28 febbraio 2016

3mila studenti a Firenze per conoscere Ungaretti

I Colloqui fiorentini
di Lucia Bellaspiga
Colloqui fiorentini, il programma
“Giuseppe Ungaretti: «Quel nulla d’inesauribile segreto»” è il tema della XV edizione de “I Colloqui Fiorentini – Nihil alienum” promossi da Diesse Firenze e Toscana. Da oggi fino a sabato, tremila studenti e docenti di 250 scuole provenienti da tutte le regioni d’Italia si ritroveranno presso il Palazzo dei Congressi e il Palazzo degli Affari di Firenze attirati dal grande poeta Ungaretti. Un vero record di adesioni quest’anno: mai nessun autore delle precedenti edizioni de I Colloqui Fiorentini – Nihil Alienum aveva registrato un numero così alto. L’appuntamento negli anni è diventato per molti docenti un momento di vero aggiornamento professionale, di scuola, di cultura, oltre che un’occasione di crescita umana per migliaia di studenti. Tra i relatori del convegno: Andrea Caspani, direttore di LineaTempo, Alessandra Giappi dell’Università Cattolica di Brescia, il critico letterario Silvio Ramat e Pietro Baroni (Diesse Firenze).


«A dire il vero, quei foglietti - cartoline in franchigia, margini di giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute, sui quali da due anni andavo facendo giorno per giorno il mio esame di coscienza, ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane non erano destinati a nessun pubblico».
Eppure per quei versi di Giuseppe Ungaretti, scritti per “nessun pubblico” sul Carso, nei giorni più drammatici della prima guerra mondiale, oggi succede l’imprevisto: richiede perlomeno una riflessione il fatto che tremila studenti da 250 scuole superiori di tutta Italia si riuniscano a Firenze per sentir parlare di Ungaretti e per parlarne anch’essi, in una tre giorni intitolata «Quel nulla d’inesauribile segreto».
Per i Colloqui Fiorentini, organizzati ogni anno da Diesse Firenze e Toscana e arrivati alla XV edizione, quella folla di giovani in controtendenza è ormai un’abitudine, «ma il boom di presenze registrato per Ungaretti fa capire quanto questo autore sia moderno e sappia parlare alle nuovissime generazioni », commenta Andrea Caspani, storico dell’età contemporanea e direttore della rivista LineaTempo.

Oggi stesso lei ne parlerà dal punto di vista dello storico, contestualizzando le poesie più amate di Ungaretti nell’arco della Grande guerra, passando quindi dal suo fervore interventista degli inizi all’orrore per la guerra che infine aveva devastato il suo animo.
«Certamente la scelta dei Colloqui Fiorentini è caduta su Ungaretti anche perché ricorre il centesimo anniversario della Grande guerra e quindi di “Il porto sepolto”, la sua raccolta di poesie scritte nel 1916 in trincea, come Veglia, o San Martino del Carso o ancora Fratelli. Ma poi c’è molto di più: Ungaretti ha tutte le caratteristiche per parlare a giovani che, nel mondo d’oggi, per molti versi vivono la loro “guerra”, stanno in nuove trincee, sono ribelli come lui e come lui cercano un senso a questa vita. Il titolo stesso della sua raccolta, “Il porto sepolto”, è indicativo: il poeta era nato ad Alessandria d’Egitto, dove il padre era sterratore nello scavo del Canale di Suez, e lì aveva saputo che nel fondale di Alessandria c’erano ancora i resti del porto antico risalente a prima dei Tolomei. Sotto le apparenze, voleva dire, c’è sempre qualcosa di profondo e vero da scoprire: questo è sempre stato il suo pensiero fondante, quello che ha agitato le sue ribellioni giovanili e appagato i suoi approdi senili. Sotto quel mare, spiega lui stesso, restano ancora i frammenti di quel grande porto, e sui frammenti si è sempre basata anche la sua poesia, così scarna ed essenziale, a volte fatta di una o due righe e il resto è pagina bianca. A Ungaretti interessa il nesso tra l’apparenza e il reale, vuole scavare fino a scoprire quest’ultimo, e proprio la guerra, con tutta la sua drammaticità, lo aiuterà in questo».

