27 marzo 2016

Più che mai misericordia

Le apocalissi di oggi e l’urgente risposta
di Francesco D’Agostino
Sono tre i macro-fenomeni che stanno lacerando la modernità (o per essere più precisi, la post-modernità): la violenza terroristica, l’immigrazione incontrollabile, la destrutturazione del matrimonio e della famiglia. Sembrano tre fenomeni molto diversi tra loro e vengono infatti giudicati molto diversamente, almeno da parte dell’ opinione pubblica occidentale: all’unanime deprecazione del terrorismo (deprecazione cui si unisce, per fortuna, anche gran parte dell’opinione pubblica musulmana) si accompagna l’estrema difficoltà di trovare uno stesso registro per qualificare i flussi immigratori (quale prevale? Quello demografico, quello antropologico, quello solidaristico, quello economico, quello xenofobo…?) e la vistosa spaccatura valutativa per quel che concerne la questione della ridefinizione del matrimonio e della famiglia (ridefinizione ritenuta doverosa da alcuni, nel segno di un allargamento dell’orizzonte dei diritti, e rovinosa da altri, nel segno di una mutazione antropologica dalle conseguenze rischiosissime e imprevedibili).
Sono davvero così diversi tra di loro questi tre fenomeni? Certamente sono diversi, ma rinviano tutti e tre, ciascuno ovviamente a suo modo, a una sorta di apocalisse, nel senso etimologico del termine, da intendere quindi non come catastrofe, ma come rivelazione, inaspettata e conturbante, della sostanza nascosta dell'anima moderna, della sua lacerazione tra secolarismo estremo ed estremo fondamentalismo, tra le ragioni dell’economia e quelle della fame e della paura, tra la perdita della speranza nell’uomo e il tentativo (illusorio e grottesco) di "ricostruirlo". Dal terrorismo, dai flussi migratori, dalla fine di un mondo la destrutturazione della famiglia emerge con sempre maggiore evidenza: quel mondo in cui si è cercato di controllare e dare limiti alla crudeltà e alla guerra, quel mondo in cui l’ospitalità era intesa come un dovere di misericordia, quel mondo in cui matrimonio e famiglia erano pensati in un orizzonte non individualistico, ma relazionale, aperto non al presente, ma al futuro.
Di qui l’angoscia che ci pervade e che in particolare sfida i cristiani, uomini e donne di speranza, che percepiscono di fronte a questo duro presente l’apparente inadeguatezza della loro visione, per così dire "tradizionale", del mondo. La fine di un mondo però non va confusa con la fine del mondo. La società a base cristiana (e la nostra di oggi lo è solo in parte) si è già confrontato, nella sua storia, con crisi analoghe e forse anche più dure della crisi del nostro tempo: quando, per esempio, la tarda antichità è implosa, quando l’unità della Chiesa è andata in frantumi, prima con lo scisma d’Oriente, poi con l’avvento della Riforma, o quando, agli inizi dell’epoca moderna, ha dovuto prendere atto, anche con sbigottimento, dell’esistenza di altri continenti e di altri popoli e culture.
La gestione e a volte la soluzione di queste crisi non sono state affidate, in passato, a lucidi progetti pianificati 'a tavolino': ma quando si è cercato di procedere in questo modo si sono solo ottenuti disastri. La Chiesa, quando si è lasciata guidare dalle sue forze migliori, si è sempre invece affidata allo Spirito, che sa dove 'soffiare' e che soprattutto soffia dove vuole.
Di qui una serie di insegnamenti profondi: non esistono 'tecniche' per fronteggiare crisi epocali come quelle di cui siamo testimoni, non ha senso gestirle attivando conflitti circoscritti, ancorché di grande rilievo, né possiamo pensare di poter ridurre l’impegno degli uomini di buona volontà a pur nobili (e necessarie!) prassi educative, comunicative, solidaristiche. Allo smarrimento dell’anima moderna non si possono dare risposte 'funzionali'. Prima di interrogarci su 'come' dobbiamo agire, dobbiamo tornare a porci la domanda su 'cosa' significhi propriamente per l’uomo 'agire'. La misericordia, sulla quale papa Francesco ci impegna tutti a meditare, in questo Anno Santo, non è la chiave per ottenere la soluzione dei problemi che ci affliggono, ma è l’unico orizzonte di senso a nostra disposizione per capirli. È a nostra disposizione perché Dio ce lo ha rivelato, affidandone l’uso alla nostra responsabilità. Siamo in grado, qui e ora, di rispondere davvero alle provocazioni della misericordia?
«Avvenire» del 24 marzo 2016

