09 aprile 2016

Se non si rispetta l’autorità, la scuola non può educare

Il modello pedagogico di una comunità orizzontale, fatta da insegnanti, famiglie e studenti sempre in cerca di un compromesso non funziona. Azzerare le gerarchie delegittima il corpo docente
di Adolfo Scotto di Luzio
Ciò che sta accadendo a Roma, in questi giorni, al liceo Virgilio, non riguarda semplicemente il consumo di hashish tra gli adolescenti, ma è in realtà una disputa sulla scuola pubblica e sul suo destino. Se cioè questa scuola debba rassegnarsi a sprofondare nella più totale disorganizzazione o se invece essa sia autorizzata a riaffermare il proprio diritto a orientare moralmente e intellettualmente i giovani.
A sentire certe madri fa più impressione il carabiniere che arresta lo spacciatore a scuola che lo spacciatore stesso preso a vendere hashish ai ragazzini durante l’ora di ricreazione. È successo, come dicevo, a Roma pochi giorni fa. Ma è sicuro che ogni volta che accade una cosa del genere c’è sempre qualcuno che invoca dialogo e non repressione. A Bologna, ad esempio, ai primi di marzo, liceo Bassi, i carabinieri hanno trovato marijuana in classe. Anche allora l’immancabile «madre dello studente» volle dichiarare ai giornali il suo sconcerto. La presenza della polizia a scuola non mi rassicura, disse al «Corriere di Bologna»: è un «messaggio diseducativo e non propositivo». A Roma è un’altra madre a parlare, questa volta niente meno che dalle pagine nazionali di Repubblica. Intervistata il primo di aprile dichiara che ciò che è accaduto al liceo Virgilio è un «blitz da Far West» e come tale andava evitato. Gli spacciatori vanno fermati, certo; meglio però sarebbe stato convocare il giovane colto in flagrante a un colloquio privato, dice.
Non tutte le scuole sono uguali e con ogni evidenza non lo sono le famiglie che vi mandano i propri figli. In questi mesi episodi analoghi a quello del liceo romano sono accaduti in mezza Italia, da Ferrara a Carate Brianza, da Monza a Ravenna, a Macerata, a Pontedera. Nessuna di queste vicende tuttavia ha assunto il clamore mediatico dei fatti del Virgilio. Gli adolescenti di provincia continuano a rintronarsi di canne nei bagni di sperduti istituti professionali nel disinteresse generale.
La posizione di dominanza delle famiglie di un prestigioso liceo della capitale, prossime alla politica, alla stampa quotidiana, alla televisione, ha fatto sì invece che a Roma la questione smarrisse ben presto i suoi termini reali per trasformarsi in un processo al preside sceriffo, colpevole di voler fare della scuola un bunker. Contro la concezione della scuola come comando di uno solo, collettivi studenteschi e genitori democratici debitamente organizzati in lista invocano la mediazione, il dialogo, la scuola come comunità educante orizzontale, fatta da insegnanti, famiglie, studenti, impegnati in una continua, ininterrotta, ricerca del compromesso.
È facile riconoscere l’inconsistenza di simili richieste. Non solo perché la comunità educante semplicemente non esiste, è una ispirata finzione pedagogica priva di qualsiasi riscontro nella vita reale. Ben più corposamente, nella scuola si muovono ormai da anni interessi particolari, gruppi organizzati, fazioni. E quando la pretesa di questi gruppi di imporre la mediazione tra parti organizzate soverchia l’autorità dell’istituzione questa smette semplicemente di funzionare. Nessuna educazione può essere infatti compiacente. E ogni educazione richiede, per potersi esercitare con una qualche efficacia, l’autorità intatta degli insegnanti. Troppo spesso si dimentica che l’educazione è un fatto eminentemente gerarchico. Ora è evidente che nessuna educazione si esercita se la vita degli studenti si sottrae ai principi elementari della legalità. Ripristinare questa legalità è il requisito minimo perché la scuola possa assolvere al suo compito educativo. Senza questa base di partenza, tutto il resto è inevitabilmente costruito sul nulla.
Ho detto educazione. Se si guarda bene è facile accorgersi che dietro la feroce opposizione al preside del Virgilio e alla sua decisione di chiamare i carabinieri agisce una convinzione più generale che si è largamente diffusa in questi ultimi vent’anni, l’idea cioè che la scuola pubblica, come istituzione laica affidata alle cure dello Stato, non abbia in fondo più niente da fare sul terreno della formazione delle giovani generazioni. Se lo Stato non vuole rinunciare a educare i suoi giovani non può non formare questi giovani sul terreno della disciplina. E la disciplina è sempre duplice, contemporaneamente regola e contenuto. Buona condotta per mezzo di un rigoroso abito della mente ben educata.
È questo allora il vero oggetto della disputa che la vicenda di Roma pone all’opinione pubblica italiana, se la scuola come istituzione nazionale possa ancora formare i suoi studenti o se invece debba rassegnarsi a diventare il teatro, sempre più degradato tra l’altro, di un democraticismo pedagogico inconcludente e avulso dalla realtà del Paese.
«Corriere della sera» dell'8 aprile 2016

