiusi nei campi di lavoro forzato ribattezzato dalla fantasia guevarista Umap, Unità Militari di Aiuto alla Produzione. Il mito castrista non permetteva simili, fastidiose incursioni della realtà. Hasta siempre.
«Corriere della sera» del 26 novembre 2016

21 novembre 2016

Le alleanze necessarie senza «post verità»

L’argomento più comune in questa vigilia referendaria è: chi sta con chi, a quale (cattiva) compagnia si appartiene, con quale nemico tocca condividere una scelta per il No o per il Sì
di Pierluigi Battista
In questa concitata vigilia referendaria si porta un argomento molto frusto e che, come dire, elude per principio ogni considerazione di merito sul quesito del referendum. E cioè: chi sta con chi, a quale (cattiva) compagnia si appartiene, con quale nemico tocca condividere una scelta per il No o per il Sì.
È un argomento abbastanza sciocco, perché il referendum, per sua natura, mette insieme identità diverse visto che per raggiungere l’agognato 50% più uno è impensabile che si possa contare solo su quelli che già la pensano come te. È un argomento sciocco senza fondamento storico. Per dire: Pci e Msi nel ’53 sono stati insieme d’amore e d’accordo, aggregati nella stessa «accozzaglia», solo perché, essendo ambedue all’opposizione, si sono battuti contro la (peraltro benemerita) cosiddetta «legge truffa»? Oppure: si può dire che nel ’74 Lotta Continua e il Pli di Giovanni Malagodi facessero parte della stessa combriccola essendo schierati a favore del divorzio nel referendum voluto dalla Chiesa e da Fanfani? È un argomento sciocco, chiunque voglia usarlo: oggi si direbbe una «post-verità».
È quasi inevitabile che a farne più uso sia il fronte che sostiene il governo padre della riforma, cioè il Sì, giacché il No tende ad aggregare le forze che non sono del governo. Però se si usasse per stupida ritorsione l’argomento che mette in uno stesso multiforme cesto Grillo e Salvini, Berlusconi e Monti ecc., si avrebbe lo stesso stupido accostamento di opposti. Per dire: Denis Verdini e Luciano Violante, Marcello Pera e il post-vendoliano Gennaro Migliore, Flavio Briatore e Gad Lerner, il finanziere del fondo Algebris Davide Serra e il segretario della Cisl Marco Bentivogli, Vittorio Feltri e Michele Santoro, Giuliano Ferrara e Roberto Benigni, Giorgio Napolitano e il cosentiniano Vincenzo D’Anna, Vladimir Luxuria e Angelino Alfano, il poco amato dalla sinistra Vezio Crisafulli e il sindaco di Sel di Cagliari Massimo Zedda, Emma Bonino e Beatrice Lorenzin. Ma che senso avrebbe? Nessuno. Sarebbe una sciocca contropartita per opporsi a una sciocchezza di segno opposto. Invece il referendum, per sua essenza, e non essendo un pronunciamento popolare sul governo che si vorrebbe (a questo ci pensano le elezioni politiche), deve mettere insieme forze diverse e contrastanti destinate a convergere su un unico punto, rappresentato dal quesito referendario. E poi vinca chi ci riesce, senza post-verità.
«Corriere della sera» del 20 novembre 2016