26 marzo 2016

Convivenza, è la scuola dove la sfida si decide

di Eraldo Affinati
Ogni bomba che esplode in Europa ci riporta indietro nei secoli, in un vortice di reciproche incomprensioni. Crollano i ponti. Si alzano i muri. Tornano i fantasmi del passato. Tutto il lavoro umano che è stato compiuto in questi anni difficili sembra vanificato nel sangue dei corpi dilaniati.
Eppure noi dobbiamo continuare a scommettere sul futuro: non abbiamo altra scelta.
Il tema resta sempre quello educativo: raccogliere il testimone da chi ci precede per consegnarlo a chi verrà dopo, nella speranza che non sia un tronco bruciato, ma una moneta d’oro. La scuola diventa il luogo elettivo del confronto antropologico, il campo operativo della sfida decisiva: nessuno deve rinunciare alla propria identità, ma tutti dovrebbero rispettare quella altrui. È necessario trovare delle piattaforme comuni d’intesa e la nostra Costituzione indica grandi ed essenziali princìpi. I linguaggi non devono essere specialistici: si tratta di un lusso che non possiamo più permetterci. Io credo di poter interpretare così l’umanesimo integrale di papa Francesco.
L’altra sera, all’indomani degli attentati in Belgio, ero a cena con Khaliq, originario della Sierra Leone, mio ex studente alla Città dei Ragazzi di Roma, riuscito a sopravvivere dopo aver perso i contatti con la famiglia originaria. Oggi ha un lavoro, una moglie e un bambino di pochi mesi. Ogni mattina, all’alba, prega in ginocchio sotto lo sguardo incantato di Sharif, il figlio piccolo. Cosa ne faremo dello stupore di questo nuovo italiano di fronte alla fede del padre? Quali scenari costruiremo intorno alla sua meraviglia?
Se pensassimo che basterà concedergli l’assistenza sanitaria e iscriverlo alle elementari, allora Molenbeek, il quartiere di Bruxelles che ha favorito e protetto prima la fuga, poi la latitanza di Salah Abdeslam, non ci avrà insegnato niente.
Il lavoro che ci aspetta è molto più profondo: pre-politico, pre-giuridico, pre-sociale, pre-religioso. Siamo chiamati ad assumerci la responsabilità dello sguardo altrui. Il che significa creare i presupposti per una relazione umana libera dal pregiudizio e dall’ideologia.
Faccio un solo esempio concreto. Da quest’anno la nuova riforma dell’istruzione italiana prevede che gli studenti delle medie superiori svolgano, nel quadro dell’alternanza scuola-lavoro, un periodo di tirocinio attivo presso aziende, enti o associazioni. Si tratta di una preziosa opportunità che non dovremmo sottovalutare. Nei mesi scorsi, grazie al sostegno attivo di molti volontari della Penny Wirton, una scuola di lingua italiana per immigrati, ho cercato di formare un gruppo di liceali romane a questo tipo di insegnamento. Vedere Chiara o Sonia, della terza C, impegnate di pomeriggio a scandire le sillabe con Mohamed e Ismail, analfabeti nella lingua madre, rafforza la nostra tensione partecipativa: in quale altro luogo gli adolescenti egiziani, appena arrivati dal Delta del Nilo, avrebbero potuto trovare una simile accoglienza?
«In Africa, in Asia, nell’America latina, nel mezzogiorno, in montagna, nei campi, perfino nelle grandi città, milioni di ragazzi aspettano d’esser fatti eguali», scriveva don Lorenzo Milani. Adesso, quasi cinquant’anni dopo, i ragazzi annunciati dal priore di Barbiana sono fra noi. E hanno il medesimo antico, identico problema dei piccoli mugellani: imparare la lingua. Che non significa solo saper coniugare il verbo essere e avere. Vuol dire crescere, diventare adulti, unire il pensiero e l’azione, dare senso all’esperienza, capire la preghiera del padre, prima ancora di accettarla o rifiutarla. Soltanto se loro, sparute avanguardie di popoli in movimento, avranno compiuto questo percorso interiore non da soli ma con noi, potremo dire, tutti insieme, di aver fatto terra bruciata intorno ai terroristi.
«Avvenire» del 26 marzo 2016

