16 settembre 2016

I «social», palazzo di vetro senza pietà

La tragedia di Tiziana, suicida per un video
di Chiara Giaccardi
Una giovane donna si suicida, dopo che il video di un suo rapporto sessuale viene diffuso da chi doveva tenerlo per sé, diventando virale. Rabbia, vergogna, incredulità per le parodie e la totale mancanza di solidarietà e sdegno per questa gogna digitale hanno spezzato una vita forse già fragile. Facile dire ora che non avrebbe dovuto lasciarsi filmare, e soprattutto non avrebbe dovuto condividere il filmato con quei pochi che poi non hanno esitato renderla zimbello del web. Diciamo anche a margine che non sempre, e questa ne è prova lampante, i contenuti generati dall’utente sono una conquista e un motivo di orgoglio: possono diventare «prodotti ad alto inquinamento sociale», con una efficace espressione di Leonardo Becchetti. Ma al di là dell’amaro impasto di tristezza, indignazione per la violenza simbolica (che ha sempre effetti molto concreti) e del «certo che poteva evitare» è necessario cercare di imparare qualcosa da questa triste vicenda, che non fa onore a nessuno. Fermarci a pensare. Thinking what we are doing, come invitava a fare Hannah Arendt, in tempi bui, per non soccombere al male intorno. Questo caso, nella sua tragica concretezza, ci può far riflettere su processi più generali, nei quali siamo immersi anche come parte attiva, ma spesso troppo poco consapevole.
Ne menziono tre, sui quali questa vicenda, e troppe altre che le somigliano, devono farci meditare. Il primo è quello che tra gli studiosi viene definito il 'collasso dei contesti'. È stata la Tv a dare inizio a una riconfigurazione della geografia della vita sociale, sganciando l’esperienza dal luogo, riscrivendo i modi della vicinanza e della lontananza, rendendo pubblico il privato. Con i social media questo processo si radicalizza: desideriamo raccontarci (l’atteggiamento di 'estimità' ed estroflessione che è il contrario dell’intimità) e pensiamo di essere in una stanza a parlare coi nostri amici, mentre invece siamo su un palcoscenico senza confini. Viviamo di fatto come in un palazzo di vetro, dove tutti vedono tutti. E questo crea un problema. Noi negoziamo infatti le nostre identità nelle relazioni con gli altri, in contesti diversi che richiedono una capacità di sintonizzarsi e assumere comportamenti appropriati; e questo implica la possibilità di rivelarci selettivamente ai diversi 'pubblici'. Non è, si badi bene, una forma di ipocrisia, bensì di consapevolezza delle differenze. Non si sta in famiglia come sul lavoro, non ci si comporta a una festa come a un funerale.
Oggi la gestione consapevole del nascondere/mostrare è diventata molto più difficile. E non è un caso che l’universo social stia privilegiando le applicazioni che consentono un’interazione più 'privata', più intima, più simile ai tradizionali contesti faccia a faccia: il tentativo è quello di suddividere di nuovo in stanze separate l’open space creato dai social media, di ripristinare la pluralità dei contesti. Ma siamo ancora lontani, e i rischi non mancano comunque. Con i social media, in ogni caso, il broadcasting del sé raggiunge una scala molto ampia, lasciando tracce permanenti e recuperabili nel tempo, la cui accessibilità è al di fuori del nostro controllo. Esserne consapevoli è fondamentale. E introduce il secondo punto cui prestare attenzione: quello della comunicazione social è un mix tra self-generated (prodotto dall’utente) e other-generated content (immagini 'taggate', commenti ai post etc.). Le audience per i contenuti creati e condivisi sono multiple, interconnesse e invisibili, potenzialmente illimitate. E non controllabili. Ciò che noi produciamo non ci appartiene più e può essere usato contro di noi. L’illusione di essere 'proprietari' di ciò che abbiamo postato, delle nostre tracce nel web è davvero pericolosa, come si dimostra.
E infine, anche se le questioni sarebbero ancora molte, il rischio della perdita di realtà, che ci rende disumani. La mediazione del dispositivo che 'documenta per condividere' rischia di anestetizzarci, se ci adeguiamo semplicemente alla logica della fattibilità. Dove tutto è possibile, niente esiste davvero, scriveva Benasayag. Dove tutto è trasformabile in post e capitalizzabile in likes, nulla esiste davvero fuori di questa logica. Il 'capitalismo delle emozioni' ci porta a produrre, anche cinicamente, contenuti che possano diventare rapidamente virali, senza altro ordine di considerazioni se non quello quantitativo, in prospettiva autoreferenziale. Sì perché tutto questo, anche se non ci piace sentirlo dire, è figlio di un individualismo radicale dove niente conta più veramente, al di là di me. Dunque, non c’è solidarietà, compassione, rispetto che tenga. Nessuna ragione per mettere un limite alle nostre azioni. Perdita di realtà, anestesia, sé 'quantificato': non sono effetti necessari ma rischi in cui si cade senza accorgersene, se non si pensa a quel che si sta facendo. Se non si esce dalla logica di ciò che il dispositivo rende possibile, diventando puri esecutori di istruzioni scritte da altri, in preda al bisogno smodato di essere visti.
Ecco perché, per citare un altro caso su questa scia, si arriva fino a filmare, sghignazzando, l’amica violentata nel bagno della discoteca. Probabilmente, pensando a quanti rilanci avrà il video. Perché del riconoscimento, della relazione il nostro io ha bisogno. E nella cornice dell’individualismo assoluto questo bisogno assume forme pervertite e disumane. È cronaca di questi giorni. Le donne, vittime, arrivano a farsi stolidamente complici dei carnefici. La tecnologia non libera affatto, se non ne capiamo il senso, ma anzi può essere piegata a forme subdole e sempre più perverse di umiliazione e violenza. Pensiamo a quel che stiamo facendo, a dove stiamo andando, a dove sta il senso. Per far sì che il dolore non sia inutile. Per non rendere vana questa triste morte. Che Tiziana, ora, riposi in pace.
«Avvenire» del 16 settembre 2016

15 settembre 2016

Puro, forte e virtuoso: ecco perché il “vero” amore è solo quello tra Renzo e Lucia

di Francesco de Augustinis
Dimenticate la passione travolgente e le emozioni folli. Secondo Manzoni l'amore più forte e duraturo è quello che lega i personaggi principali dei Promessi Sposi. Che, pur mai scambiandosi un'effusione, riescono a superare una delle vicende più travagliate della letteratura.
Tra le coppie di innamorati che hanno acceso la fantasia dei lettori nella storia della letteratura, quella tra Renzo e Lucia è senz’altro una delle più famose, forse i più celebri e immortali amanti della narrativa italiana. Eppure a pensarci bene, l’amore tra Renzo e Lucia non è certo il “solito” amore che siamo abituati a vedere nelle opere di finzione, lontano anni luce dall’amore per eccellenza degli altri eroi della dea Venere Romeo e Giulietta, che poco dopo il primo incontro erano già travolti dalla passione, pronti persino a morire pur di raggiungere la propria unione. Quasi tutto al contrario, a ben vedere, nel romanzo di Manzoni: la giovane e sfortunata coppia non sta insieme che per pochi capitoli, all’inizio del racconto, per poi ritrovarsi solo verso la conclusione. Un amore distante, apparentemente distaccato, quasi freddo. Ma è davvero così? Certamente no, e anzi la storia tra gli innamorati Renzo e Lucia ha potuto arrivare intatta ai giorni nostri forse proprio grazie a questa “forza oltre la passione”. Ecco perché:

1) L’amore puro, adatto anche ai più giovani
Gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante
L’apparente assenza di passione nella storia d’amore tra Renzo e Lucia sembra palese: nessun tipo di eccesso da parte dell’uno o dell’altro, mai una dolcezza fuori dalle righe, mai un ardire, mai un’allusione. Sembra quasi l’amore platonico di certi cartoni animati anni ’90, dove i protagonisti potevano al più arrivare a sfiorarsi le labbra dopo interminabili stagioni di tormenti e sofferenze amorose. E il paragone non è casuale: secondo alcuni critici questo apparente “moralismo” di Manzoni trova una prima spiegazione nella volontà dell’autore di far si che la sua storia potesse essere letta “senza turbamento” anche della figlia Giulia, all’epoca appena adolescente, senza per questo perdere di forza e consistenza.

2) L’amore che non ha bisogno di essere stuzzicato
D’altronde l’autore stesso, nell’introduzione al Fermo e Lucia, nome della prima stesura del romanzo poi ribattezzato “Promessi sposi”, spiega questa sua rappresentazione “casta” dell’amore in questo senso. Rispondendo ad un lettore fittizio, Manzoni afferma che:
L’amore è necessario a questo ... mondo: ma ve n’ha quanto basta… e non fa mestieri che altri si dia la briga di coltivarlo; e che col volerlo coltivare non si fa altro che farne nascere dove non fa bisogno.

In altre parole, secondo l’autore l’amore passionale già abbonda nel nostro mondo, e lo scrittore non ha il ruolo di coltivarlo o stuzzicarlo con la sua prosa, magari andando a turbare animi ancora non pronti.

Dell’amore come vi diceva, ve n’ha, facendo un calcolo moderato, seicento volte più di quel che sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie. Io stimo dunque opera imprudente l’andarlo fomentando cogli scritti; e ne son tanto persuaso; che se un bel giorno per prodigio, mi venissero ispirate le pagine più eloquenti d’amore che un uomo abbia mai scritte, non piglierei la penna per metterne una linea sulla carta: tanto son certo che me ne pentirei.

3) Le virtù dell’amore, oltre le difficoltà
Ma più che la castità, la parte più bella dell’amore tra Renzo e Lucia, il loro “testamento” alle coppie del futuro, è che l’amore non può trionfare se non lo si tutela, come un qualcosa di “sacro”, dalle difficoltà della vita. Per questo, pur mai scambiandosi un’effusione, i due riescono a superare una delle vicende più travagliate della narrativa, contro nemici potenti, epidemie, intrighi e fatalità, e giungere uniti e intatti ai giorni nostri. Tutte prove vinte dalla tenacia, vero motivo portante della loro storia.

Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno, e che uno scrittore secondo le sue forze può diffondere un po’ più negli animi: come sarebbe la commiserazione, l’affetto al prossimo, la dolcezza, l’indulgenza, il sacrificio di se stesso: oh di questi non v’ha mai eccesso; e lode a quegli scrittori che cercano di metterne un po’ più nelle cose di questo mondo.
«la Repubblica» (sezione "Il mio libro") del settembre 2016

14 settembre 2016

La globalizzazione ai tempi del «burqini»