18 novembre 2016

La secessione dalla correttezza nel silenzio della cabina elettorale

L’analisi
di Pierluigi Battista
Gli elettori americani hanno votato, segretamente, nel segreto dell’urna come si dice. E per molti, che pubblicamente avevano dichiarato di voler votare Clinton, proprio alle urne si è consumata la vendetta contro il «politicamente corretto»
Molti elettori americani, raccontano gli inviati in Ohio e nel Michigan, o nel Wisconsin, confessano di aver mentito nei sondaggi e di aver tenuto nascosto che avrebbero votato per Trump. «Non volevo che mi criticassero», dice uno. «Non volevo litigare», dice un’altra. «Mi avrebbero fatto vergognare», ha confessato un altro ancora. Ma perché? Cosa li ha trattenuti dal dire la verità? Volevano tenere segreta la loro scelta «impresentabile», ecco perché. Non avrebbero mentito se avessero scelto Clinton, perché sapevano che la loro scelta sarebbe rientrata nei canoni della correttezza (politica). Sapevano che esistono delle regole che impongono ciò che si può dire e ciò che non si può dire e che «io voto Trump» avrebbe infranto queste regole non scritte. E in cuor loro sapevano che chi imponeva quelle regole faceva parte del mondo che ha il potere delle parole. E contro i depositari del potere delle parole, contro il solito establishment, è partita la rivolta.
La «secessione delle plebi» come ha osservato acutamente Massimo Cacciari. La secessione segreta ma inesorabile dal mondo del «politicamente corretto». La secessione dal «regno della parola» come si intitola un libro che sta per uscire in Italia (Giunti) di Tom Wolfe, uno scrittore che ha infilzato i tic e le autocensure del politicamente corretto come nessun altro. Un regno in cui comandano antipatici pedagoghi, educatori odiosi che bacchettano sulle dita i riottosi e i trasgressori. E i pedagoghi spocchiosi non si amano. Non si votano. Si votano invece, segretamente, nel segreto dell’urna come si dice, quelli che stanno fuori, che stanno contro, che parlano una lingua libera dalle ingiunzioni del politicamente corretto. Votano Trump. O votano Brexit senza dirlo ai sondaggisti ma nel segreto dell’urna per mettere in pratica una secessione radicale dai gruppi dirigenti della società che parlano una lingua spocchiosa e innaturale, elitaria e censoria, autoritaria e intransigente: la lingua del politicamente corretto, appunto.
Il politicamente corretto ha anche qualche merito: impone di non offendere chi è più debole, chi viene messo ai margini attraverso il linguaggio. Quando esagera, diventa uno strumento intollerante. Vietare all’Università il «Tito Andronico» di Shakespeare perché, bollandolo di sessismo, contiene scene di stupro e offende le studentesse che hanno subito molestie sessuali non è solo una sciocchezza, ma esaspera la rivolta, offre un’arma a chi sente come asfissiante il controllo delle parole nella dimensione pubblica e si rifugia in una resistenza privata che arriva fino al voto segreto e scandalosamente inaccettabile. Nella dimensione pubblica viene lasciato campo libero ai guardiani occhiuti del verbo della correttezza politica. Ma lontano dallo sguardo sociale si prepara la vendetta.
Dicono che non è vero, che l’emergere dei movimenti «populisti» stia al contrario sdoganando il politicamente scorretto e la cattiveria. Sicuri? Nel mondo dei social, dove circolano cose feroci e anche immonde sulle donne, sui neri, sui gay, sugli immigrati, i troll più scatenati sono quasi tutti degli anonimi, che dalla caverna segreta del rancore vomitano insulti contro il mondo del politicamente corretto senza mai rivelare la loro identità. Si nascondono, non vogliono dire la verità, sanno che nella dimensione pubblica non potrebbero sopportare nemmeno una parte della riprovazione che viene loro riservata quando sono protetti dell’anonimato. Non è vero che tutto è stato sdoganato e che siamo, come scrive Antonio Padellaro sul Fatto, all’apologia spudorata del «rutto libero».
E poi chi si separa dal dominio del politicamente corretto, sente che i suoi custodi e sacerdoti sono immersi nell’ipocrisia del doppio standard, che sono severi con gli altri e quando fa loro comodo non hanno pudore. Deplorano la violenza verbale, le espressioni smodate e non controllate quando i bersagli dell’aggressione sono i «buoni», ma non hanno nessuna remora a sostenere uno dei «nostri», Robert De Niro, quando dà del «porco» e del «maiale» a Trump augurandosi di potergli spaccare la faccia: questo è accettabile, è cool, è miracolosamente «corretto». Ma nella secessione delle plebi, questo doppio standard del linguaggio rende ancora più odiose le ingiunzioni del politicamente corretto. E la vendetta arriva. Nel segreto. Contro tutti.
«Corriere della sera» dell'11 novembre 2016