Twitter, il ring della bella lingua

di Giacomo Gambassi
Dieci anni di cinguettii. Era il 21 marzo 2006 quando veniva cinguettato il primo tweet della storia che poi sarebbe stato ritwittato più di 66mila volte. Diceva: «Just setting up my twttr» (“sto solo impostando il mio Twitter”). L’autore era jack, pseudonimo di Jack Dorsey, un informatico del Missouri e fondatore del servizio di “microblogging” che ha fatto dei messaggi brevi, simil-sms, il suo punto di forza. Lunedì l’uccellino azzurro – simbolo del social network – festeggia i dieci anni online ma l’anniversario coincide con una fase di difficoltà: gli utenti attivi sono fermi a quota 320 milioni (a fronte di 1,5 miliardi di Facebook); a gennaio sono crollati i titoli di Twitter; e quattro manager hanno abbandonato l’azienda. In Italia gli utenti registrati sono 8,3 milioni mentre quelli attivi sono la metà. Per rilanciare la piattaforma si pensa di abbattere la barriera dei 140 caratteri: a breve potrebbero essere condivisi messaggi fino a 10mila caratteri.
Un ortaggio coltivato nella Terra dei fuochi, quell’angolo della Campania avvelenato dai rifiuti tossici, è stato ribattezzato mortaggio. Per descrivere un supergoloso del web, al limite della bulimia, qualcuno ha inventato l’aggettivo gugoloso. Le millecinquecento pagine del romanzo Guerra e pace di Lev Tolstoj sono state riassunte nella frase: “Lui ama lei, lei ama un altro e intanto Napoleone invade la Russia”. E che dire di alcuni tormentoni entrati nell’immaginario collettivo come Staisereno (l’hashtag indirizzato da Matteo Renzi all’allora premier Enrico Letta poco prima di silurarlo da Palazzo Chigi nel 2014)? Twitter compie dieci anni lunedì e, a conti fatti, può essere considerato una sorta di piccolo manuale del “buon italiano”. Perché «favorisce la creatività espressiva, aiuta a coniare nuove parole, incoraggia la brevità, insegna a riassumere testi complessi e permette di divertirsi con i grandi titoli della letteratura», sostiene il docente di linguistica italiana all’Università di Cagliari, Massimo Arcangeli. Al social network su cui possiamo scrivere messaggi di non più di 140 caratteri lo studioso che collabora con la Società Dante Alighieri e l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani ha dedicato il libro Breve storia di Twitter (Castelvecchi; pagine 176; euro 16,50) in cui ne elogia le potenzialità linguistiche e persino didattiche.

Eppure, professore, oggi Twitter è in crisi. Crolli in borsa, fughe di cervelli, crescita troppo lenta sono le difficoltà con cui si confronta il social.
«Ciò è dovuto al fatto che è un sistema comunicativo asimmetrico. Posso avere un milione di persone che seguono il mio profilo ma non seguirne alcuno. Questo contrasta con la logica della partecipazione e della condivisione al centro delle maggiori reti sociali come Facebook. E su Twitter si fa fatica a creare processi a catena, a meno che non siamo di fronte a grandi eventi».

In quali avvenimenti la piattaforma è stata protagonista?
«Penso alle diverse primavere arabe. Attraverso questo strumento è stato possibile diffondere in modo estremamente rapido messaggi in tutto il mondo, magari accompagnati da un’immagine. E sta proprio nella brevità la sua carta vincente che, però, rappresenta anche il maggiore limite».