Incontri (e scontri) tra culture
di Luca Ricolfi
La sentenza del Consiglio di Stato francese che, di fatto, autorizza l’uso del burqini sulle spiagge ha presto disinnescato una polemica che stava sconfinando nel ridicolo. E tuttavia, a ben pensarci, questa tempesta estiva in un bicchier d’acqua qualche utilità potrebbe anche averla. Il dibattito-lampo sul burqini, infatti, ha portato allo scoperto una debolezza fondamentale del nostro modo di rapportarci alle altre culture, che pure pretendiamo di rispettare.
Questa debolezza ha due facce, opposte e complementari, come quelle di una moneta. La prima faccia, la faccia relativista, o del rispetto fra culture, dice: non ci sono valori assoluti, nessuna cultura è superiore a un’altra, non possiamo giudicare una cultura con i nostri parametri occidentali, l’incontro con altre culture è arricchimento reciproco, ogni cultura (e ogni religione) merita rispetto, dobbiamo essere aperti verso l’altro e il diverso.
Ma la seconda faccia della moneta, la faccia illuminista, recita: i nostri principi di libertà e tolleranza hanno valore universale; la democrazia è il migliore dei sistemi di governo; libertà religiosa e di espressione non possono subire restrizioni; uomini e donne sono eguali; la sessualità deve essere libera; i diritti dell’uomo sono inviolabili e dobbiamo adoperarci per assicurare il loro rispetto su tutto il pianeta.
Curiosamente, l’incongruenza fra le due facce della moneta non disturba quasi nessuno. Ci piace pensarci così: rispettosi degli altri, ma al tempo stesso consapevoli di essere i migliori.
Per accorgerci che nel nostro modo di vedere le cose qualcosa non funziona abbiamo bisogno di eventi esterni, grandi e piccoli. Forse più piccoli che grandi. Certo le guerre umanitarie, o le democrazie imposte dall’alto, qualche interrogativo lo sollevano. Ma dove casca l’asino è sulle piccole cose, quelle su cui chiunque si sente autorizzato a dire la sua.
Uno dei primi casi, come ricorderanno molti, fu quello dell’infibulazione e più in generale delle mutilazioni del corpo femminile, che suscitò molte controversie in Francia fin dagli anni ’80: la faccia relativista, o del rispetto, imponeva di accettare i costumi delle culture “altre”; la faccia illuminista imponeva di combattere quei medesimi costumi a causa del loro carattere barbaro. Alla fine la vinse la faccia illuminista, e l’infibulazione è rimasta una pratica illecita.
Il dilemma fra le due facce della moneta si è riproposto innumerevoli volte, spesso mettendo in imbarazzo la cultura liberal che da qualche decennio è egemone in Occidente. Specie quando di mezzo vi sono le donne, non necessariamente islamiche, invariabilmente va in scena il medesimo canovaccio, e si ripresenta la medesima contraddizione. Se una donna islamica va in spiaggia in burqini, la faccia del rispetto invoca il sacrosanto diritto di ogni donna di vestirsi secondo i precetti della sua religione, ma la faccia illuminista (e femminista, in questo caso) prontamente obietta che il burqini è imposto da mariti e fratelli, e vietarlo aiuta le donne islamiche a emanciparsi, a liberarsi da ogni tutela. In questo caso a prevalere pare essere la faccia del rispetto, che rinuncia a imporre alle donne islamiche i nostri costumi (da bagno), a costo di consegnarle all’arbitrio dei loro uomini e al cupo oscurantismo del loro mondo.
Ma il dilemma fra il principio del rispetto e la fede assoluta nei valori della civiltà occidentale non si presenta solo quando di mezzo ci sono le donne. Sovente esso fa la sua comparsa anche in altri ambiti, ad esempio, in materia di libertà di espressione, e di satira in particolare.
Quando, il 7 gennaio 2015, un commando terrorista islamico uccide 12 persone in un assalto alla sede di Charlie Hebdo, colpevole di avere pubblicato vignette satiriche derisorie su Maometto, quasi tutti gli intellettuali (e i mass media) illuminati reagiscono difendendo il diritto incondizionato degli autori di satira di prendere in giro chiunque. Ma quando, come in questi giorni, oggetto della satira sono gli italiani vittime del terremoto di Amatrice, rappresentati come maccheroni insanguinati di pomodoro, il credo nel diritto di satira vacilla. Ed ecco che il pendolo, che ai tempi di Charlie Hebdo aveva risolutamente oscillato a favore della libertà di satira, riscopre improvvisamente le ragioni del rispetto: forse la liberà di satira non dovrebbe essere illimitata e incondizionata, come perentoriamente si era affermato ai tempi di Charlie Hebdo.
Ma torniamo al burqini. Chi ha ragione?
Dico subito che il mio istinto è tutto pro-burqini. Fatto salvo il principio che, per elementari ragioni di sicurezza, nessuno deve poter girare in pubblico a volto coperto, e che il principio vale erga omnes, dalla donna in burqa al malvivente con passamontagna che dà l’assalto a una banca, trovo abbastanza irragionevole che noi occidentali assumiamo verso l’Islam (o verso qualsiasi altra cultura diversa dalla nostra) un atteggiamento paternalista in materia di stili di vita. Questo per due distinte ragioni.
La prima, e la meno importante perché alquanto soggettiva, è che provo sempre un certo imbarazzo quando vedo qualcuno che spiega a qualcun altro quali sono i suoi veri interessi, o pretende di conoscerne la volontà autentica. Il fatto che non pochi di noi (islamici e non) agiscano sotto ricatto, pressioni di gruppo, ingerenze familiari – una circostanza che fa purtroppo parte della fisiologia sociale – non autorizza nessun Ente superiore, sia esso lo Stato, la Giustizia o altro, a farsi interprete delle nostre vere preferenze e della nostra vera volontà. Nessuno può obbligarci ad essere liberi contro la nostra volontà dichiarata.
Ma c’è una ragione più importante per cui ritengo che dovremmo andarci piano con i nostri giudizi sulle culture che ci appaiono diverse dalla nostra. Ed è che tali culture spesso non sono affatto diverse, bensì situate in un altro tempo. Per diversi aspetti sono la nostra stessa cultura, com’era 100, 50, o anche solo 30 anni fa. E qui non mi riferisco tanto o solo al modo di vestire, in chiesa come in spiaggia, un punto su cui basterebbero poche foto d’epoca per mostrarci quanto il pudore islamico di oggi somigli a quello occidentale di due generazioni fa. Quello che ho in mente sono i più alti valori di cui la nostra civiltà, specie europea, si fa spesso vanto, ad esempio la democrazia e il ripudio della pena di morte.
Troppo spesso ci dimentichiamo che le conquiste che a molti di noi oggi paiono naturali e irrinunciabili, in quanto condizioni minime di civiltà, sono frutto di un percorso durato secoli e che in molti paesi “civili” si è concluso da poco, o deve tuttora concludersi. Ancora alla fine della seconda guerra mondiale, il suffragio universale non esisteva in Francia, Italia, Belgio, Svizzera, Stati Uniti, Giappone. Quanto alla pena di morte, essa resiste tuttora negli Stati Uniti, ed è scomparsa dagli ordinamenti dei principali paesi europei solo in tempi recenti. Nel Regno Unito, in Belgio e in Spagna era ancora in vigore all’inizio degli anni ’90; in Francia, Olanda, Norvegia, Danimarca alla fine degli anni ’70 o nei primi anni ’80. In Francia l’ultima esecuzione capitale, mediante ghigliottina, avviene nel 1977, quasi dieci anni dopo le due grandi rivoluzioni del costume del sessantotto e del femminismo. Per non parlare del Vaticano, che ora invoca la sospensione di tutte le esecuzioni capitali, ma ha aspettato fino al 2001 (con Wojtyla) per decidersi ad eliminare la pena di morte dalla Legge fondamentale dello Stato Pontificio.
Naturalmente può ben darsi che molte culture non occidentali evolvano, in definitiva, verso costumi diversi dai nostri. E tuttavia non dovremmo trascurare un’altra possibilità, o meglio un'altra ricostruzione di come siano andate le cose nell’era delle frontiere aperte. L’incontro-scontro fra modelli culturali oggi in atto fra l’Occidente consumista ed iper-emancipato e i molti popoli che, con comprensibile sbalordimento, ne osservano costumi e modi di vita, sarebbe potuto essere meno traumatico, e forse anche meno violento, se l’Occidente, e in particolare l’Europa, fossero stati meno immemori del proprio recente passato, e più consapevoli della lentezza con cui evolvono le culture. L’ingenuo (o fin troppo cinico) entusiasmo con cui i paesi leader del mondo hanno aperto le loro economie e le loro frontiere sembra aver fatto perdere di vista una distinzione essenziale: il trasferimento tecnologico, tanto più nell'era di internet, può anche essere molto rapido, ma la comunicazione e l’integrazione reciproca fra culture richiedono molto più tempo. È come se i vantaggi dell’arretratezza economica, magistralmente descritti da Gerschenkron negli anni ’60 del secolo scorso, ovvero l'idea che un paese arretrato possa bruciare le tappe della modernizzazione facendo tesoro delle conquiste economiche e tecnologiche dei paesi avanzati, fossero stati attribuiti anche all'evoluzione delle culture. Pensare che miliardi di uomini, nel giro di pochissimi decenni, potessero superare differenze e barriere formatesi nei secoli o nei millenni, è stato probabilmente il più grave errore di valutazione che le élites economiche e culturali del mondo avanzato abbiano commesso dopo la seconda guerra mondiale. Globalizzazione degli scambi, allargamento a Est, apertura ai migranti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente, non erano di per sé scelte sbagliate, ma assai imprudente è stato non considerare il fattore tempo: tre decenni sono più che sufficienti per modernizzare un’economia, ma possono essere davvero pochi per mettere in comunicazione due culture.
Guardando al futuro, se davvero vogliamo attenerci al rispetto delle altre culture e delle altre civiltà, dovremmo essere preparati ad accogliere tutte le eventualità. Può darsi che i modelli occidentali, con le loro promesse di benessere e di libertà, finiscano per imporsi nella maggior parte dei Paesi del mondo, e che sia solo questione di tempo: prima o poi vedremo le donne islamiche in bikini. Ma può anche darsi che, specie in campo etico e nel costume, la civiltà libertaria e un po’ esibizionista dell’Occidente non attecchisca ovunque: in quel caso vedremo diversi burqini anche quando padri-padroni e mariti-signori saranno stati costretti a fare un passo indietro.
E poi c’è una terza possibilità, ignorata dalla sociologia ma non dalla letteratura. Può anche darsi che, a fare un piccolo passo verso il passato, siano i costumi dell'Occidente, una possibilità chiaramente adombrata nell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq (Sottomissione, Bompiani 2015): in quel caso vedremo le donne occidentali gareggiare a chi sfoggia il burqini più bello.
«Il Sole 24 ore» del 4 settembre 2016

Non chiudiamoci nel passato

di Angelo Varni
C’è in questa, pur encomiabile, difesa dell’indiscutibile valore formativo del “nostro” liceo classico (si vedano gli articoli pubblicati sul Domenicale del 28 agosto: Scuola modello per l’occidente e Perché la versione serve a un fisico) un insieme di disparate motivazioni che, ai miei occhi, faticano a confrontarsi in positivo con una realtà odierna mutata rispetto ai tempi dell’”invenzione” di quella scuola.
Subito appare fuorviante l’equiparazione tra scienze umane e conoscenza/ traduzione della lingua latina e greca, che porta a deplorare la sparizione da tante università del mondo dei dipartimenti umanistici, il più delle volte da sempre privi di qualsiasi insegnamento delle due lingue suddette.
E allora non mi pare questo il problema, bensì credo sia necessario domandarsi perché si rinunci a queste discipline tradizionali, andando oltre la consueta argomentazione del prevalere delle ragioni di un mondo dominato dalle esigenze dell’economia finanziaria attenta solo ai numeri, agli equilibri di bilancio, al mordi e fuggi dell’immediato profitto. Come se la realtà precedente, quella in cui le humanities erano al centro del sistema educativo, fosse fatta solo di buoni e disinteressati sentimenti, estranei al tornaconto economico. Forse sono indispensabili riflessioni un poco più approfondite e meno corporative, per spiegare una simile decadenza, che non può non dipendere da una valutazione riguardante proprio la loro capacità formativa.
Da sempre, infatti, da quando esiste la scuola in tutti i suoi ordini e gradi, tutte le società hanno cercato di fornire ai giovani quanto potesse servire a costruire un livello di conoscenze utile al loro futuro secondo la scala di gerarchie sociali nella quale andassero a collocarsi, affidando all’università il ruolo primario di sviluppare le competenze di una nuova classe dirigente.
Dovremmo, quindi, ritenere che le scelte in corso in tanti paesi tra i più avanzati del mondo siano solo frutto di un’ improvvisa cecità rispetto a tali obiettivi e di un aprioristico rifiuto di valutare l’apporto delle scienze umane alla crescita delle stesse più raffinate tecnologie? Un’ipotesi questa, per altro, ampiamente superata nella pratica stessa dell’attività produttiva, oltre che nella teoria, in quanto i contenuti del saper fare in senso manuale e finanche artigianale nei nuovi terreni in corso di esplorazione dell’informatica, sono forniti da ambiti di linguaggio e di conoscenze critiche appartenenti appunto a settori conoscitivi diversi ed apparentemente lontani, che solo attraverso un fecondo confronto dialogico possono davvero interagire.
Ma torniamo al liceo classico, anzi al punto centrale del ragionamento dei due articoli, vale a dire l’importanza insostituibile del latino e del greco per affrontare le sfide dell’oggi.
Intanto, appunto, come prima rilevato, le humanities insegnate nella tradizione liceale non coprono affatto tutto l’arco delle scienze dell’uomo, quelle in grado di cogliere lo sviluppo temporale dell’individuo e della collettività, quella vicenda storica , quella contestualizzazione degli eventi e delle cose, quel riportare al presente quanto accaduto nel passato facendo parlare documenti, testi, tracce, indizi. Ciò che costituisce la vera differenziazione dalle scienze “ dure”, che hanno per oggetto il presente come universo da indagare e da ridurre a leggi generali. Ne restano fuori, ad esempio, o vi hanno uno spazio relativo/residuale la sociologia e l’antropologia, la psicologia e la semiotica, fino al dislocarsi geografico delle popolazioni, così cruciale in questi anni per comprendere le relazioni fra uomini e territori di un mondo tanto dilatatosi.
Gardini e Tonelli sottolineano l’importanza delle due antiche lingue (ed in particolare delle relative competenze logiche necessarie alla loro traduzione) per affinare certe abilità tecniche indispensabili anche alle scienze non umanistiche. Una scoperta che ha affascinato ed aiutato - come dimostra l’articolo di Guido Tonelli - molti ricercatori, ma che riguarda meritorie propensioni individuali e che poco ha a che vedere con l’assetto dei nostri corsi liceali.
Del resto come spiegare altrimenti la scarsissima presenza (certo le sporadiche eccezioni non mancano) di giovani scienziati italiani all’interno delle grandi imprese dell’innovazione informatica, a fronte dell’”invasione” di laureati provenienti da mondi (soprattutto asiatici) di ben diverso curriculum formativo ? Eppure, da tempo ormai, i prodotti elaborati da queste aziende sono sempre più ricchi di contenuti “ culturali”, di connessioni con le conoscenze “ umanistiche”, quelle dove la nostra formazione dovrebbe farci eccellere.
Forse, dunque, in una simile prospettiva di confronto con l’attuale universo globale, anche l’altra funzione affidata al “classico” , di immersione in antiche civiltà capaci di aprirci la mente ad una equilibrata conoscenza del reale («chi esce dal liceo classico - assicura Nicola Gardini - sa parlare, sa scrivere, sa pensare, ma soprattutto sa interpretare, mettere in rapporto, relativizzare, confrontare, distinguere [...] capire la libertà, la bellezza, la varietà e la concordia») finisce per chiuderci in noi stessi, nel nostro illustre passato, in una pretesa, ma indimostrabile (e forse inconsistente) superiorità.
Piuttosto che esercitarci nel sottoscrivere manifesti «a difesa», credo sia indispensabile muoverci per far sì che il richiamo alla nostra straordinaria tradizione di civiltà non resti una citazione colta, e magari nostalgica, usata per abbellire un’ esposizione di traguardi innovativi da raggiungere (come nel recente discorso di Zuckerberg a Roma); bensì permei nuovi modelli formativi indispensabili a generazioni che si confrontano con un mondo molto diverso da quello in cui noi siamo cresciuti.
«Il Sole 24 ore» dell'11 settembre 2016

