06 settembre 2016

Sì al burkini in spiaggia purché sia una scelta

La decisione del Consiglio costituzionale francese di non vietare il costume islamico è sacrosanta, ma affronta metà del problema. Come si fa a essere certi che le donne non siano obbligate a indossarlo? La nostra cultura deve contrastare ogni imposizione
di Ernesto Galli della Loggia
Mi ha molto sorpreso il carattere fortemente unilaterale che ha avuto il dibattito sul burkini accesosi nelle ultime settimane. Un carattere unilaterale che la dice lunga sull’autocensura a cui noi europei più o meno inconsciamente tendiamo ad obbedire quando oggi ragioniamo dell’Islam: per l’appunto badando costantemente alla libertà da garantire della religione islamica ma assai poco a quella da garantire agli islamici.
Mi spiego. Dopo la sacrosante decisione del Consiglio Costituzionale francese ogni donna di fede islamica che voglia indossare il burkini è libera di farlo. D’accordo, non poteva essere diversamente. Questa però è solo la metà del problema che a suo modo il decreto antiburkini poneva e — malamente, molto malamente, ripeto — mirava a risolvere. Ho detto «ogni donna di fede islamica che voglia indossare il burkini…». Benissimo: ma la donna islamica che invece non volesse? potrà farlo? che ne è della sua volontà? L’altra metà del problema è per l’appunto questa.
È il problema posto dalla presenza nei Paesi europei di comunità come quelle islamiche caratterizzate in genere da strutture interne, familiari e non, fortemente gerarchizzate che assegnano alle donne un obbligo di sottomissione nonché una libertà di comportamento e di espressione limitato, spesso gravemente limitato (per esempio nel caso dell’abbigliamento e dei costumi sessuali e matrimoniali), rispetto a quello maschile. Si tratta di comunità, in altre parole, che sulla base di precetti religiosi (non m’interessa se fondati o no ) non riconoscono a uomini e donne né eguali diritti e doveri né eguale modalità di presenza nello spazio privato come in quello pubblico. Non solo, ma che, almeno per consuetudine, considerano normale che il maschio eserciti un potere di sanzione nei confronti della donna che non rispetti le regole suddette.
Si pone dunque un problema reale, mi pare: possono le nostre società e i nostri ordinamenti accettare che al proprio interno esistano vaste enclaves dove abitualmente (lo sottolineo: non come una sporadica eccezione, ma come loro abituale modo d’essere) non vigono alcuni basilari principi di eguaglianza? E pure ammesso (e tuttavia concesso con qualche difficoltà, lo ammetto) che nella stragrande maggioranza dei casi le donne accettino senza problemi, anzi addirittura volentieri, lo stato di inferiorità/sottomissione loro assegnato, può ciò bastare a cancellare l’anormalità del quadro complessivo e indurre quindi i poteri pubblici a non intervenire?
Mi viene in mente una fattispecie che presenta più d’una analogia con ciò di cui sto parlando. Fino a qualche decennio fa il codice penale italiano consentiva che il colpevole del reato di stupro vedesse il proprio crimine di fatto cancellato se egli si offriva di sposare la vittima, e se questa a propria volta accettava. Come forse qualcuno ricorda, un tale meccanismo «riparatore» aveva abitualmente corso in molte contrade specie dell’Italia meridionale. Nessuno però si prendeva la briga di indagare a quali e quante pressioni la vittima era stata sottoposta da parte di un ambiente, innanzi tutto familiare, il quale, se lei non avesse accettato di sposare il suo stupratore l’avrebbe considerata per sempre «disonorata». Orbene, proprio per rompere questa pressione ambientale spesso fortissima nei riguardi di un soggetto palesemente debole, della cui libera volontà non si poteva mai essere realmente certi, proprio perciò la legge fu cambiata, cancellando la possibilità del matrimonio «riparatore».
È consentito dire che più o meno allo stesso modo non è sufficientemente certo che una donna islamica che indossa il burkini lo faccia realmente di sua spontanea volontà? Insomma: il principio tipicamente liberale che purché non si rechi danno ad altri ognuno può fare ciò che vuole è, sì, un principio sacrosanto della nostra convivenza; ma lo è appunto perché si presume che ciò che si fa è effettivamente ciò che si vuole (non per nulla in vari casi la legge punisce molto severamente la coartazione, in qualunque modo conseguita, della volontà altrui; si pensi al caso del matrimonio). Ma come si capisce, tutto cambia se cambia la premessa.
Come risolvere allora questo contrasto tra una società la quale s’ispira largamente al principio che è vietato vietare, e alcune parti di questa stessa società che invece sono tuttora strette a un sistema di divieti anche molto penetranti riguardo la sfera dell’agire individuale, divieti per giunta sanzionabili e sanzionati in modo del tutto arbitrario ma efficace da autorità informali come possono essere un padre o un fratello?
Rigettata ogni idea di ricorrere a leggi che risulterebbero di fatto liberticide e controproducenti non resta che un solo modo: e cioè integrazione, integrazione e ancora integrazione, rivolta in modo speciale alle classi giovanili e portata avanti con risoluta fermezza. L’imposizione dell’obbligo scolastico a maschi e femmine con un controllo «spietato» e continuo del suo adempimento e dunque sanzioni durissime ai genitori inadempienti; un’istruzione concepita e organizzata con un corredo altrettanto obbligatorio di gite, visite a musei, spettacoli teatrali e cinematografici, attività culturali e sportive; diffusione capillare della lingua italiana mediante corsi per adulti con l’eventuale collaborazione di personale religioso islamico di provata fedeltà; e poi anche il rigoroso intervento della legge ogni volta che sia abbia il minimo sospetto di una violazione dei diritti della persona (dalla tratta delle donne ai matrimoni combinati per le minorenni, alle forme più o meno larvate di poligamia), nonché, per finire, una larga politica della concessione della cittadinanza — ma con il divieto della doppia cittadinanza — mirata in special modo ai giovani figli di stranieri nati in Italia (ormai sono decine di migliaia).
È con questi mezzi e molti altri che si può tentare quella lunga e difficile opera di migrazione culturale necessariamente conseguente alla migrazione geografica. Operazione lunga e difficile, per la quale ci vorrebbe un governo consapevole fino in fondo della sua necessità, e che non deve nascondersi il proprio obiettivo: provare a spezzare l’involucro comunitario che in un numero non indifferente di casi può rivelarsi per i singoli una terribile prigione. Altrimenti con il tempo andremo di sicuro verso il radicamento nella nostra Penisola di una, due, tre comunità straniere sempre più grandi e numerose, non comunicanti tra loro, alternative e in vari modi concorrenti con la preesistente comunità nazionale. Con l’effetto, alla lunga inevitabile, di far nascere un clima di latente guerra civile.
«Corriere della Sera» del 1 settembre 2016

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