Come spiegare ai ragazzi l’appassionato interventismo di Ungaretti? E come si concilia con i versi in cui invece «è il mio cuore il paese più straziato» e «si sta come d’autunno sugli alberi le foglie», precari, fragili, sempre in bilico sulla morte?
«Ungaretti nacque nella Belle Époque, tra le “sorti magnifiche progressive” della seconda Rivoluzione industriale, quando vigeva la visione ottimistica di un mondo nuovo, reso più comodo dall’ingresso trionfale di automobile, bicicletta e telefono. Un mondo basato sulla prospettiva del progresso e della scienza. Ma il ragazzo era anche ai margini di tutto questo, italiano abbiente in un Egitto povero, figlio delle contraddizioni di un’età cosmopolita e mondiale (ecco un altro punto di contatto con l’oggi). Così maturava una ribellione contro l’ingiustizia sociale e la tradizione, diventava ateo e anarchico. Lasciò Alessandria per Parigi, dove fu amico degli animi inquieti, primo tra tutti Guillaume Apollinaire e il mondo dell’avanguardia. Cercava il suo porto sepolto e l’occasione nel 1914 gliela diede proprio lo scoppio del conflitto, che insieme a buona parte della sinistra italiana vedeva come guerra di civiltà: il suo non è irredentismo, è desiderio di cambiare il mondo borghese che sotto un progressismo di facciata non soddisfa l’umano. Pensa che poi tutti gli uomini saranno davvero liberi. E fa di tutto per essere arruolato, così nel ’15 si trova sul Carso, dove la guerra è più furibonda».

E lì la disillusione…
«Non rinnega i suoi ideali e non diventa pacifista, ma il problema è sempre quello: si rende conto che la retorica del nazionalismo copre un vuoto. Ciò che gli manca è l’umano. E lì scopre che sotto ogni uomo, soldato o ufficiale, amico o nemico, c’è un fratello, parola chiave di tanti suoi versi: in quanto tutti fragili siamo appunto “Fratelli”. Specifica in ogni poesia la data e il luogo in cui l’ha scritta per dire che è in quel momento preciso, in quel luogo, partendo da quella circostanza concreta che l’uomo può elevarsi alle domande universali sul senso della vita. In Dannazione si chiede come possa aspirare a Dio in quelle condizioni: «Chiuso fra cose mortali (anche il cielo stellato finirà), perché bramo Dio?». Non esprime uno stato d’animo, ma una domanda universale».

Anche nella tragedia, si intravvede sempre un varco alla speranza.
«È così. Descrive corpi martoriati dei compagni in trincea, ma anche qui trova la tenue scintilla («con la sua bocca digrignata volta al plenilunio… ho scritto lettere piene d’amore. Non sono mai stato tanto attaccato alla vita»). Ecco perché può parlare a ragazzi che non hanno mai visto la guerra, ma che oggi vivono in un mare in tempesta. Dice loro che c’è qualcosa di profondo che va evocato. Finita la guerra, scoprirà che Apollinaire è morto, e si chiude così il suo mondo utopistico dell’anarchismo. Ne esce come un uomo guarito da quelle che anni dopo chiamerà “bubbole”, le illusioni di chi crede che la guerra risolva i problemi».
E quel Dio bramato?
«Lo incontrerà nel 1928 con una forte conversione, che però ancora una volta è moderna: non nasce a partire dalla tradizione, che non lo attrae, ma dall’intuizione che quella fratellanza scoperta in guerra deve avere un fondamento, e questo è Gesù. Come scriverà in Mio fiume anche tu, nel 1940, per Roma occupata.

Fragilità e fede palpitano in quel suo appello: «Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli»…
«…Ora che sono vani gli altri gridi, vedo ora chiaro nella notte triste. D’un pianto solo mio non piango più». È il suo punto d’arrivo. Quello che cento anni fa, tra i compagni morti, aveva intravisto come “inesauribile segreto” e da allora inseguito».
«Avvenire» del 25 febbraio 2016