Medicina migliorativa, l’altra faccia del doping

di Jean-Noël Missa
Il dibattito sul miglioramento delle prestazioni sportive è ovviamente molto vecchio, ma negli ultimi anni si è notevolmente evoluto. Le ragioni di questo rinnovamento crediamo siano due : la creazione dell’Agenzia mondiale anti-doping (AMA) e l’emergere della medicina migliorativa. La recrudescenza della lotta anti-doping dopo l’affare Festina nel Tour de France 1998 ha portato alla creazione dell’Agenzia mondiale antidoping (AMA) e all’applicazione di una filosofia proibizionista ufficialmente difesa dalle autorità sportive. La missione della Agenzia mondiale antidoping è di promuovere, coordinare e monitorare la lotta contro il doping nello sport in tutte le sue forme. È stata fondata nel 1999 come organizzazione internazionale indipendente. Composta e finanziata in parti uguali dal movimento sportivo e dai governi, l’AMA supervisiona la conformità delle pratiche sportive al Codice mondiale anti doping, un documento che armonizza le normative in materia di anti-doping in tutti gli sport e in tutti i paesi.
L’AMA ha lo scopo di promuovere una cultura dello sport privo di doping. La creazione dell’AMA ha avuto come effetto di porre fine al relativo lassismo nella lotta contro il doping che avevamo sperimentato negli ultimi decenni del XX secolo. La volontà politica di sradicare il doping ha portato a condannare molti atleti a pene più o meno lunghe di sospensione dalle gare e, indirettamente, alla pena detentiva per atleti illustri come Marion Jones.
Alcuni medici e filosofi ritengono oggi che l’obiettivo di sradicare il doping dallo sport sia un ideale irraggiungibile. Reputando controproducente la politica dell’AMA, essi sostengono diversi approcci pragmatici che consentono alcune pratiche di doping sotto controllo medico. La seconda ragione che conferisce al tema del miglioramento delle prestazioni sportive una dimensione filosofica ed etica che prima non possedeva è l’inclusione della questione del doping in un campo più ampio, la medicina migliorativa. La cancellazione dei confini tra medicina terapeutica classica e medicina migliorativa è una caratteristica fondamentale della biomedicina del ventunesimo secolo. Nella biomedicina contemporanea, i nuovi farmaci e le tecnologie terapeutiche possono essere utilizzati non solo per curare il paziente, ma anche per migliorare alcune capacità umane.
Un recente sondaggio ha mostrato che l’assunzione di dopanti cognitivi per migliorare le prestazioni accademiche era diventata una pratica corrente nelle università americane. Le sostanze usate dagli atleti per migliorare le loro prestazioni, prodotti come anfetamine, eritropoietina, corticosteroidi o ormone della crescita erano stati utilizzati in un primo tempo a scopo terapeutico.
Allo stesso modo, le tecnologie mediche, come la terapia genica o l’iniezione di cellule staminali possono essere applicate agli atleti per fini migliorativi. Questa evoluzione rappresenta un cambiamento di paradigma nella pratica medica. All’interno della medicina classica, terapeutica, si è sviluppata in modo impercettibile un’altra medicina il cui obiettivo non è di curare, ma di migliorare, una “medicina dopante”. Nel suo libro Better than Well, il filosofo e bioeticista Carl Elliott si è impegnato in una analisi dei vari aspetti delle tecnologie migliorative (enhancement technologies) nella società americana contemporanea.
Da una decina d’anni a questa parte, negli Stati Uniti e poi in Europa, molti autori - medici, filosofi, bioeticisti, giuristi - hanno affrontato il tema della tecnologie migliorative. La medicina non è più solo terapeutica. Alcuni si aspettano che intervenga per migliorare le prestazioni e “perfezionare” l’essere umano, ivi compreso l’ambito dello sport. In questo contesto, lo sport di competizione potrebbe diventare uno dei principali laboratori dell’enhancement. Gli atleti sono spesso disposti a correre rischi, compreso quello di usare sostanze dopanti o tecnologie sperimentali, per migliorare le proprie prestazioni. Per vincere una gara, battere dei record o guadagnare delle medaglie, alcuni atleti sono pronti a diventare oggetti di una vasta sperimentazione, condotta finora in clandestinità.
L’incontro tra lo sport e le biotecnologie migliorative solleva questioni di etica, filosofia e politica dello sport che non offrono risposte semplici. La politica di proibizione e repressione del doping non è certamente l’unica strategia possibile. Ci sono posizioni etiche (e politiche) diverse da quelle che stanno oggi dietro l’azione dell’AMA. Occorrerà attendere la conferma dell’inefficacia e il probabile fallimento dell’attuale politica anti-doping perchè altre soluzioni siano testate sul campo. Alcuni,partigiani di un’etica liberale, già sostengono la legalizzazione sotto controllo delle tecnologie migliorative nello sport. I loro argomenti meritano di essere presi sul serio, anche se questa legalizzazione presenta, anch’essa, effetti indesiderabili.

Traduzione dal francese di Michelina Borsari
«Il Sole 24 Ore» dell'11 settembre 2016

L’orgoglio del dilettante

di Paola Mastrocola
Leggo che il mondo intero sta cercando di imitare il metodo di Singapore di insegnare la matematica; in particolare nel Regno Unito metà delle scuole elementari lo adotterà e, grazie a un ricco finanziamento, nei prossimi quattro anni si addestreranno gli insegnanti a usarlo.
Stupisco, innanzi tutto, di questo particolare, in effetti un po’ a latere: che si addestrino gli insegnanti. Cioè che negli ultimi anni si sia convintissimi che gli insegnanti debbano essere formati e riformati, secondo modelli, schemi e teorie che di volta in volta paiono innovativi e irresistibilmente da imitare. Può darsi che sia giusto, ed encomiabile. Sicuramente, in ogni ambito lavorativo, è bene rinnovarsi. Io per parte mia resto convinta che ci sia un fondo immutabile, un basamento granitico, nell’arte dell’insegnare, che travalica i tempi e mai per nessuna ragione dovrebbe essere intaccato. C’è qualcosa che resiste ed è bene che resista in noi, quel quid di non-nuovo che fa sì che la nostra civiltà millenaria non si estingua, per dire. Gli scogli resistono ai venti, semmai si levigano e si smussano un po’: ma non per l’azione volontaristica e testarda di qualcuno di noi, bensì per il lentissimo e naturalissimo (inesorabile) scorrere del tempo.
A parte ciò, molto mi rallegro che si sia trovato un metodo risolutivo e credo meraviglioso, visto che gli studenti di Singapore risultano i primi al mondo nelle classifiche Ocse. Dunque, qual è il mistero? Per scoprirlo, leggo con avidità l’articolo, apparso a fine luglio su un quotidiano nazionale, e di nuovo, più che mai, stupisco: non trovo esplicitato nessun metodo, nessuna teoria strabiliante. Nulla di didattico, voglio dire. Trovo invece parole chiave tipo: disciplina, addestramento, grandi aspettative dei genitori, ambizione, orgoglio e desiderio di eccellere negli studenti. Leggo anche che chi sbaglia in classe viene deriso dai compagni, e penso: qui da noi invece viene applaudito, e subito inglobato nei gruppi in quanto simpatico e “figo”. Chi invece dice giusto, dimostra di aver studiato molto e magari anche di avere qualche capacità aggiuntiva, a Singapore viene applaudito. E penso: qui da noi invece è dileggiato, escluso da ogni congrega coetanea, evitato come la peste. Forse viene anche messo su facebook perché si sprigioni un’energia derisoria il più possibile cosmica. Infine, leggo che, sempre a Singapore, si parla anche di punizioni corporali. Oibò.
Dunque, il metodo, direi, è squisitamente educativo, non certo didattico in senso tecnico? Che si tratti, in definitiva e con parole grezze, semplicemente di studiare secco, con rigore, la matematica (e magari anche le altre materie)? Davvero l’idea rivoluzionaria e innovativa, almeno nel Regno Unito, sarebbe quella di importare la disciplina?
E chissà se anche noi in Italia, per amore delle classifiche, troveremo mai la forza e l’ardire di spingerci a tanto?

Una mia nuova amica, giorni fa, parlando del più e del meno, fa scivolare tra le tante la seguente frase: Io non do consigli, io giudico.
Resto lì. Sulle prime non capisco, ma colgo che c’è un’antitesi, un aut aut, che potrebbe rivelarsi interessante. Come se fossimo divisi in due: o diamo consigli, o giudichiamo.
Ricordo anni fa che amici carissimi affermavano con grande decisione e perentorietà che non dovevamo giudicare mai, né le persone né i loro comportamenti o atti o discorsi. Pensavo, allora, che si trattasse di una particolare area di esseri umani ancora irretiti nell’onda post-sessantottina (erano solo gli anni ’90…). Ora penserei che si tratta di un tratto distintivo delle civiltà occidentali, irretite in un mix ben più ampio in cui di sicuro predomina l’aspetto religioso, direi neocattolico. Mi viene in mente papa Francesco che a un certo punto disse la ormai famosa frase: Chi sono io per giudicare?
Ecco perché quel che dice la mia nuova amica mi colpisce, e così favorevolmente. Le chiedo di spiegarsi meglio. E lei mi dice che chi dà consigli agli altri giudica più che mai, semplicemente non lo dà a vedere: maschera il giudizio sotto forma di consiglio. Geniale! I consigli sarebbero dunque giudizi mascherati, espressione di una viltà subdola e strisciante di chi non ha il coraggio di esprimere giudizi, perché la morale dominante vuole che non si faccia, però si permette di dire la sua sotto la forma serpentina strisciante del distribuir paternamente consigli. Io farei così e cosà, io fossi in te, se tu volessi darmi retta, accettare il mio modesto parere, ecc. ecc….
Io invece do giudizi, dice l’amica. Mi accollo l’onere, mi prendo il peso, mi arrogo il diritto di esprimere giudizi su quel che vedo intorno a me. E mai darei consigli: ognuno faccia quel che crede, ma sappia come io lo giudico; può farsene due baffi, o tenerne conto.
Ho la sensazione che il mondo migliorerebbe, se tutti facessimo così, se ci riprendessimo il sacrosanto diritto di dire come la pensiamo, visto che, bene o male, qualcosa pensiamo: dunque perché nascondere il nostro pensiero? Perché questa viltà di tacere o, peggio, fingere di non pensare? Tutti quanti e sempre, in ogni momento del nostro vivere quotidiano, diamo normalmente giudizi sulle cose e sulle persone, nel bene e nel male. Quel che siamo invitati a fare, oggi più che mai, è di non esprimerli. Viviamo immersi in questa coazione a reprimerci e nasconderci, a cui, credo, sarebbe bene ribellarci: il mondo ha bisogno del personale giudizio di ogni singolo, con cui ognuno ha il diritto e il dovere di fare i conti.
Ma, naturalmente, è solo un mio personale giudizio.