Liceo Croce, guerra del sabato libero

La direzione: "La scelta dovuta all'unione con l'Aleramo". I ragazzi: "No esigenze del personale"
di Laura Mari
Niente lezioni di sabato e al liceo si scatena la rivolta. Succede all'istituto d'istruzione superiore Croce- Aleramo, in via Battista Bardanzellu, a Colli Aniene. Qui il consiglio d'istituto a marzo ha deliberato l'avvio della settimana corta, con lezioni dal lunedì al venerdì, per l'anno 2016-2017. Una decisione che non è piaciuta a professori e studenti, che ora minacciano le barricate e protestano a suon di petizioni e sit-in. «Non capisco tutto questo clamore, la delibera è stata votata secondo quanto previsto dal regolamento» dice la dirigente scolastica, Emilia D'Aponte. Ma docenti e alunni replicano: «Ci è stata imposta una decisione dittatoriale per le esigenze di bidelli e personale tecnico».
La bagarre inizia a dicembre, quando nel consiglio d'istituto, dopo che il collegio dei docenti aveva già a maggioranza espresso parere favorevole al passaggio dalla settimana lunga alla settimana corta, il tema viene messo all'ordine del giorno. «Nel 2015 i licei Croce e Aleramo sono stati accorpati e da lì sono emersi i primi problemi organizzativi — spiega la preside D'Aponte — al Croce le lezioni erano dal lunedì al sabato, all'Aleramo vigeva la settimana corta ». Il personale Ata (bidelli, assistenti tecnici, vigilanti) del nuovo istituto accorpato hanno quindi chiesto alla dirigente scolastica di rivedere l'orario dell'offerta formativa, perché alcuni di loro lavoravano anche il sabato, con diversità nei tipi di contratto.
A marzo, dunque, il consiglio d'istituto approva l'avvio della settimana corta per l'anno 2016-2017. «Una vergogna» sbotta Francesco Maria Aleramo [Toscano - correzione mia], docente di italiano e latino del liceo Croce-Aleramo. «Professori e studenti non sono stati interpellati — prosegue — e ora ci ritroviamo a subire la dittatura del personale Ata, questo nonostante un referendum tra gli studenti del Croce abbia espresso parere contrario alla settimana corta». Ma, replica la preside, «non esiste più il Croce o l'Aleramo, ora c'è un nuovo liceo, unico».
I genitori, però, sono furiosi e minacciano di richiedere il nulla osta per spostare, l'anno prossimo, i propri figli altrove. E gli studenti hanno già alzato le barricate: «Per due giorni non siamo entrati a scuola» racconta Cristian Ragaglia, rappresentante degli studenti. «La delibera è legale — ammette Cristian — ma è assurdo che proprio noi non siamo stati consultati». Uscendo alle 14 invece che alle 13, prosegue, «ci saranno problemi per fare sport o corsi di lingua e per i genitori che devono riportare i figli a casa». Insomma, meglio studiare anche il sabato.
«la Repubblica» dell'8 aprile 2016