La filosofia di Umberto Eco, dai nudi nomi al vetero-realismo

Addio a Umberto Eco, il filosofo inquieto
di Mario De Caro
Come la maggior parte degli italiani alfabetizzati, ho sentito parlare di Umberto Eco molto presto. Avevo, credo, dodici anni quando lessi la Fenomenologia di Mike Bongiorno, che nell'Italia del boom giocò un ruolo assai maggiore della Fenonomenologia dello spirito di Hegel.
Entusiasta di quel testo, lessi poi un altro racconto di Eco, Nonita (per capire solo vari anni dopo che era una parodia di Lolita), e le sue formidabili stroncature dei classici da parte di immaginari critici coevi. Poi passai ai suoi testi di semiotica e di estetica e, soprattutto, al suo Come si fa una tesi di laurea, testo capitale per tutti i laureandi in discipline umanistiche prima dell'affermazione di internet.
Poi venne il 1980 e Il nome della rosa. Lo lessi due volte in una settimana, tanto fu il mio entusiasmo per le avventure di Guglielmo di Baskerville, di Adso da Melk e di Jorge da Burgos. Mi divertii moltissimo a decrittare i giochi letterari echiani: i giochi borgesiani, le citazioni di Voltaire, la ripresa di peso della Storia di fra Michele Minorita.
Allora, però, non avevo ancora gli strumenti culturali per capire che che sullo sfondo di quel geniale romanzo c'era la veneranda questione filosofica del realismo, rispetto alla quale trent'anni dopo avrei collaborato con Eco nel volume Bentornata realtà (Einaudi). Cosa c'entri Il nome della rosa con il tema del realismo è presto detto. Come molti ricorderanno, uno dei temi classici della filosofia medievale fu la "questione degli universali". Il problema non era quello di stabilire se nel mondo reale esistono veramente le rose, le cose verdi e i professori: di queste cose nessuno dubitava nel Medioevo come nessuno dubita oggi (filosofi dadaisti a parte, naturalmente). Il problema, piuttosto, era quello di capire cosa le rose, le cose verdi e i professori sono effettivamente.
Su questo tema i filosofi medievali si dividevano in due scuole principali: i nominalisti e i realisti; e le conseguenze della disputa erano importanti, sul piano della morale, della scienza e, soprattutto, della teologia. Secondo i realisti, tutte le rose, tutte le cose verdi e tutti i professori condividono essenze comuni (la "rosità", la "verdezza", la "professorità"); secondo i nominalisti, invece, le singole rose (le singole cose verdi, i singoli professori) sono invece accomunate soltanto dai concetti mediante cui noi le descriviamo o addirittura dai nomi che noi attribuiamo loro: nella realtà non esiste nulla oltre le cose singole, insomma. Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus, recita la famosa chiusa del Nome della rosa.
La rosa originaria (intesa come l'essenza di tutte le rose) sta solo nel nome, perché i nomi delle essenze sono nudi, perché non rimandano a nessuna essenza reale. E, in effetti, nei suoi primi testi filosofici, come La struttura assente, Eco sembrava tendere verso il nominalismo.
Ad ogni modo, nella maturità (Kant e l'ornitorinco) prese a difendere invece una concezione esplicitamente realistica ("vetero-realismo", la chiamava scherzosamente, per distanziarsi almeno un po' dal "nuovo realismo" di Maurizio Ferraris).
La sua idea era che la realtà fa sempre attrito rispetto ai nostri tentativi di determinarla e di controllarla: le interpretazioni, insomma trovano sempre limiti invalicabili nel modo in cui il mondo è fatto. Ma, per fortuna, ora che Umberto Eco se ne è andato, ci resteranno almeno le sue interpretazioni.
«Avvenire» del 21 febbraio 2016

08 febbraio 2016

Film tradotti e prof impreparati: ecco perché non impariamo l’inglese

Lo studio Eurostat
di Antonella De Gregorio
Italia al top per numero di lingue insegnate alle medie: 98% degli adolescenti ne studia due, ma solo 16 su 100 poi le sanno usare. I pedagogisti: «Non vanno abbandonate alle superiori». E per impararle bene, video e testi in originale
Ci dev’essere un buco, nella scuola, dove finiscono le lingue straniere. Si legge nei numeri, che vedono la totalità dei nostri adolescenti impegnati nello studio non solo della seconda (inglese, per tutti), ma di una terza lingua (che più frequentemente è il francese): il 98,4% contro una media europea del 60, dice l’Eurostat. E però solo il 16% degli italiani parla due lingue, a fronte del 21% dei cittadini Ue, e il 40% non ne parla nessuna. Del dato statistico si rallegra Gisella Langè, ispettore tecnico del Miur, consulente per le lingue straniere e l’internazionalizzazione: «È il segno che si stanno muovendo molte cose e che sta aumentando l’esposizione degli studenti alle lingue straniere, come dimostra il successo dei partenariati, dei programmi di scambio e dei gemellaggi», sostiene.