Conosco persone che sanno svolgere mirabilmente una certa attività artistica, come dipingere, scrivere, recitare. A tutti capita di incontrare o frequentare gente così. Sono amici, conoscenti, vicini di casa, o anche estranei con cui veniamo casualmente a contatto nella vita di ogni giorno. Vediamo o leggiamo le loro produzioni, e possono essere quadri molto originali, racconti da far invidia a Henry James o a Carver, performances degne dei più grandi attori.
Ma gli autori di queste opere non sono nessuno. Non sono riconosciuti, noti per quel che fanno. Agiscono nell’ombra, in un anonimato impenetrabile. Il mondo non li conosce, se non una ristretta cerchia di persone che sono perlopiù amici e parenti. In una parola, artisti sconosciuti. Che perlopiù si autodefiniscono dilettanti.
Ho riflettuto sulla parola dilettante. In genere è dispregiativa, la appioppiamo a persone che pensiamo non sappiano fare il loro mestiere, o con non sufficiente tecnica, mestiere, professionalità. Volonterosi incapaci, incompetenti spesso arroganti. E certamente è così, nella maggior parte dei casi. Il dilettantismo è una piaga che infesta il mondo di velleitarismo e pressapochismo, lo popola di gente che s’improvvisa falegname, massaggiatore, poeta, estetista, imbianchino… Dilettanti allo sbaraglio, non solo in tivù.
Ma trascuriamo qualcosa d’importante, secondo me, in questa accezione negativa che facciamo prevalere. In «dilettantismo» c’è la parola diletto: piacere. Così come nell’aggettivo amatoriale con cui definiamo, per esempio, il teatro di chi lo fa per diletto, c’è la parola amore. Dunque dilettante è per prima cosa colui che fa una cosa per puro diletto. Per amore di quel che fa e basta, senza fini: di lucro, di prestigio o altro.
Cosa potremmo desiderare di meglio? E cosa di più vicino al senso sublime dell’arte? Il piacere in sé, che si prova nel momento in cui ci dedichiamo a un’attività che ci soddisfa e riempie totalmente di senso il nostro esistere, sia dipingere o scrivere o armeggiare con martello e chiodi per costruire uno sgabello. In quel momento, che è veramente solo un momento, uno spillo puntiforme di tempo, non importa più niente, ogni criterio di utilità e di vantaggio personale salta.
Dilettantismo, nella sua accezione più alta, è questo esistere avulsi dal resto, paghi di sé, liberi. È creare qualcosa senza farne un mestiere, senza curarsi dei modi, della tecnica, del complicato sistema di valori. È fermarsi prima del mestiere, in una zona ingenua e superficiale (di pura, intatta superficie), dove regna sovrano il caso, l’intuito, l’arbitrio fanciullesco senza freni. Certo, è non essere capaci fino in fondo, non aver studiato abbastanza, o non avere un talento sufficiente. Ma prima di tutto è fare qualcosa per puro diletto, senza patire le catene di un fine.
E qui si apre, semmai, un altro problema, che riguarda l’essere conosciuti o meno. Non parlo di quel valore indiscutibile di un’opera, che comunque prima o poi, magari postumo, è inevitabile che emerga e s’imponga nel mondo. (Il genio è sempre riconoscibile? Forse sì. Pensiamo a tutti i grandi artisti che sono morti senza il barlume di un riconoscimento, e che oggi però universalmente riconosciamo e osanniamo). Parlo di tutti coloro che mai, passassero anche mille secoli, arriveranno a una seppur tardiva notorietà. Le loro opere, anche splendide, moriranno con loro, non saranno conosciute da nessuno, affonderanno nel buio da cui sono venute e dove hanno sempre albergato. Per sempre dilettanti. O geni misconosciuti, che per qualche misterioso movimento dei congegni della sorte, così, casualmente, non sono mai emersi. O sono emersi e sono stati subito dimenticati.
Mi dispiace. Penso alla messe di capolavori che ci perdiamo, e a quel profluvio di prodotti che oggi c’invadono e chiamiamo capolavori e invece, spesso, non sono altro che relitti che hanno avuto la fortuna di affiorare. Ma mi dispiaccio ancor di più per il talento non riconosciuto, per i tesori inabissati, per le porte che, chissà perché, non si sono aperte.
Spero che il diletto e l’amore riempiano comunque, o abbiano riempito, la vita di questi autori nascosti, sommersi. E che magari un giorno un’esplosione, o un sovvertimento di un qualche tipo, faccia come per incanto venire a galla proprio le loro opere. E siano a quel punto i capolavori riconosciuti, i soli destinati a sopravvivere in eterno.
«Il Sole 24 Ore» del 28 agosto 2016

Contro la scuola facile

di Paola Mastrocola
Si parla molto di latino e greco, oggi. Se ne parla perché le iscrizioni al liceo classico sono in calo, e perché si sta pensando di cambiare la seconda prova di maturità, la traduzione.
C’è stato un «processo al Liceo classico», a Torino; un convegno al Politecnico di Milano; c’è un libro di Nicola Gardini sulla bellezza del latino; ci sono articoli, blog sul tema. Sono intervenuti personaggi della politica e della cultura, a favore o contro: Umberto Eco, Maurizio Bettini, Luigi Berlinguer, Federico Condello, Luciano Canfora,Luca Serianni (vedi il suo intervento su Domenica della settimana scorsa, ndr), e tanti altri. Insomma, c’è subbuglio, polemica, toni accesi.
Sono contenta. Anzi, vorrei di più. Vorrei che si scatenasse l’inferno su questo tema, perché riguarda tutti noi, la cultura, l’Italia, il futuro del mondo, e del pensiero. Non vorrei lo si considerasse un problemino marginale che riguarda soltanto il latino e greco, e i licei...
Per questo, oggi non saranno Paginette, ma un unico paginone.
Il punto è questo: nessuno dice esplicitamente di voler abolire il liceo classico, né il latino allo scientifico; ma molti dicono di voler cambiare (ridimensionare?) la seconda prova agli esami di maturità: la traduzione.
La proposta innovativa è di ridurre il testo da tradurre, e non chiederne più solo una mera traduzione, ma fare anche domande sul contesto, la storia, la letteratura, l’autore, la sua opera, le sue idee. Il fine dichiarato è di rendere più affascinanti materie ostiche, e mediamente poco amate, come il latino e greco, fare in modo che il loro studio appassioni i ragazzi dell’era digitale.
Il problema esiste, non si può negare. Bisogna affrontarlo. E non credo che tenere tutto com’è sia una buona soluzione, qualcosa davvero dovrà cambiare.
Io non ho la soluzione, ovviamente. Vorrei solo che tutti quanti ci interrogassimo, che pensassimo bene a cosa fare. Tutti quanti, non solo insegnanti, governanti, funzionari ministeriali, ma anche medici, ingegneri, panettieri, elettricisti, attori, artisti, ciclisti, clown, infermieri, tassisti, archeologi, scenografi, giornalisti... Tutti.
Temo che, se passasse questa variante, sarebbe un ulteriore abbassamento di livello, per l’istruzione italiana. E uno snaturamento del liceo classico. Sarebbe ancora una volta edulcorare, annacquare, infiorare, indorare la pillola, per corrispondere alle richieste della maggioranza, adeguarsi, acchiappar consenso.
Perché dico questo? Proviamo a immaginare. Davanti a un testo di Orazio, chiederemo all’allievo non di tradurlo, non di sapere grammatica e sintassi, ma di capirlo e interpretarlo, e “parlarne intorno”. Pazienza se non riconoscerà una finale, se sbaglierà una consecutio o non vedrà certi nessi consequenziali (beceri tecnicismi?); l’importante è che colga il senso generale, lo inquadri in un contesto e dica quel che pensa. Carino, niente da dire. Molto fascinoso, sicuramente allettante: meno fatica, meno rigore, meno «esattezza», più apertura (forse) agli aspetti della civiltà, della cultura, del pensiero, in senso ampio. Ma avrei due considerazioni da fare.
La prima è: lo facciamo già! Facciamo «autori» e «letteratura» nei licei, non solo grammatica, non solo traduzione. Abbiamo un programma che prevede proprio questo: di leggere testi anche già tradotti, integrali o in antologia, di inquadrarli, di parlarne a tutto campo. A ciò molti insegnanti aggiungono, per passione, di fare anche teatro, dai testi antichi. E abbiamo prove che interrogano l’allievo su questo, anche alla maturità: all’orale e con le domande della cosiddetta «terza prova» si dà spazio proprio a quel che l’allievo ha studiato e ha amato.
La seconda: non sarebbe un ulteriore invito al pressapochismo, alla chiacchiera? Se accanto alla traduzione di un passo facciamo anche le domandine sul carpe diem, ovvio che la prova diventa più facile: un discorsetto sulla transitorietà della vita umana lo butta giù chiunque abbia mediamente leggiucchiato qualche pagina o videata, o orecchiato qualche sprazzo di lezione. (Se poi saranno le solite domandine, lo spettro della scuola-test incombe e mi fa paura...).
Perché voler intorbidare le acque adamantine di una prova chiarissima e semplice che richiede solo di saper tradurre? Che c’è di male? Con la traduzione si chiede di mettere in atto quelle capacità linguistico-logico-letterarie-culturali... che sono basilari e imprescindibili per capire e interpretare ciò che si legge. Tutto lì. Gli alati discorsi vengano dopo. Anche perché rischiano di essere aria fritta. In quanto poi alla passione, be’, difficile appassionarsi a Orazio senza capire cosa dice, senza saperlo tradurre.
Se facilitiamo o riduciamo la traduzione, temo che a breve non sapremo più leggere Orazio, e ci ridurremo a poter frequentare solo i riassuntini di Wikipedia e fare solo discorsi generali (e superficiali) su Orazio. Alati discorsi, appunto.
La traduzione dal latino e greco è una delle ultime cose difficili che son rimaste nella scuola italiana, insieme alla matematica. Quindi il calo di iscrizioni al classico non potrebbe voler dire che i ragazzi oggi, tout simplement, sono meno in grado di fare cose difficili? E come potrebbe piacerci questo? I risultati, è vero, non sono brillanti. Pochissimi arrivano a saper davvero tradurre. Quindi edulcoriamo? E, in prospettiva, aboliremo? Non mi sembra una soluzione. È come quando vediamo alzarsi i livelli di inquinamento nelle città e, invece di rendere l’aria più salubre, abbassiamo la soglia di pericolo. Strano modo di risolvere i problemi... Allo stesso modo, c’è un calo di iscrizioni al classico? Bene, allora alleggeriamo latino e greco?
Non potremmo fare esattamente il contrario, e cioè potenziare e approfondire, e rendere tutti capaci di tradurre? (Anche perché è colpa nostra se i ragazzi sono sempre meno capaci di tradurre, e in generale di far cose difficili, è colpa della scuola che abbiamo costruito noi per loro negli ultimi anni, quindi sarebbe doveroso e onesto riparare una buona volta i danni che abbiamo arrecato, e non aggiungerne di nuovi!).
Potremmo rendere latino e greco obbligatori fin dalla prima media. Potremmo ritenerli indispensabili e basilari a qualsiasi formazione. Almeno il latino, se non il greco. Ripristinare la prova di traduzione anche allo scientifico. Aumentare le ore di latino (o almeno riportarle a com’erano). Riproporre la traduzione dall’italiano. Innalzare il livello, per tutti, insomma. Rendere liceo classico tutta la scuola, cioè la scuola di massa.
Potremmo anche prevedere delle certificazioni con le quali soltanto si può accedere a certe università, e si ottengono certi lavori. Lo ha fatto la Cusl (Consulta universitaria per gli studi latini): un certificato che attesta la conoscenza del latino, con quattro diversi livelli di competenza (anche se applicare al latino i criteri delle lingue moderne può lasciar perplessi...). Un certificato allegabile al curriculum, visto che ci sono aziende, soprattutto all’estero, che apprezzano molto la conoscenza del latino, e la richiedono.
Ma bisogna crederci. Bisogna credere che fare latino e greco, quindi fare la traduzione, abbia ancora un senso. E perché non crederci? Quel che vedo io è che chi viene dal liceo, se ha fatto un buon liceo!, sa affrontare meglio gli esami più difficili nelle Facoltà più difficili. Chi ha fatto altre scuole invece arranca, e spesso deve abbandonare perché quegli esami non li passa. Questo non ci dice niente? (O non ci piace?).
Ecco che cosa mi preoccupa: l’attuale deficit di motivazione nostra, di noi adulti, insegnanti, scrittori, intellettuali, politici, governanti, famiglie. Perché crediamo così poco nel greco e nel latino? Forse perché l’Europa, e l’America, fanno un altro tipo di scuola (che peraltro sta fallendo)? E se fossero invece proprio il latino e il greco a fare la nostra differenza, e la nostra eccellenza? Perché dovremmo rinunciarci, equiparandoci pedissequamente, e conformisticamente, agli altri? Non potremmo essere più orgogliosi e consapevoli, e auspicare che siano gli altri a imitare noi?
O è per compiacere l’utenza, cioè famiglie e allievi, che vogliono una scuola facile e divertente? E se sbagliasse, questa benedetta «utenza»
Abbiamo già reso facile e divertente la scuola. Da quarant’anni, e soprattutto negli ultimi quindici, non facciamo altro: il latino ai licei è già più facile e leggero. Anzi, è stato talmente annacquato che è ormai impossibile insegnarlo davvero. Questa è la verità, gravissima, che non si dice mai: il latino è una finzione che si tira avanti nella più completa ipocrisia. Non si fa più alle medie, si comincia in prima liceo con tre ore a settimana: impossibile insegnarlo, e quindi impararlo, per davvero. Impossibile arrivare a saper tradurre Cicerone, Seneca o Virgilio. Ma si continua a fare. È peggio che se fosse stato abolito: è finto. A parte lo strenuo impegno e ardore di qualche sparuto insegnante che, a dispetto degli orari ridotti e di tutto il resto, cerca ancora di insegnarlo come si deve, ma alla fine può ben poco. Quanti oggi, tra insegnanti e allievi, sanno ancora veramente il latino?
Ecco perché, forse, si pensa di cambiare la seconda prova di maturità: per avvenuta insipienza collettiva. È amaro, lo so. Ma ancora più amaro è che, siccome non abbiamo (ancora) il coraggio di abolire il latino, lo spegniamo a poco a poco, gli togliamo aria, e, cosa ancor più grave, neghiamo di farlo.
Questo mi fa male. Preferirei che l’Italia avesse il coraggio delle sue azioni, che i governanti, gli intellettuali, gli insegnanti, i funzionari ministeriali dicessero apertamente: scusate italiani, ci dispiace, non siamo più in grado di fare latino. Siamo un Paese che è andato così. Il latino non lo studiamo più, nessuno più ne ha voglia e dunque vada con Dio. Ci dispiace esser noi a doverci prendere questa responsabilità, di far fuori dopo tremila anni il latino e il greco, ma pazienza, qualcuno lo deve pur fare. D’altronde, è roba difficile e sa di vecchio: un futuro ben diverso ci aspetta e ci sorride. Il mondo attuale, la tecnologia, l’innovazione, il progresso, e bla bla...
Preferirei. Così come, in fondo, preferisco le parole, sconcertanti ma coraggiose, di Luigi Berlinguer al convegno di un mesetto fa al Politecnico di Milano: la traduzione al liceo va abolita! Almeno ha coraggio, l’ex ministro Berlinguer. Tanto di cappello. (D’altronde, non aveva forse già abolito il tema, quindici anni fa? Dando un colpo mortale, secondo me, alla prova di scrittura...).
Va bene. Se davvero non crediamo più che latino e greco siano le sole e migliori attività che allenano la mente, che insegnano una strutturazione logica del pensiero e via dicendo, d’accordo, sostituiamoli! Ma con cosa? Quali proposte stiamo facendo? Io non ne vedo una, sento solo parole vacue e confuse. Aria fritta. Che cosa di altrettanto impegnativo e difficile siamo in grado di proporre, se decidiamo di abolire o alleggerire la traduzione?
Ho il sospetto che, semplicemente, vogliamo far fuori la difficoltà.
Temo che il mondo si avvii a puntare quasi esclusivamente sul consenso, e stia diventando una gigantesca, universale macchina per produrre consenso. Lo vediamo nella rete, ma lo vediamo anche qui in Italia nella politica, e nella cultura: nella fattispecie, in quella particolare zona della cultura che si occupa di scuola. Dal ministero di Luigi Berlinguer in poi la scuola cerca consenso, cioè utenza, cioè iscritti. È un’azienda che deve far quadrare i conti. L’acchiappa-utenza è una macchina che gira tutto l’anno in tutte le scuole, e gioca su: orientamento, accoglienza, progetti Pof, incontri, dépliant. Materiale illustrativo e pubblicitario, insomma.
Siamo sicuri che l’utenza vada così vezzeggiata e opportunisticamente ossequiata?
È nell’importanza del difficile che dovremmo ricominciare a credere. Soltanto una scuola che abbia il coraggio di tener duro e continui a proporre cose difficili fa il bene dei nostri giovani, tutti, di qualsiasi condizione siano: consentirà loro quell’ascesa, intellettuale e sociale, che oggi non vediamo più realizzarsi, ma che fino a ieri, fino alla mia generazione, era possibile. E riusciva a cambiare drasticamente il destino di una persona.
«Il Sole 24 Ore» del 29 maggio 2016