A proposito di brevità, come viene letta da uno studioso della lingua?
«Oggi abbiamo più che mai bisogno di tornare a fare riassunti. Molti giovani e adulti hanno seri problemi nel comprendere e sintetizzare un testo. Ecco, Twitter consente di unire l’utile al dilettevole e in questi anni si è sviluppata un’autentica twitteratura, vale a dire il vezzo di “accorciare” e quindi far conoscere i classici. I risultati sono non solo spassosi ma anche sorprendenti. Cito l’iniziativa della Società Dante Alighieri con cui nel 2013, in occasione dei 700 anni della nascita di Boccaccio, si invitava a riassumere una novella del Decameron in un tweet. C’è chi ha riscritto in chiave di cronaca nera le storie della quarta Giornata, chi ha proposto con piglio post-futurista alcuni racconti del genio toscano, chi si è cimentato in esperimenti micronarrativi dai tratti surreali. Tutto ciò mostra come Twitter sia in grado di stimolare l’inventiva e come da questa piattaforma passino più facilmente che da altre la prosa e la poesia “alte”. Del resto su Twitter la qualità dei testi è di gran lunga superiore a quella dei principali social network».

In quale modo ha inciso sul lessico?
«Twitterini o cinguettatori sono vocaboli che l’uccellino azzurro ha partorito. Ma non sta tanto qui la svolta. Se devo concentrare un’idea in una manciata di caratteri, non solo devo sforzarmi di elaborare un contenuto che sia efficace ma anche di renderlo stilisticamente appetibile e frizzante. Così Twitter si trasforma nell’arena dove le metafore, gli aforismi e comunque l’uso brillante della lingua sono di casa. Osserviamo gli hashtag che si sono imposti: sono “bussole” o titoli che condensano quanto abbiamo in mente».

Si può parlare di twittabolario, ossia di un dizionario di neologismi forgiato sul social?
«Twitter si basa sul gioco di parole e ha contribuito a creare nuovi termini, più o meno scherzosi, corredati di una propria definizione. Si tratta di approcci utili allo sviluppo della lingua. In Rete circolano alcune raccolte curiose di parole scaturite grazie alla piattaforma. Ad esempio bugivéra, ossia un qualcosa che non è né bugia, né verità, oppure logopista, cioè chi mette sotto i piedi il logos».

Ma non mancano gli errori grammaticali o sintattici. Ha fatto epoca il “qual’è” con l’apostrofo dello scrittore Roberto Saviano in un tweet del 2011.
«La lingua delle reti sociali va considerata diversa da quella scritta. È una lingua che nasce già fortemente contaminata dall’oralità. Non possiamo giudicare con la stessa severità un refuso di un testo ufficiale e uno presente su Twitter o Facebook. Può accadere che, a causa della rapidità, non facciamo tutti i necessari controlli prima di mettere online un tweet o un post. Per questo serve una certa indulgenza ».

Anche il Papa si affida a Twitter. Come lo utilizza Francesco? «Dall’account @Pontifex_it sono passati 712 tweet dal 13 marzo 2013, giorno della sua elezione al soglio pontificio, allo scorso 18 febbraio. La classifica dei sostativi più ricorrenti è guidata da vita (oltre 80 attestazioni) e amore (oltre 70); seguono cuore, gioia, misericordia, fede, preghiera, famiglia, pace, speranza e peccato (oltre 40). Sono parole di uso comune: e non c’è da stupirsi. Se l’italiano è intriso di Vangelo, il cristianesimo è da sempre molto permeabile al lessico fondamentale della nostra lingua. Fra le peculiarità lessicali di Bergoglio spicca qualche termine insolito, come tenerezza e pazienza. Aggiungo che con il suo stile pacato il Papa restituisce dignità a un mezzo che spesso è impiegato per offendere o prendere a sciabolate gli avversari».