Investimento a fondo perduto
L’Italia è tra i 14 paesi europei che hanno imposto l’inglese come lingua obbligatoria a partire dai 6 anni (tra i 6 ed i 9 anni in Ue, e in alcuni Stati europei già nel periodo prescolare); un secondo idioma straniero è stato introdotto, con la riforma del 2010, a partire dagli 11 anni e sino al termine della scuola secondaria inferiore. Alle superiori, però, meno del 50% dei percorsi di studio prevede la seconda lingua, comunitaria o extra Ue. L’investimento fatto alle medie - circa duecento ore nei tre anni - è dunque a fondo perduto?

A scuola
Qualche anno fa le lingue straniere si studiavano quasi esclusivamente nei licei linguistici. Poche ore nelle altre scuole, assenti alla primaria, di poco conto all’università. Oggi si sperimenta alla materna, sono stati avviati interi corsi universitari in inglese, alle superiori c’è il Clil (una materia insegnata in lingua) e dal 2010 alle medie è obbligatoria una seconda lingua straniera. Poi, però, proseguendo gli studi, meno del 50% dei percorsi la prevede. E anche se ci dedichiamo di più alle lingue, non le «mastichiamo» ancora.

«Programmi per settori»
«Spesso nella scuola si ragiona per settori e si perde quel che viene prima e dopo», commenta Raffaele Mantegazza, docente di Pedagogia generale alla Bicocca di Milano. «Alle superiori la seconda lingua straniera non va abbandonata», dice. La si studia «a intermittenza», mentre se ne dovrebbero «padroneggiare due allo stesso modo». Il dislivello tra investimento e mancato utilizzo è significativo. Colpa della superficialità con cui si insegna: alla primaria salgono in cattedra maestri che han frequentato solo le vecchie magistrali; e la maggior parte dei docenti non fa aggiornamento da una decina d’anni. Ma con la riforma della scuola finalmente si investe molto sulla formazione, dice Gisella Langè: «40 milioni di euro all’anno, per tre anni, con priorità a lingue e digitale». Il nuovo bando di concorso per i prof, inoltre, prevede una parte in inglese (livello B2).

Ripensare la didattica
Ci vorranno anni per vederne gli esiti sulla maggior parte della popolazione adulta. Intanto «bisogna ripensare a come si insegna», dice Mantegazza: «Le lingue dovrebbero essere strumento per apprendere, prima che oggetto di studio, utilizzando brevi testi, adatti all’età: un fumetto, una recensione, un brano critico nell’idioma originale». E vanno pensate come veicolo delle nazioni, e come strumento di relazioni, a prescindere da un loro utilizzo professionale. Con questo obiettivo - dice - sarebbe importante portarne avanti due anche al liceo Scientifico e al Classico. «Tenendo però ben presente l’equilibrio globale dei curricoli. Non si può solo aggiungere ore di lingua, a scapito di materie “povere” e fondamentali come geografia, laboratorio, educazione civica. Occorre uno sforzo per ripensare i programmi. Servono copresenza e, certo, investimenti».