Fine dei complementi

Letteratura
di Paola Mastrocola
Difesa dell’analisi logica
Le scuole sono finite. Inizia il periodo intenso dello studio estivo: debiti da colmare, ripetizioni, pubbliche o private che siano. E in vista dei compiti per le vacanze e degli esami settembrini, vorrei tentare una difesa dell’analisi logica. Quella che si faceva tantissimo a scuola, e oggi sempre meno. Quella che bisogna studiare per fare latino e greco, e che quindi oggi si tende un po’ a denigrare. Come il latino e greco.
Dicono che agli studenti non piaccia. Non piace quando non la sanno fare, e non la sanno fare perché nessuno gliel’ha insegnata. In circostanze favorevoli, si possono trovare ragazzi (e docenti) addirittura appassionati. Mi è capitato, quando facevo l’insegnante, di passare ore meravigliose a chiederci tutti insieme in classe se un complemento di moto da luogo potesse dirsi anche di provenienza, o un complemento di fine avesse o non avesse una certa qual sfumatura di vantaggio.
Per esempio: «Ho comprato una borsa per la festa di Ornella» è fine. Ma «Ho comprato una borsa per Ornella» è fine? Ornella può essere un fine? E «Ho fatto questo per te» è fine o è vantaggio? E se quel che ho fatto non fosse un vantaggio per te, ma una sciagura?
Si può stare ore a fare analisi logica. Vuol semplicemente dire chiedersi il perché delle parole. Che cosa lega un aggettivo a un nome, quanti significati ha una banale preposizione come per, da, con. Che cosa distingue una causa da un fine, e come interviene il tempo, futuro o passato.
È ovvio che l’analisi logica non serve a parlare o a scrivere. Impariamo tutti in modo naturale l’uso di una lingua. L’analisi logica è un di più. In questo senso un lusso. È prendersi il piacere, il gusto, di stare a riflettere sulla lingua che parliamo. Un lusso, appunto. Anche un po’ laterale, staccato da quel che chiamiamo realtà. Diverso ascoltare un telegiornale dal riflettere sul senso di un avverbio, ecco. Ma forse per capire davvero le notizie di un telegiornale non sarebbe male conoscere gli avverbi. E i complementi di causa, fine, vantaggio, provenienza, materia, esclusione...
Secondo argomento a difesa. Qui il parere da contrastare è: l’analisi logica, come tutta la grammatica, è un’astrazione che ci siamo inventati dopo. Certo! E meno male che ce la siamo inventata. È come per le piante, gli insetti, le meduse, i funghi: abbiamo catalogato, schedato e dato un nome a ogni singolo “oggetto” che ci è sembrato uguale ad altri. Abbiamo analizzato le caratteristiche e diviso, suddiviso, definito. I crostacei, per esempio, appartengono a una famiglia di animali più ampia, che si chiama degli Artropodi, a cui appartengono anche i millepiedi, per dire. Ma a loro volta, tra i crostacei, bisogna distinguere tra Decapodi (tra cui i gamberetti), che hanno sempre dieci zampe, e Isopodi che hanno sette paia di zampe tutte uguali tra di loro.
È importante? Certamente no. Quando andiamo al mare, chiamiamo granchio più o meno tutto quel che ci zampetta intorno sugli scogli. E al ristorante ordiniamo gamberetti senza chiederci quante zampe abbiano e a che sottospecie di crostacei appartengano. Proprio come, quando stiamo tra amici a cena, non ci chiediamo se stiamo usando un’apposizione o un complemento di denominazione.
Ma pensiamo a Linneo, il grande medico, botanico e naturalista svedese del settecento che per primo ha classificato gli organismi viventi. Ha distinto, ha dato i nomi, ha unito secondo caratteristiche comuni. In una parola, ha analizzato la realtà e l’ha organizzata in schemi. Ha osservato, e poi ha pensato per astrazioni. L’analisi logica è ancor di più. Non è solo l’esercizio di mettere in ordine e incasellare in una tassonomia, è anche vedere la struttura profonda di ciò che diciamo, capire l’organizzazione logica.
Tutto ciò è conoscenza.
Mi sembra un progresso dell’umanità non chiederci ogni volta, di fronte a ogni fiore, che strano fiore sia. Siamo arrivati a conoscerlo, cioè a riconoscerlo secondo una classificazione data. Ri-conoscere è sapere.
Non è forse non «viver come bruti», questo modo di vivere “ri-conoscendo”?
Nomina si nescis, perit et cognitio rerum. È una frase di Linneo che ho trovato su Wikipedia. Se non conosci i nomi, muore anche la conoscenza delle cose.
Quindi, vogliamo continuare a insegnare l’analisi logica (e a fare latino e greco)?