E Twitter ha permesso di riscoprire il cancelletto, diventato il simbolo di questo strumento per il fatto di indicare le parole- chiave.
«Come nel caso della chiocciola legata all’email, anche il cancelletto è un segno antichissimo. Le sue origini affondano nel pavimento di una grotta marina neanderthaliana prossima a Gibilterra dove si trova un cancelletto formato da tredici linee. Non sappiamo quale fosse la sua funzione ma in latino diventerà il compendio della parola numero: una N sbarrata. Così lo troviamo, secondo l’impostazione anglosassone, nel tastierino del cellulare. In Twitter entra perché è un simbolo poco usato e per di più visivamente carino. Ritengo che il cancelletto, a differenza del suo nome che richiama alla chiusura, rappresenti sul nostro social un’apertura alla comunicazione. Un invito per tutti a mettersi in dialogo con la parola e con gli altri».
«Avvenire» del 19 marzo 2016

Antichi greci, il saggio di Edith Hall: «Una civiltà fondata sul mare»

Il libro legge il mondo ellenico attraverso il suo legame con il Mediterraneo
di Giorgio Montefoschi
Gli antichi greci — scrive Edith Hall, professoressa di Lettere classiche al King’s College di Londra, nel suo bel libro intitolato per l’appunto Gli antichi greci (Einaudi) — quasi mai si insediavano a più di quaranta chilometri dal mare (vale a dire, una giornata di cammino); e i viaggi per mare erano intimamente legati al senso della loro identità. Ma il mare — l’Egeo meraviglioso, azzurro cupo e azzurro smagliante, profumato di iodio e di salsedine, nonché dell’inconfondibile aroma delle erbe selvatiche e dei pini che il vento sospinge da terra e arriva miracolosamente fino a dove la terra scompare — non era soltanto il luogo della conoscenza e della conquista: era, nel medesimo tempo, il luogo nel quale i guerrieri e i poeti, i re e i contadini che lo contemplavano piantando la vigna e l’ulivo, si abbandonavano alla riflessione. Anòixis, l’antica parola greca sopravvissuta nel linguaggio moderno per indicare la stagione della primavera (la stagione che apre l’anno), ha diversi significati e può anche indicare sia il momento in cui una nave naviga in lontananza, e segue la sua rotta in mare aperto, sia il momento in cui la mente umana afferra e comprende pienamente per la prima volta un’idea.
Gli eroi della mitologia greca erano provetti nuotatori e tuffatori straordinari. Durante il suo viaggio a Creta uno dei loro antesignani, Teseo — figlio di Poseidone e fondatore della democrazia ateniese — accogliendo la sfida di immergersi nei flutti per recuperare l’anello di Minosse, lo aveva dimostrato fra i primi. Secondo Tucidide, Minosse «fu il più antico di coloro che conosciamo attraverso la tradizione a possedere una flotta ed avere il controllo della maggior parte del mare oggi chiamato greco, ottenne il dominio delle Cicladi e fu il primo colonizzatore della maggior parte di esse». Con ogni probabilità, la storia greca inizia quando gli uomini di mare micenei fecero vela verso sud e irruppero nella civiltà di quel popolo misterioso — amante del lusso e delle geometrie, della danza e del vino — e, da Creta, diventarono loro i padroni del mare.
Nell’VIII secolo a.C., l’epoca alla quale appartengono i lunghi poemi attribuiti a Esiodo e Omero che a memoria venivano recitati nelle cerimonie festive e i naviganti portavano con sé ovunque andassero, i Micenei, come prima era accaduto ai Minoici, erano scomparsi da moltissimo tempo: inghiottiti in un vero e proprio abisso. Di questi antenati valorosi e crudeli, irosi e saggi, spesso imparentati con gli dèi, i greci dell’età arcaica sapevano ben poco, oltre al fatto che avevano goduto di regni e ricchezze invidiabili, e che i loro re abitavano in grandi palazzi difesi da mura possenti. Che il mare fosse al centro della loro esistenza era, tuttavia, evidente.