Film in lingua e canzoni
Studiare, poi, non basta: per imparare una lingua straniera, bisogna viverla. Masticarla, cantarla, lasciarsene conquistare. E invece. Se confrontiamo il nostro Paese con Svezia, Danimarca, Olanda – le regine della classifica Ef Epi, che da dieci anni misura la competenza dell’inglese degli adulti nel mondo - , usciamo dal confronto appiattiti nella mediocrità: 28esimi su 70, dal Cile alla Libia, e tra i più scarsi del Continente. Le ore scolastiche dedicate all’insegnamento delle lingue straniere sono simili, ma i paesi nordici eccellono perché l’immersione nell’idioma inizia fin da piccoli, con i cartoni animati non doppiati. Poi arrivano i film in lingua originale, i siti web consultati in inglese, i viaggi. Anche il contesto familiare fa la sua parte: se sono papà e mamma a dare l’esempio, ascoltando in originale tutto ciò che si può, leggendo libri in inglese, nei piccoli si sviluppa una sensibilità diversa alle lingue. «I ragazzi italiani brillano tutt’al più per la grammatica, ma sono indietro nell’orale: conversazione e ascolto», dice Natalia Anguas, amministratore delegato di Ef Italia. Il metodo pedagogico incide: i danesi, per dire, imparano soprattutto a parlare, applicando la lingua a situazioni reali. Da noia scuola le lezioni sono frontali, con al centro grammatica e scrittura. Apprendimento spontaneo contro accademia. Bilingui si diventa forse solo facendo le valigie. Ma intanto si può lavorare sull’atteggiamento culturale: poco permeabili alla diversità, secondo Anguas gli italiani faticano a staccarsi dalla famiglia e dagli amici: «Possono vincere la gara dello spelling, ma sono troppo poco indipendenti».
«Corriere della sera» dell'8 febbraio 2016

04 febbraio 2016

Statue coperte per Rohani, i parvenu del «pudicamente corretto»

di Andrea Carandini
È bello il volto di Rohani, compreso tra la barba e il turbante. Brutte sono invece le statue inscatolate sul Campidoglio per non mostrare peni, pubi, natiche, bacini e seni, parti con cui l'umanità ha da sempre giocherellato anche riproducendosi. È da rispettare un politico che non voglia vedere nudità, ma basta che non entri in un nostro museo, ché nella vita urbana la gente gira vestita anche nel secolare Occidente. C'è tanto da vedere in Italia senza nudità esposte, a partire dalle architetture, tutte sempre svestite ma per fortuna astratte così da non indurre in tentazione.
Questo fare da beghine mi rende contento di appartenere a una società aperta, democratica e liberale, alla civiltà europea che con l'antesignano Vico e soprattutto con Herder ha scoperto lo storicismo, ma soltanto nel XVIII secolo. Infatti tra Voltaire che dà del barbaro a Shakespeare e Herder che capisce i valori più diversi nel mondo vi è un salto di cultura che distingue la mia sensibilità da una sensibilità classicistica ormai remota.
In cosa sta il modo nostro di sentire attuale? Nel fatto che è possibile apprezzare le diverse civiltà umane, sprofondate nel tempo e sparse per il globo, anche quando non se ne condividono i costumi. Leggo godendo l'Iliade, ma non percepisco più come Achille. Studio da una vita i Romani ma la schiavitù è orribile. La tetralogia di Wagner mi emoziona ma l'unisono con Sigfrido dove è?
Le diverse fioriture umane e gli usi strani a esse congiunte sono dovute sempre a nostri simili, metà angeli e meta diavoli - esiste forse il male assoluto? -, e noi possiamo godere e soffrire di queste differenze, patendo ogni volta che qualcuno, autoproclamatosi angelo, ha accusato altri d'essere diavoli. Ciò è avvenuto, su enorme scala, alla fine del IV secolo d.C., quando imperatori cristiani hanno abolito un paganesimo che abbiamo dovuto riscoprire nel Rinascimento.
La tolleranza va bene, ma forse è poco! Preferisco vedere cosa vi è di buono e cosa di cattivo in ogni primavera umana, senza che ciò implichi la rinuncia a quello che sono nel mio contesto e che avverto come casa mia. Capisco dignità e indignità, condividendo le prime e allontanandomi dalle seconde, ma sono pronto a difendere, anche con la forza, la civiltà a cui appartengo, ove qualcuno si proponesse di distruggerla. Da questo punto di vista, anche piccoli atti simbolici andrebbero rintuzzati.
Chi viene in Italia dovrebbe comportarsi come noi quando siamo invitati a cena. La casa dell'amico o dello straniero ci può piacere o meno, possiamo gradire o non gradire che si preghi prima di mangiare, che si dica “buon appetito”, ma non ci sediamo per terra se ci sono seggiole e non trinciamo quadri se l'arte non ci piace.
Infatti, a parte pochi valori e principi primi che rientrano nel terreno comune dell'umanità e che uniscono gli uomini in grande parte dei luoghi e dei tempi, gli usi e i costumi variano in un inesauribile caleidoscopio e noi di ciò possiamo godere e soffrire, sempre sapendo che la plurimità prevale nell' umano rispetto all'unità e noi abbiamo il diritto che i mores di casa nostra siano rispettati da coloro che vengono a visitarci.
A questa consapevolezza di ciò che è uno e di ciò che è plurimo nell'uomo l'umanità non pervenuta allo storicismo può iniziarsi grazie alle civiltà tolleranti esistite nel passato e anche grazie dall'Europa di oggi. Ma se noi, al contrario, scimmiottiamo intolleranze e censure altrui, in una insopportabile presunta correttezza politica, rinunciamo a noi stessi e a uno dei ruoli benefici che potremmo svolgere nel mondo con modestia, nonostante i tanti errori di tracotanza commessi.
Si può vivere bene anche senza conoscere il Discobolo di Mirone, ma conoscendolo si vive in modo più pieno, a contatto con i Greci antichi, il che non obbliga nessuno oggi a denudarsi e a lanciare il disco in uno stadio. Atene e Roma non sono modelli ma neppure civiltà da cancellare: fanno parte del repertorio umano globale di cui l'intero globlo è ormai erede. I Cinesi non si appassionano ancora oggi al diritto romano? E quegli omini minuscoli in vastissima natura dei paesaggi della tradizione pittorica cinese non sono di ammonimento a noi e a loro che che abbiamo finito per asservirla e rovinarla?
I politici e i funzionari che hanno ordinato la copertura delle statue nude in Campidoglio si sono vergognati da parvenus della nostra tradizione culturale, sperando magari nell'oro persiano, ma così facendo hanno ampliato la confusione, che già nel mondo abbonda.
Viene da sorridere pensando che Berlusconi ha aggiunto il pene mancante a un Marte nudo e che Renzi abbia nascosto bellezze spogliate sul Campidoglio: impudicizie e pudicizie improprie del made in Italy.
«Il Sole 24 Ore» del 28 gennaio 2016