Genitori e favole
Avendo scritto ultimamente una favola (o meglio, un romanzo-favola), mi hanno fatto diverse interviste su cosa sia la favola, che senso abbia oggi e perché io ne scriva abbastanza spesso.
Non lo so. Credo di aver dato ogni volta una risposta diversa. Ma intanto riflettevo, soprattutto su un elemento autobiografico piuttosto sconcertante: a me nessuno ha mai raccontato favole da piccola. È sconcertante perché spesso gli scrittori dicono che sono diventati scrittori perché la mamma o il papà o la nonna gli raccontava tante storie, e lui al suono di quella voce ha cominciato a coltivare il gusto delle parole e della narrazione. Io potrei dire che sono diventata scrittrice per l’esatto contrario: perché nessuno mi raccontava mai niente. Così ho dovuto raccontare io a me stessa.
E fin qua, bene così. Fatti miei. Ma mi sorge un pensiero più generale. Anzi, una domanda: facciamo bene a raccontare tante storie ai bambini, e in particolare a legger loro dei libri?
Credo che i genitori delle ultime generazioni passino ore la sera ad addormentare i figli a suon di favole, lette o raccontate. Hanno una pazienza rara, questi nuovi genitori che, forse, si sentono in colpa per arrivare a casa alle sette di sera avendo trascurato la prole per tutto il giorno. È possibile che per loro raccontare quattro favolette sia un po’ come lavarsi la coscienza.
Certamente oggi si è imposto una specie di obbligo genitoriale all’intrattenimento dei figli. Papà e mamma devono giocare sempre con i figli. Tornano a casa e si buttano sul tappeto a far andare macchinine e robot. O si buttano sul divano a smanettare insieme giochi interattivi su tablet e cellulari. O guardano i cartoni insieme, ascoltano musica, e vanno in bici insieme. E raccontano favole, naturalmente.
Forse i miei non me le raccontavano perché a quei tempi i genitori facevano i genitori e basta. Non erano intrattenitori, compagni di giochi e animatori turistici. Non se lo sognavano neanche, tornando la sera dal lavoro, di buttarsi per terra a giocare con le macchinine. Non dico che fosse meglio o peggio, constato solo che era così.
Ma non importa, i tempi corrono. Quel che mi chiedo è se tutto questo attuale legger libri ai figli faccia loro bene o no.
Normalmente si pensa che faccia un gran bene. Ci è nato un gusto un po’ rétro per la cultura orale, per quel periodo della Grecia arcaica in cui non c’erano scrittori ma aedi, che andavano di banchetto in banchetto ad allietare la gente con storie. Che allora si chiamavano miti. E forse c’è anche, in noi, qualche retaggio anni cinquanta, qualche ricordo famigliare di nonni contadini che la sera nella stalla contavano le loro storie. Odor di Grecia e odor di stalla, chissà. Sta di fatto che leggiamo molto i libri ai nostri figli.
Ma non sarà che fa loro del male questo nostro gran leggergli libri? Non sarà che poi inibisce, o addirittura spegne, la loro personale e autonoma lettura, invece che stimolarla?
Insomma, mi viene una specie di dubbio ribaltante. Forse noi, che spasmodicamente vogliamo che i nostri figli leggano, dovremmo andarci piano col leggere loro libri. Dovremmo aspettare che imparino a leggere e se li leggano da soli, e intanto dosare con parsimonia. Non abituarli a un’abbuffata passiva, ma offrire giusto qualche assaggio, per educarli a un’attesa. Far loro provare il gusto di quando saranno capaci di leggersi i libri per conto loro, e si riempiranno delle storie che vorranno.
Mettere avanti il libro come una conquista dell’età futura, ecco.

Questione di occhio
Ricevo sul cellulare, da un giovane amico in viaggio in Spagna, un video di 37 secondi su una festa popolare nelle strade. Bello. Immagini molto affascinanti. Ma... rimango senza parole. Alla lettera. Senza le sue parole, senza un testo – anche solo un rigo – che mi dica come l’ha vista lui, quella festa, cosa ne ha rilevato, su quali particolari si è fermato, com’era il clima, e cosa c’era nelle strade intorno, e se faceva freddo, se tirava vento, se la gente cantava o era triste, e cosa ha provato lui.
Penso che ci mancheranno le descrizioni. Cioè, esattamente quei testi, quell’accumulo di sole parole, che, appunto erano lì per sostituirsi alle immagini: le de-scrivevano.
Condividiamo, oggi.
Condividere, vuol dire che io ti mando un video di quel che sto vedendo, così lo vedi anche tu. Cioè con-dividi con me, in tempo reale, la visione.
Scrivere, però, era già una forma di condivisione: io scrivevo quel che stavo vedendo perché tu mi leggessi. Il lettore come massimo condivisore. La differenza è che si potevano condividere, attraverso quella forma arcaica, non solo ciò che si vedeva, ma anche ciò che si provava, ricordava, pensava. O anche ciò che si era visto, aggiungendo così un tempo passato al tempo presente. C’era anche l’astratto, e il temporale, nella condivisione della scrittura.
Certo, l’occhio va più veloce. Le parole invece se ne stanno lì, lente, addirittura immobili. E a noi lentezza e immobilità non piacciono. Forse per questo le descrizioni sono quasi del tutto sparite, nei libri che scriviamo e leggiamo.
Penso a tutti gli scrittori del passato che hanno descritto luoghi senza averli mai visti. O perché erano ciechi, o perché ritenevano che andare a vedere i luoghi fosse del tutto inutile, al fine di descriverli. Anzi, forse dannoso.
La parola evoca, e crea i luoghi. Non ha bisogno che esistano.
Oggi preferiamo avere occhi che parole.
Ieri era descrivere senza vedere. Oggi è vedere senza descrivere.
In mezzo passano i secoli, i millenni.
«Il Sole 24 ore» del 26 giugno 2016

In difesa del liceo classico, scuola modello per l’occidente

esempio di eccellenza italiana
di Nicola Gardini
Il liceo classico è sotto accusa, anzi, sotto assedio. Il problema è squisitamente italiano, e non solo perché una scuola del genere è tutta italiana. Gli attacchi al liceo classico, infatti, non vanno presi – se non come concomitanza storica – per parte della diffusa crisi delle humanities che caratterizza le accademie anglo-americane; e non solo quelle. In India, per citare una grande democrazia, il sapere umanistico è stato smantellato. Lì trionfa la matematica. Ecco una delle ragioni per cui i migliori matematici sono indiani. Non parliamo della Cina.
La corsa precipitosa alla monetizzazione del sapere, insomma, sta facendo piazza pulita degli insegnamenti letterari e linguistici un po’ dovunque. Ci sono università in Inghilterra in cui le humanities sopravvivono solo se chi le vuole insegnare va a cercarsi fondi fuori, con laboriose, kafkiane domande, il successo delle quali porta soldi non solo alla persona che ha fatto la domanda, ma allo stesso ateneo che impiega la persona. La cosa si commenta da sola. In poche parole: i soldi diminuiscono (ne sono spariti tanti con gli ultimi disastri finanziari) e i dipartimenti di studi umanistici si contraggono, si sciolgono, spariscono. La carriera umanistica per moltissimi ormai è solo un’illusione distruttiva.
L’Italia tutto questo, in pratica, non lo subisce. L’Italia ha il liceo classico. Avendo una certa familiarità sia con l’istruzione italiana sia con quella di vari paesi stranieri, non esito a dire che il liceo classico è l’esperimento di pedagogia più geniale e più fruttuoso che un governo occidentale abbia mai messo in piedi: una scuola che fonda principalmente la formazione dell’individuo sullo studio delle lingue antiche, il greco e il latino. Chi esce dal liceo classico – se circostanze slegate dal tipo di studio non si frappongono – conosce la Grecia e Roma e quello che queste civiltà hanno inventano e tramandato e grazie a tale conoscenza sa parlare, sa scrivere, sa pensare, ma soprattutto sa interpretare, mettere in rapporto, relativizzare, confrontare, distinguere, riconoscere il duraturo e l’effimero, dare un nome a fatti diversi, capire la libertà, la bellezza, la varietà e la concordia.
Ma il liceo classico per alcuni non serve più. Questi alcuni sono persone che del liceo classico non hanno un’idea. E se l’hanno, pretendono che venga negato ai giovani in nome di un falso concetto di modernità, che dovrebbe promuovere esclusivamente le scienze. Una simile visione delle cose è limitata da un grave errore: la convinzione che lo studio del greco e del latino non sia cosa scientifica; e che scienza siano solo la fisica, la matematica e la biologia.
Lo studio delle lingue classiche, invece, è scienza tanto quanto lo studio delle leggi della materia o della gravitazione universale. La stessa fisica è un sapere storico, perché analizza campioni di realtà che viaggiano e si trasformano nel tempo. Scienza, indipendentemente dall’oggetto esaminato, è tutto ciò che richiede osservazione, comparazione, sistematizzazione, speculazione là dove i dati mancano, proiezione in avanti. In termini assiologici o gnoseologici non esiste differenza tra lo studio di un frammento di papiro e quello di un neutrino. E questo è così vero che sul latino e sul greco si sono addestrati e si possono ancora addestrare informatici, fisici, ingegneri, medici ed economisti. Solo una lesiva e grottesca riduzione della realtà e della vita umana può negare importanza ai reperti dell’antichità e all’apprendimento di due miracolosi sistemi cognitivi, arrivati fino a noi grazie a un’amorosa e raffinatissima opera di trasmissione, come il greco e il latino. In particolare, eliminare la traduzione (sulla centralità della quale in questo giornale già si è pronunciata Paola Mastrocola) sarebbe un gesto di irresponsabile, gravissimo immiserimento: come sostituire tutti gli originali degli Uffizi con riproduzioni formato poster.
I sostenitori del liceo classico, per fortuna, non mancano. Sono i giovani stessi, e sono persone dei più vari tipi, compresi gli scienziati. Una petizione di un gruppo di professoresse fiorentine dello storico liceo Michelangiolo (http://taskforceperilclassico.it/t/) ha già raccolto circa cinquemila firme, tra cui riconosciamo un Salvatore Settis, una Eva Cantarella e un Luciano Canfora, per citare solo alcuni celebri rappresentanti del sapere umanistico, ma anche due insigni fisici come Guido Tonelli e Carlo Rovelli.
Basta con proposte di riforma boomerang. Basta con questa cecità. Un paese che vuole vivere ha il dovere di sapere prima di tutto dove già eccelle.
«Il Sole 24 ore» del 28 agosto 2016