Se l’Iliade si apre con l’indimenticabile scena nella quale Achille, corrucciato e piangente per il torto subito da Agamennone, sulla «riva del mare spumoso» guarda la «distesa infinita» e prega sua madre Teti di venire a vendicarlo — lei viene, sale dalle profondità marine, gli si siede accanto, lo sfiora con la mano e gli chiede: «Figlio, perché piangi? Quale dolore t’è entrato nel cuore?»: la traduzione è quella, splendida, di Giovanni Cerri (Rizzoli) —, l’Odissea è l’archetipo del viaggio per mare e «Ulisse il marinaio», come scrive Edith Hall, «è l’incarnazione mitica di tutti i greci in carne ed ossa che, in età arcaica, navigarono con le loro navi in acque sconosciute, attraverso il Mediterraneo e il Mar Nero, alla ricerca di nuove terre e avventure». La sua dimestichezza con la vita marinara che, dopo il ritorno a Itaca e le successive peregrinazioni, lo accoglierà con una «dolce morte», è testimoniata ad ogni passo: Ulisse è un maestro d’ascia capace di costruire in soli quattro giorni (dall’abbattimento degli alberi alla cucitura delle vele) la zattera con la quale abbandonerà l’isola della ninfa Calypso; regola sugli astri le rotte; naufrago, riesce a resistere con la sua propria forza alla tempesta che lo porterà nell’isola dei Feaci.
Prima di partire, già allora e nei secoli successivi, verso nuovi lidi da colonizzare, e l’ignoto, i greci — che Platone definisce nel Fedone «come formiche o rane intorno a uno stagno» — si recavano a Delo, l’isoletta delle Cicladi, a consultare l’oracolo di Apollo. Quindi slegavano le corde, riempivano le stive, scioglievano le vele, mettevano mano al remo. Le navi erano grandi, e molto ben fatte. Per muoverle, se il vento non era propizio, occorrevano numerosi vogatori. Perché li aiutassero a mantenere il ritmo mentre remavano, gli antichi marinai greci impiegavano i musicisti. Il suono penetrante e lamentoso degli strumenti a fiato attirava i delfini. «O navi gloriose che alla voga/di remi senza numero/passaste un giorno a Troia», cantano nel primo stasimo dell’Elettra di Euripide le giovani contadine di Argo,«conducendo le danze/con le Nereidi in gara,/mentre il delfino al suono/del flauto che lo ammalia,/balzava intorno ai nereggianti sproni/delle prore cerulee,/e torcendosi in arco/segnava con le sue volute il corso/ad Achille di Tetide,/piede leggero al salto...» (la traduzione è di Carlo Diano).
I delfini — associati al culto di Dioniso, che nel mito arrivava per mare, a volte su una nave sulla quale pendevano i grappoli dell’uva, accompagnata da delfini — non si limitavano a partecipare con i loro balzi festosi, i loro tuffi e le loro capriole, a quella ebbrezza sconvolgente creata dalla dolcezza della musica, dal vigore delle braccia, dalle spume bianche sulla cresta delle onde. Erano amici dell’uomo e, come mostrano le monete di numerose città sia della Grecia continentale che di quella insulare nelle quali sono effigiati uomini a cavallo di delfini, correvano a salvarli prima che annegassero.
Appena toccavano la riva di una nuova isola o un nuovo lembo finora inesplorato di costa, gli antichi marinai greci, dopo aver messo in sicurezza la nave, trasportavano a terra le vettovaglie, sacrificavano agli dèi, e organizzavano il simposio: accendevano un grande fuoco attorno al quale stendevano dei morbidi panni, uccidevano e arrostivano un animale, scacciavano i timori e le ansie che li avevano tormentati durante la traversata lasciandosi invadere — su quelle spiagge deserte, in quei piccoli golfi silenziosi sotto i monti — dalla gioia incontrollata del vino. Di lì, la mattina seguente, sarebbero partiti per spingersi oltre; scegliere il posto giusto nel quale edificare una città con un porto protetto dai venti, i magazzini per le merci, un tempio, un teatro.


Edith Hall, «Gli antichi greci, (traduzione di Luigi Giacone, Einaudi, pagine 352, euro 30)
«Corriere della serra» del 17 marzo 2016