Il trionfo della post verità nei media e in politica

Brexit, Trump e non solo
di Pierluigi Battista
Come cambiano rapidamente gli umori, la sensibilità pubblica, le parole. Abbiamo da poco onorato il mito del fact-checking, l’idea di un riscontro puntuale e meticoloso della veridicità delle affermazioni divulgate da un politico, ma adesso stiamo sprofondando con rapidità inesorabile nella «post-verità». Secondo gli Oxford Dictionaries «Post Truth», post-verità, è diventata l’espressione chiave di un anno che ha conosciuto una dopo l’altro, secondo una sequenza da brivido, la sorpresa Brexit e la sorpresa Donald Trump. E cosa accomunerebbe le due sorprese? La scoperta che il consenso di massa è sempre più incardinato su informazioni non veritiere, se non deliberatamente falsate, e che però vengono considerate vere malgrado la loro dimostrabile infondatezza. Dimostrabile, se si perdesse tempo e fatica per verificarne la natura fallace o menzognera. Invece è sempre più diffusa la tendenza a non chiedere alcuna dimostrazione. Chi la spara grossa vince, la politica post-fattuale celebra i suoi trionfi. La democrazia diventa prigioniera di qualcosa che contraddice la massima di ogni politica democratica: «conoscere per deliberare». Deliberare. Ma conoscere? La politica è sempre più impastata di suggestioni, impressioni, qualcosa che richiama emozioni e rancori, pregiudizi e simboli, ma poca, scarsissima fattualità. Sarebbe buona cosa che non si facesse un uso militante della nozione di «post-verità» dipingendola come monopolio esclusivo dei cosiddetti «populisti».
Senza andare indietro nel tempo, quando la politica ideologica aveva anch’essa pochissimi rapporti con la bruta e cruda fattualità e molto con l’alterazione delle ideologie e delle astratte visioni del mondo, quante volte anche da parte dell’establishment antipopulista si è ceduto alla tentazione della suggestione non veritiera. Quanta enfasi allarmistica e tutt’altro che fattuale ha alimentato la propaganda contraria alla Brexit in cui si dipingevano scenari catastrofici in caso di vittoria del «leave»? Così come il controllo fattuale avrebbe potuto verificare che la minaccia di Trump di deportare oltre il confine americano almeno tre milioni clandestini ha come base d’appoggio la già avvenuta espulsione di un paio di milioni di immigrati irregolari durante i due mandati di Obama, e che quindi l’emozione negativa riversata su Trump è antitetica all’emozione positiva suscitata dalla precedente amministrazione democratica. Ma non c’è dubbio però che siano i movimenti antisistema a sentirsi a proprio agio nei vapori della politica «post-verità». E c’è una ragione politico-psicologica per questo squilibrio: il complottismo antisistema si fonda sul sospetto gridato come fosse verità negata che le forze del «sistema» occultino per i loro loschi interessi i fatti «veri». È il «sistema» che nasconde la pericolosità dei vaccini, è il sistema che non vuole ammettere, schiava dei luridi interessi farmaceutici, che il bicarbonato curi il cancro. È il sistema che racconta la «menzogna dell’11 settembre». Si crede alle colossali falsità dei politici populisti perché si vuole credere in una verità alternativa a quella ufficiale. È questo il veleno culturale che circola nella politica di massa del ventunesimo secolo, perché il supporto di Internet e dei social, oltre a dare una meravigliosa pluralità di informazioni a portata di mouse, satura la Rete di una quantità enorme di informazioni false, distorte, o addirittura inventate di sana pianta. Ecco il trionfo della post-verità. A essere sfidata è la politica ma anche il sistema dei media, che dovrebbe moltiplicare i suoi sforzi di accuratezza nel racconto dei fatti, ma troppo spesso non lo fa, lasciando spazio alla «post-verità».
«Corriere della sera» del 16 novembre 2016