Fine del classico come metonimia

Ritorno a scuola
di Claudio Giunta
Finite le scuole medie, una cara amica si sentì fare dal padre questo discorso: «Tu sei libera, puoi fare quello che ti pare, scegliere la scuola che vuoi. Dunque scegli: Tasso o Mamiani?». Il Tasso e il Mamiani sono due celebri licei classici di Roma, una volta andava così. Anche adesso, trent’anni dopo, va così, almeno per la mia amica (che si è laureata in Storia, non in Ingegneria), che non imporrà niente, si capisce, ai suoi figli, ma sarà lieta se vorranno anche loro scegliere, liberamente, tra il Tasso e il Mamiani; e va così anche per me (che mi sono laureato in Lettere, non in Ingegneria), che non imporrei niente ai miei figli, ma sarei lieto se anche loro, come me, decidessero di passare qualche anno della loro vita in compagnia dell’Eneide, degli aoristi, del locativo e di Baruch Spinoza.
Buttarla sul personale, parlando di scelte scolastiche, è la prima cosa da fare, perché si tratta sempre di preferenze, inclinazioni personali, si tratta di scelte di vita, e pretendere di guardare dall’alto, da un punto di vista che si presume oggettivo, queste scelte di vita, e dire cos’è meglio e cos’è peggio non per sé o i propri figli ma in generale è ridicolo prima che sbagliato.
Ciò premesso, è chiaro che i casi personali sono infiniti, e che un assetto all’istruzione bisogna darlo e si dà (che cosa insegnare a scuola? Come organizzare i curricula? Quali discipline privilegiare e quali no?), quindi è del tutto legittimo domandarsi, per esempio, e lo si sta facendo in queste settimane, che destino può e deve toccare al liceo classico. Nei trent’anni che sono passati dal mio ingresso al liceo classico, infatti, il mondo è cambiato, forse più ancora di quanto fosse cambiato nei sessant’anni che separavano i miei anni Ottanta dalla riforma Gentile. Cambiamenti strutturali, nel modo in cui viviamo, comunichiamo, ci spostiamo; e cambiamenti culturali, in parte conseguenza di quelli strutturali, e che hanno intaccato quel complesso di idee e valori che sono il fondamento della pedagogia del liceo classico. Umanesimo/tecnologia, lingue morte/vive, tradizione/innovazione, conoscenza/competenza, teoria/pratica – tutti i termini sui quali il mondo di ieri metteva un segno più, i primi di ciascuna coppia, adesso hanno un segno meno: non che il mondo di oggi li snobbi del tutto, questo non si può dire, ma preferisce i secondi.
Conseguenza pratica: se nel mondo di appena ieri frequentare il liceo classico era il modo migliore per cominciare a farsi strada nella vita, oggi molti pensano che non sia più così, e le iscrizioni al classico calano, rischiano di prosciugarsi. In un libro aureo e dimenticato, Scuola sotto inchiesta, Guido Calogero osservava: «Abbiamo ancora tutti moltissimo da trarre, dalla frequentazione della saggezza e della bellezza antica. Perché dunque pensare di volerci togliere l’uso di questo formidabile strumento di vita?». Semplice: perché (parlano sempre i molti, s’intende) ogni ora in più dedicata al latino e al greco è un’ora in meno dedicata all’inglese e all’informatica, che come strumenti per la vita odierna sono decisamente più utili.
E che importa – commenta qualcuno – la crisi del liceo classico? È calato anche il numero di quelli che tirano di scherma, e il mondo ha continuato a girare. Osservazione sciocca, perché, dato che viviamo in Italia e non in Congo, liquidare il liceo classico significa anche liquidare, col latino e il greco, un pezzo sostanziale della nostra storia e della nostra cultura: l’una e l’altra anche economicamente molto produttive, dato che i turisti non vengono a trovarci soltanto per il mare e la cucina. Dunque la cosa importa, non solo a livello individuale, ed è bene che se ne discuta, e la parola difesa (’difesa del liceo classico’), che ai liberali può suonare stridula, si adopera invece con pieno diritto. Tutto sta a intendersi sui modi.
Intanto: è chiaro che il classico non è e non sarà più la scuola dell’élite, il vertice del triangolo alla cui base stanno le scuole professionali, i tecnici eccetera, o, come purtroppo ancora leggo in giro, il liceo d’eccellenza (uno non fa il classico proprio per imparare ad astenersi da parole del genere?). È e sarà un liceo come gli altri, ma calibrato su quei giovani che, per un pezzo della loro vita o per tutta, vogliono imparare molte cose sul passato e leggere molti libri che non hanno alcuna evidente utilità pratica. Può sembrare una cattiva notizia a quelli che vaneggiano della speciale apertura mentale conferita dallo studio del latino, o della Grande Bellezza che si dischiude solo ai classicisti, o di Zuckerberg che ha inventato Facebook perché ha letto l’Eneide. Ma non è necessariamente un brutta notizia. Un tempo si faceva il classico perché quella era la scuola di chi andava a comandare, o di chi ci provava: il latino e il greco erano una metonimia: averli studiati voleva dire appartenere a un piccolo club di privilegiati (quelli che l’irriflessività di alcuni tra gli attuali fautori del liceo classico scambia per ’migliori’: ma se il fulcro della riforma Gentile fossero stati gli istituti tecnici è chiaro che i ’migliori’, in quanto privilegiati, sarebbero stati i ragionieri). Adesso è e sarà la scuola di quelli che hanno un reale, non metonimico interesse per quelle discipline. Che il numero degli iscritti cali mi pare a questo punto inevitabile, e forse persino auspicabile. Le strade d’accesso all’élite si sono moltiplicate e diversificate, ed è bene che chi ha altri interessi li soddisfi attraverso altri indirizzi di studio. Questo dovrà forse avere qualche riflesso anche sulla prassi scolastica. Quando andavo a scuola io le bocciature fioccavano sin dalla quarta ginnasio perché, più che insegnare il latino e il greco, bisognava scremare chi era ’da liceo classico’ e chi non lo era. Adesso servirà, se non davvero più gentilezza, più pazienza, e applicazione anche con i non predestinati.
Questa scuola di non-élite conserverà il suo solido impianto umanistico, ma non potrà non adeguarsi ai tempi. Di fatto, mi pare che lo abbia già fatto e lo stia facendo: integrando al curriculum ore di scienze, portando la lingua straniera fino alla quinta, dando la possibilità a chi vuole di studiarne una seconda. Una buona preparazione umanistica e scientifica insieme non è una chimera, tant’è vero che molti ottimi scienziati hanno fatto il classico, specializzandosi poi all’università. Ricordo questo fatto ovvio solo perché mi pare invece che nel dibattito affiori ogni tanto una retorica scientista piuttosto rozza, e simmetrica a quella umanista: come se la scuola dovesse formare dei piccoli ingegneri o dei piccoli informatici, e tutto il tempo passato a far altro fosse tempo speso invano. Ma il liceo cura la formazione, non la professionalizzazione, e la formazione deve fondarsi su un novero di discipline ragionevolmente ampio, salvo produrre dei monomaniaci.
Come fare spazio, al classico, alle nuove discipline (e alle nuove esigenze di vita: è ovvio che oggi lo sport ha un’importanza molto più grande di quella che aveva ai miei tempi, e chi lo pratica dev’essere incoraggiato a farlo)? Aumentare il monte ore? Non sarebbe uno scandalo, salvo però diminuire la quantità dei compiti a casa, lavorando di più in classe insieme all’insegnante (mentre mi pare prevalga ancora un approccio ’universitario’, di fiduciosa delega allo studente, che non funziona più nemmeno all’università, e che insomma fa la fortuna del Cepu). Sacrificare qualche ora di greco, latino o italiano alle nuove discipline? La sola ipotesi sembra blasfema, dato che già con le ore a disposizione (gite e scioperi ed elezioni e feste nazionali aiutando) non si riesce mai a finire il programma. Ma qui allora, perché l’ipotesi non sia blasfema, il discorso deve prendere una piega diversa e riguardare non l’impianto disciplinare del liceo classico bensì i suoi contenuti.
Nella discussione (semplifico) pro o contro la traduzione dalle lingue classiche io sto molto decisamente coi pro. Si cominci a tradurre, imparando il rigore, la precisione, la logica, la buona lingua e il resto (le idee sul mondo antico, i miti, l’antropologia eccetera) verrà di riflesso. Salvo errore, però, negli ultimi tre anni di liceo il tempo dedicato a leggere e tradurre i testi si riduce molto per lasciare spazio alla storia della letteratura. Vale per il greco e il latino e vale, con le differenze del caso, per l’italiano. Ebbene, è qui – su questa enciclopedia che va da Livio Andronico a Claudiano, da Esiodo a Nonno di Panopoli, dai trovatori a Zanzotto – che a mio avviso bisogna sfrondare, potare. L’obiettivo non è insegnare la genealogia, che impareranno, in pochi, all’università, ma il gusto e la capacità della lettura, capacità che la gran parte dei diplomati al classico, dopo tre anni di ’autori’, non ha: provate a fargli leggere non dico Cicerone ma la lapide di un cimitero. Non c’è da abolire la storia, ma neppure da farne un feticcio; e c’è da abolire il mito della completezza, e i programmi sesquipedali pieni di nomi e di chiacchiere attorno ai nomi.
Infine, adeguarsi ai tempi significa anche non ignorare il tempo presente. Gli studi classici nacquero e prosperarono in un mondo in cui l’offerta di novità culturali era scarsa e omogenea, un mondo nel quale esisteva un nesso di quasi naturale continuità con il mondo antico: i miti e gli eroi dell’epica tenevano nelle menti il posto che oggi è occupato dai personaggi dei film. Questo nesso non esiste più, questa famigliarità si è dissolta. Allo stesso tempo, l’offerta di novità culturali (libri, film, canzoni, giochi) si è dilatata all’infinito: sono ovunque e sono, spesso, meravigliose, e capaci di parlare a un adolescente con un’immediatezza che nessun classico può avere. Spalancare loro le porte significherebbe aumentare la confusione in un’età in cui serve invece soprattutto ordine; ma escluderle da un’istruzione che si definisce ’umanistica’ è sbagliato, perché rischia di produrre dei mostriciattoli antipatici e reazionari, e patetiche torri d’avorio. Non si tratta di attualizzare i classici, sollecitando a collegamenti spericolati; si tratta di insegnare agli studenti a conoscere e a interessarsi anche a questo mondo, dato che è quello in cui devono vivere. Che una scuola in cui si insegnano cose vecchie di duemila anni trasmetta un’idea museale della cultura è perfettamente normale, e va benissimo; ma qualche correttivo sembra opportuno.
«Il Sole 24 ore» del 10 settembre 2016

Dante da rileggere all’infinito

di Piero Boitani
I centenari sono occasioni importanti e nefaste: ogni ente culturale che aspiri alla notorietà vuole celebrarli, e ogni editore, anche il più minuscolo, vuole sfruttarli per ergersi, nano, sulle spalle dei giganti. Solo Omero, tra i tre o quattro sommi d’Occidente, sfugge alla dura legge dell’anniversario. Siamo appena usciti dal 750° della nascita di Dante (2015), viviamo tuttora nel 400° della morte di Shakespeare e Cervantes (2016), e già si staglia all’orizzonte, più imminente di quanto non paia, il temibile 700° della morte dell’Alighieri (2021). Solo gli dei superni sanno cosa succederà quell’anno.
La Salerno Editrice, comunque, ci sarà, con biglietti da visita non proprio indifferenti. Non solo pubblica da anni l’Edizione Nazionale dei Commenti danteschi, ma si prepara, sin dai Novanta del secolo scorso, a pubblicare entro il 2021 la NECOD: Nuova Edizione Commentata delle Opere di Dante. Per il VI centenario della morte, quello del 1321, un gruppo di studiosi guidati da Michele Barbi aveva fatto nascere Le Opere di Dante. Testo critico della Società Dantesca Italiana, la cosiddetta «Edizione del Centenario»: memorabile, ma sprovvista di commento. In vista del VII centenario della nascita del poeta, nel 1965, si era coagulata l’iniziativa Ricciardi che, iniziata con la Divina Commedia di Natalino Sapegno nel 1957, è in realtà terminata soltanto nel 1988. Allora prendeva ormai corpo, dopo l’edizione «secondo l’antica vulgata» della Commedia di Giorgio Petrocchi, l’iniziativa dei Meridiani Mondadori: nei quali, a seguire la Commedia commentata da Anna Maria Chiavacci Leonardi (1991-94), uscivano due volumi di Opere tra il 2011 e il 2014.
Tanto, per la storia. La quale documenta il generarsi infinito dell’esegesi e il suo protrarsi se non infinito comunque pluridecennale. La scala della NECOD è tuttavia incomparabile: più di 900 pagine, per esempio, per un volume, degli otto (uno per gli Indici) previsti e dei cinque già usciti. E poi, vengono i «cardini», che Enrico Malato, motore primo dell’impresa, riassume così, dopo averli più pienamente enunciati già nel 2004 in Per una nuova edizione commentata delle opere di Dante e averne fornito Saggio applicato a Inferno Inel 2007: «attenzione alla rigorosa ricostituzione della lettera dei testi, massimo impegno nella illuminazione esegetica».
Più facile, si direbbe, a disegnare che non a realizzare. Invece, i volumi della NECOD sono proprio così: non roba, certo, da portare sulla spiaggia, ma tomi consistenti, chiari ed esaurienti, dal prezzo contenuto, che affrontano con parecchie novità testi e problemi discussi da centinaia d’anni, e con particolare intensità nell’ultimo secolo. In questo volume V, per dirne una, si parla estesamente della cosiddetta Epistola a Cangrande, separata per l’occasione dal corpus delle altre dodici. È quella, celeberrima, e della cui attribuzione a Dante si dibatte con acrimonia da decenni, nella quale, dopo la dedica a Cangrande della Scala del Paradiso, qualcuno che si definisce «fiorentino di nascita, non di costumi» si dà a introdurre la Commedia intera, e poi a presentarne l’ultima cantica. È qui che l’autore dell’Epistola parla della polisemia del poema e richiama l’interpretazione del Salmo 113 (In exitu Israel de Aegypto) per applicarne la griglia di senso letterale, allegorico, morale e anagogico alla Commedia stessa.
Se l’autore della lettera è Dante – e Luca Azzetta, che la introduce e la commenta nel volume, offre non pochi indizi a favore di questa ipotesi – si tratta di un momento emozionante. Un grande scrittore, uno appunto dei tre o quattro sommi d’Occidente, che fa autoesegesi, cioè che commenta un testo suo (all’epoca, l’esegesi era riservata alla Bibbia e ad Aristotele). Dante sarebbe così (quasi) perfettamente coerente con se stesso, visto che aveva iniziato a compiere tale operazione già con la Vita nova e l’aveva poi estesa e approfondita col Convivio (“quasi” perché se aveva usato nel trattato l’allegoria dei poeti, sembra ora impiegare l’allegoria dei teologi). Per capire la portata di questo autocommento basta pensare a un Omero che decida di introdurre l’Odissea, a uno Shakespeare che illustri l’Amleto, a un Cervantes che spieghi i sensi riposti del Chisciotte. Leggere l’Epistola a Cangrande come se uno non l’avesse mai letta è un’esperienza unica, che chiunque si occupi di letteratura dovrebbe fare. C’è in essa la passione argomentativa che si ritrova in tanti brani del Paradiso, c’è la presenza di quella «mente innamorata» che fa dire al poeta, nel canto IV dell’ultima cantica, che il nostro intelletto non si sazia se non lo illumina quella verità, Dio, al di fuori della quale nessuna verità può aver luogo. Dante usa, per l’attività dell’intelletto umano, un’immagine del mondo animale: dice che l’intelletto si riposa in quella verità come la fiera nella sua tana, non appena l’abbia raggiunta – e può ben raggiungerla, altrimenti il desiderio di verità innato nell’uomo sarebbe vano. Non aveva forse aperto il Convivio, Dante, ripetendo la frase iniziale della Metafisica di Aristotele, «tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere»? Non lo riprendeva all’inizio del Paradiso, affermando che «appressando sé al suo desire, / nostro intelletto si profonda»? Ecco, lo pronuncia ancora una volta qui: «l’intelleto umano in questa vita, per la connaturalità e l’affinità che ha con la sostanza intellettuale separata, quando si eleva, si eleva a tal punto che la memoria, dopo il ritorno, viene meno, per avere trasceso la misura umana».
Scrivere frasi del genere, direbbe Dante stesso, «non è impresa da pigliare a gabbo», perché vuol dire «descriver fondo a tutto l’universo». E in questo volume V della NECOD di tale «fondo» si vedono diverse testimonianze. Per esempio, quella Questione sull’acqua e sulla terra giudicata spesso mero esercizio di scuola e talvolta, anch’essa, non ascritta a Dante, è, come ben mette in luce Michele Rinaldi, un piccolo trattato cosmografico.
Le Egloghe, la risposta di Dante a Giovanni del Virgilio, il professore bolognese che lo invitava a comporre un poema in latino su qualche evento contemporaneo, documentano con non poca ironia la superiorità e a un tempo l’umiltà dantesca. Lui, ora che sta terminando la Commedia in volgare, non scimmiotterà il Virgilio dell’Eneide. Al massimo confezionerà delle Bucoliche. Ma guarda un po’ che Bucoliche! Le migliori dopo quelle di Virgilio stesso. Resta attaccato al perseguimento della verità, Dante. Quando, come emerge dall’Epistola XII, rifiuta di ritornare in patria soggiacendo a condizioni che considera umilianti, esclama: «Forse non vedrò ovunque i raggi del sole e delle stelle? Forse non potrò investigare le dolcissime verità ovunque sotto il cielo, se prima non mi renda privo di gloria, anzi disonorato al popolo della città di Firenze?».
«Il Sole 24 ore» dell'11 settembre 2016