02 febbraio 2016

Rouhani e le statue coperte: la libertà non si contratta

La visita a Roma
di Pierluigi Battista
Era il presidente iraniano che avrebbe dovuto adattarsi
Speriamo che quelle statue vengano svestite al più presto. Restituite alla loro nudità. Che poi significa restituite alla loro libertà. Averle ricoperte per non offendere l’ospite, il presidente iraniano Rouhani, è stato un segno di cedimento culturale. Una macchia. Non abbiamo nulla di cui vergognarci. Non dobbiamo pensare che la nudità dell’arte sia qualcosa di spregevole o di vergognoso.
Consideriamo giustamente ridicoli i braghettoni con cui in passato il bigottismo cercava di coprire il nudo delle statue. E quel nudo ci racconta che nel nostro «stile di vita» la libertà artistica è parte integrante e imprescindibile della libertà tout court. Chi chiede che le nostre stature siano coperte manifesta un’arroganza culturale che dovremmo respingere, una pretesa di superiorità morale che possiamo spedire tranquillamente al mittente.
Invece ci mettiamo sempre in difesa. Ammettiamo che, certo, quei nudi possono rappresentare qualcosa di sconveniente. Che dovremmo nasconderli per non dare all’ar-cigno ospite una brutta impressione. Non vogliamo capire che la libertà d’espressione non è una cosa da maneggiare come fosse cosa impura. Non vogliamo capire che una battaglia culturale non è un atto bellicoso, ma un atto d’amore nei confronti di ciò che siamo e che siamo diventati pagando prezzi immensi.
La libertà di vestirsi e di svestirsi, la libertà di comportarsi senza seguire i precetti e i dogmi, la libertà di separare politica e religione. Era lui, il presidente Rouhani, che avrebbe dovuto adattarsi per non offenderci, e non il contrario. E non dovrebbe essere un contratto in più, o una mossa diplomatica, a farci rinnegare, tra l’altro con modalità che sfiorano il ridicolo, quello che siamo, anche in manifestazioni estetiche apparentemente innocue. Senza sfregiare, sia pur simbolicamente, i monumenti di cui andiamo orgogliosi.
«Corriere della sera» del 26 gennaio 2016