06 settembre 2016

No, la satira non può tutto

La vignetta di «Charlie Hebdo» sul sisma italiano
di Giorgio Ferrari
Triste è quel Paese dove ridere è vietato, anzi, pericoloso. Tristissimo quello dove raccontare una barzelletta o peggio fare della satira può costare perfino la vita. Ne sanno qualcosa i cittadini e, soprattutto, gli intellettuali delle innumerevoli satrapie mediorientali, dove il motto di spirito diventa facilmente un’offesa alla dignità nazionale e dove anche la più sperimentata tolleranza occidentale appare spesso come una studiata provocazione.
Qualche giorno fa i disegnatori di Charlie Hebdo – sì, la rivista satirica francese epicentro di una strage a opera di fondamentalisti islamici che seminò orrore e morte a Parigi – hanno pubblicato una vignetta dal titolo «Séisme à l’italienne» (Sisma all’italiana), nella quale compare una coppia di terremotati pesti e sanguinanti accanto a una catasta di morti sepolti da strati di pasta con la dicitura 'Penne al sugo di pomodoro, penne gratinate, lasagne'. Dovrebbe far ridere, a quanto si deduce. A patto che i lettori di Charlie Hebdo e la gran massa dei francesi – cosa di cui dubitiamo – siano a conoscenza del fatto che il paese di Amatrice (che tradotto nella loro lingua corrisponde a ' femme amateur', nel senso di 'donna dilettante', ovvero 'Personne qui a une attirance particulière pour quelque chose', o anche di 'amante' e perfino di ' maîtresse') è la patria della pasta all’amatriciana.
Ma anche se per caso lo sapessero, il quesito rimane? Fa ridere? Prende in giro qualcosa o qualcuno? Vuole accusare il pressapochismo italiano (che in questo caso peraltro non c’è stato, e i soccorsi sono stati tempestivi ed esemplari) resuscitando triti stereotipi ('macaronì' era il termine con cui venivano chiamati i nostri connazionali che emigravano in Francia)? Satira significa dunque raffigurare una catasta di terremotati seppelliti sotto macerie rappresentate come strati di lasagne? Morti veri, quelli di Amatrice, di Accumoli, di Arquata del Tronto, non disegni. Umorismo macabro, si dirà, black humour, bisogna saperlo capire e sopportare (inevitabile, immaginiamo, il rimando che prima o poi qualcuno farà al corrosivo e inimitabile stile di Karl Kraus, implacabile fustigatore di costumi nella Vienna a cavallo dei due secoli con la sua rivista Die Fackel).
Ma continuiamo a non esser convinti. Certo, siamo lontani dalla Satura lanx, il piatto misto di primizie della terra destinate agli dèi sul cui spirito (quello dell’abbondanza, del miscuglio di generi, della contaminazione) sorse la satira latina e sulla quale è superfluo soffermarsi ora: Menippo, Varrone, Persio, Giovenale, Lucilio, Orazio ci precedono e illuminano da un’infinità di secoli. Peraltro la smemoratezza che dilaga nel passaggio fra una generazione e l’altra ci fa dimenticare l’irruenza polemica con cui pubblicazioni come L’Asino (foglio d’intonazione socialista e anticlericale nell’Italia giolittiana) o Il Lampione (edito da Carlo Collodi a metà dell’Ottocento), divertivano i lettori bacchettando usi e costumi della nostra nazione appena nata e già così ricca anche di vizi e di ombre.
Un ingrediente tuttavia era molto raro presso poeti, scrittori e disegnatori satirici dei tempi andati: la volgarità. Di cui abbonda viceversa (e non da oggi) Charlie Hebdo. E già questo basterebbe a revocargli quell’aureola di santità civile che si è tragicamente guadagnata il 7 gennaio 2015. Non si chiede tanto. Ma il diritto di dire che quella vignetta sul terremoto è ignobile, un insulso e stupido infierire su chi è ferito, ce lo prendiamo tutto anche stavolta. Con buona pace di 'quelli che': la satira può tutto...
«Avvenire» del 3 settembre 2016

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