Classico per tutti?

di Armando Massarenti
Il liceo classico è stato, ed è tuttora, una eccezionale palestra per il pensiero critico. È, anche, il luogo privilegiato per coltivare l’idea del carattere disinteressato della cultura. Unisce dunque, idealmente, due aspetti essenziali di una buona formazione: una chiave universale di grande utilità, e il massimo del piacere che deriva dall’esperienza della pura bellezza. Forse è per questo che gli articoli di Nicola Gardini e Guido Tonelli, un umanista e uno scienziato, pubblicati due settimane fa in difesa di questa nostra gloria nazionale, hanno raccolto un ampio consenso. In questo numero torniamo sull’argomento con diversi interventi che pure sottolineano l’unità della cultura. Ma se è vero che i saperi umanistici possono aprire la strada a vocazioni scientifiche, è anche vero che la mentalità scientifica, o i metodi mutuati da essa, sono assai produttivi per lo sviluppo delle humanities. Ne era ben consapevole Vito Volterra, il primo presidente del Cnr, di cui si parla qui a fianco, e su questa linea all’interno troverete due interventi, di Angelo Varni e di Vincenzo Fano, insieme a quello di Claudio Giunta che sottolinea - accanto agli argomenti, assai forti, ancora oggi validi per iscriversi al liceo classico - la percezione diffusa che non sia più il veicolo privilegiato per la selezione delle élite. Classe dirigente oggi lo si diventa anche per altre vie. Allora la domanda diventa: quali sono i saperi necessari oggi per farsi strada nel mondo? E se siamo tutti d’accordo che sono le capacità logiche e argomentative - il pensiero critico - gli strumenti decisivi, perché non mettere queste al centro dell’intero sistema educativo? Si dice che lo studio del latino e del greco sviluppa le capacità di ragionare, di produrre analogie e inferenze logiche. Ma è vero anche il contrario: i più bravi a tradurre lo sono perché hanno buone capacità logiche e dialettiche. Perché non partire da qui? Perché non pensare che il trionfo della classicità, negli anni a venire, non possa passare per la creazione di tanti piccoli Socrate, capaci di usare il loro sapere critico negli ambiti più diversi?
«Il Sole 24 ore» dell'11 settembre 2016

10 settembre 2016

Libri & tablet, la connessione necessaria

di James Bradburne
«Tua figlia erediterà il tuo Tablet?» è il titolo dell’intervento che James Bradburne, da un anno direttore della Pinacoteca di Brera, terrà venerdì 9 settembre al III Festival della Comunicazione di Camogli, ideato e diretto da Rosangela Bonsignorio e Danco Singer e organizzato dal Comune e da Frame, in collaborazione con la Regione Liguria (www.festivalcomunicazione.it). Quattro giornate con oltre un centinaio di appuntamenti tra incontri, laboratori, spettacoli, mostre ed escursioni e più di 130 ospiti (tra cui Luca Doninelli, Claudio Magris, Pietrangelo Buttafuoco, Andrea De Carlo, Paolo Giordano, Massimiliano Fuksas, Claudio Bisio , Michele Serra, Evgenij Morozov. Sabino Cassese, Lucrezia Reichlin, Monica Maggioni, Carlo Freccero, Piero Angela, Mario Calabresi, Aldo Cazzullo, Roberto Cotroneo, Ferruccio de Bortoli, Massimo Gramellini, Aldo Grasso, Beppe Severgnini, Marco Travaglio...). A tema il world wide web e in particolare la domanda «Pro e contro il web», secondo uno spunto lanciato da Umberto Eco. Durante il Festival Roberto Benigni riceverà il premio «Comunicazione».​


Da anni mi interrogo sulle conseguenze della rivoluzione digitale sia nella vita privata che nel mondo del lavoro e alla triennale Icom del 1991 ho tenuto la mia prima conferenza sulle sfide del mondo museale nella conservazione dell’eredità digitale. Sono uno studioso e un bibliofilo e, per una felice coincidenza, sono anche il direttore generale della Biblioteca nazionale braidense. Dagli albori della cultura umana, la parola e l’immagine sono avvinte in un abbraccio dialettico di yin e yang in cui nessuna delle due è del tutto indipendente. Il Mouseion di Alessandria, eretto da Tolomeo II Filadelfo intorno al 280 a.C. includeva la famosa Biblioteca di Alessandria. Non dovrebbe quindi sorprendere il mio profondo interesse per il futuro del libro, della lettura e delle biblioteca.
E di questi tre elementi vorrei parlare oggi. Incomincerò dal libro. Che cosa rende il libro speciale, a prescindere dai contenuti? Innanzitutto il libro, così come lo conosciamo oggi, il codex, ha dato il via a una delle rivoluzioni tecnologiche più significative dei suoi tempi, perché permetteva al lettore di muoversi avanti e indietro nel testo senza dover riavvolgere la pergamena. A distruggere la Biblioteca di Alessandria non fu il fuoco, ma il fatto che i fragili e ingombranti rotoli di papiro non fossero stati trascritti. Allo stesso modo, frammenti importanti nostro passato sono andati persi perché i contenuti dei dischi in vinile non sono stati trasferiti su nastro, su Cd o digitalizzati. Nonostante questi rischi, i libri, in pergamena o di carta, rimangono manufatti molto duraturi.
Resistono bene alle ingiurie del tempo e hanno bisogno soltanto delle tecnologie più semplici come un dizionario e una grammatica per essere decodificati. Portano la loro età con dignità, persino con orgoglio. Annotazioni, cancellature, danni, ingiallimenti dovuti alla fiamma o alla luce solare, persino tarli e muffa raramente distruggono un libro, anzi rendono il libro profondamente diverso dal tablet. I tablet sono belli perché perfetti, contenitori gioiello, capolavori di ingegneria, la cui virtù consiste nell’essere costantemente al passo con i tempi, nel non registrare il passare del tempo. Un tablet con uno schermo incrinato non diventa più affascinante e prezioso, un tablet che non è più in grado di accedere ai file scritti anche solo pochi anni prima non ci è per questo più caro.
Un tablet che può contenere un migliaio di libri interattivi non ha lo stesso valore affettivo delle favole di Gianni Rodari che tua madre ti leggeva da piccolo. Arriviamo così al secondo punto: che cosa significa leggere? In passato i libri erano spesso letti ad alta voce. Quando un erudito del II secolo d.C andava a trovare un amico al mare, portava con sé un libro che di solito veniva dato a uno schiavo perché venisse trascritto e poi restituito. Il libro era letto ad alta voce, analizzato e discusso. Proprio perché letto ad alta voce, veniva utilizzata la scripta continua, un’ininterrotta sequenza di lettere. Le parole, infatti, furono un’invenzione di alcuni monaci irlandesi dell’VIII secolo che avevano fatto il voto del silenzio. Leggere era un atto sociale fondamentale, costruttivo.
Nella lettura, la semplice informazione diventava conoscenza. Facendo giganteschi balzi in avanti, la rivoluzione digitale recente sembra averci portato molto indietro. Invece di leggere ad alta voce, i genitori danno ai loro figli dei tablet. L’interazione faccia a faccia è diventata un’interazione anonima con un dispositivo. Invece di essere creatori attivi di contenuti e discorsi, siamo diventati semplici consumatori di notizie, brevi frasi dal forte impatto mediatico in televisione e tweet su uno schermo. Come osservato da Leon Wieseltier nel 2013, «nell’universo digitale, la conoscenza è diventata pura informazione. Chi saprà ancora che la conoscenza sta all’informazione come l’arte sta al kitsch, che l’informazione è il tipo più infimo di conoscenza, dato che è il più esteriore?
Un grande pensatore ebreo del primo Medioevo si chiedeva perché Dio se davvero avesse voluto che conoscessimo la verità su tutto, non ci dicesse semplicemente la verità su tutto. La sua saggia risposta fu che se ci avesse semplicemente detto ciò che abbiamo bisogno di sapere, noi non l’avremmo conosciuto davvero, in senso stretto. La conoscenza può essere acquisita soltanto con il tempo e con il metodo». È legittimo chiedersi come tutto questo possa influenzare la nostra capacità di essere coinvolti nei rapporti umani, la nostra partecipazione come cittadini attivi al dibattito sociale sul futuro di un mondo che ci sta lentamente sfuggendo di mano. I media 'social' hanno creato un mondo che è sempre meno sociale. Clicco, quindi sono.
La conoscenza senza sforzo. 142 caratteri. «Mi piace» Greenpeace. La politica… della distrazione. Questo ci porta alla terza e ultima riflessione: perché le biblioteche sono importanti nell’era digitale? Anche se condividono molte caratteristiche, la cultura della biblioteca non è identificabile tout court con la cultura del museo e una biblioteca non è semplicemente un museo di libri. Oltre ad essere un luogo di raccolta e conservazione, le biblioteche sono istituzioni molto attive sul territorio, da sempre luoghi di dibattito, discussione e dialogo. La biblioteca è una casa per lo scrittore e scrivere è una forma di attivismo sociale che lega gli scrittori del passato e del presente ai lettori del presente e del futuro in una grande repubblica delle lettere. La lettura e la scrittura sono infatti intimamente legate, più di qualsiasi altro mezzo di comunicazione culturale.
Vedere un film al cinema non implica che si sia in grado di girarne uno, ammirare Raffaello non significa che si sappia dipingere; giocare a Grand Theft Auto III non mi dà la capacità di inventare un videogioco. Posso essere coinvolto, commosso, o persino interagire, ma non sono un creatore. Leggere e scrivere sono diversi. Se so leggere, so scrivere – le due abilità sono indissolubilmente connesse. La biblioteca deve abbracciare per la sua natura sia il mondo del libro stampato che quello digitale, senza esitazioni né reticenze – questo non è il tempo per un nuovo, nostalgico movimento Arts and Crafts (delle arti e dei mestieri). La biblioteca deve essere un centro di produzione, un campione di cultura del saper fare, un posto dove le menti siano libere, curiose, e critiche.
La biblioteca è il luogo dove dobbiamo reclamare il nostro diritto come cittadini di essere produttori di cultura, non solo consumatori, ed estendere il nostro diritto a tutti i mezzi di comunicazione, alla musica, ai film, al teatro, alla danza, ai videogiochi. Dobbiamo stabilire nuovamente una connessione tra la parola e l’immagine, riappropriandoci del piacere della creazione. Il libro, la lettura e le biblioteche costituiscono il nucleo, sono l’essenza e la sostanza stessa di questa ambizione.
«Avvenire» del 31 agosto 2016