18 dicembre 2015

Il mio viaggio nella clinica dove si affittano gli uteri

di Monica Ricci Sargentini
Prendere un appuntamento per avere un figlio con una madre surrogata è facile. Sul sito California Premium Surrogacy si clicca su «genitori intenzionali» e si compila un modulo in cui si forniscono nome, cognome, email, accompagnati da un breve messaggio. La risposta arriva entro poche ore. La mattina dopo ci presentiamo alla Santa Monica Fertility Clinic nell’omonimo boulevard di questa cittadina baciata dal sole dove ogni desiderio sembra a portata di mano.
«Buongiorno Monica sono Julie Webb, la coordinatrice dei pazienti, sono contenta che tu sia venuta a trovarci dall’Italia». Capello corto, viso acqua e sapone, abbigliamento casual, ci fa fare il giro della clinica, un appartamento a pian terreno dall’aspetto modesto ma confortevole: «La comodità — dice — è che facciamo tutto qui, dal pick up degli ovuli della donatrice al transfer dell’embrione nell’utero della portatrice. Voi non dovete preoccuparvi di nulla, pensa a tutto il dottor Jain. Se non potete venire dall’Italia possiamo sentirci su Skype. Se al momento del parto avete un impedimento andiamo in clinica io e l’avvocato per prenderci cura del neonato».
Ma la mamma surrogata potrebbe cambiare idea e tenersi il bambino? «La mamma sei tu — precisa Julie — lei è la portatrice. E sei tu che decidi tutto, anche se farla abortire. La legge ha più volte stabilito che lei non ha alcun diritto. Sarà scritto tutto nel contratto che firmerete con l’avvocato. Una volta fatto l’accordo si va dal giudice e si fa un atto di prenascita così è già chiaro che siete voi i genitori. Il bimbo, se volete, avrà la cittadinanza americana». A 51 anni è impossibile pensare di usare i propri ovuli, e così scorriamo insieme i profili delle donatrici di ovuli.
Ce ne sono di tutti i tipi: bionde, brune, ricce, lisce, nere, asiatiche, bianche. Nella scheda sono segnate età, altezza, peso, colore degli occhi, scuole frequentate, voti ottenuti, passioni e hobby. C’è persino la storia clinica della famiglia. «Le nostre ragazze hanno fatto tutti i controlli medici possibili. Potete stare tranquilli» dice la coordinatrice. Chiediamo consiglio sul profilo da scegliere dal catalogo: «Dovrebbe essere una donna il più possibile vicina ai miei tratti somatici, giusto?». Scuote la testa: «Dipende dai gusti. Ognuno fa come vuole. Mi ricordo una paziente cinese che ha scelto ovuli di una donna bianca».
E quando nasce il bimbo cosa succede? Potremo portarlo subito via? Dovrà stare con la surrogata qualche giorno? «Decidi tu — spiega Julie — puoi stare nella stanza accanto e ti portano il bambino. Se vuoi la surrogata si tira il latte e tu glielo dai col biberon, i primi giorni fa bene al piccolo perché c’è il colostro e anche a lei perché tirandosi il latte aiuta l’utero a tornare a dimensioni normali».
Quanto ci vuole per trovare la surrogata giusta? «Dipende! Le nostre sono tutte della zona, facciamo uno screening accuratissimo, andiamo a vedere dove vivono, come mangiano, controlliamo la fedina penale e poi le sottoponiamo a screening psicologi. Siamo molto, molto severi per evitare sorprese dopo. Solo il 10% delle domande viene accettata». Ma perché lo fanno? «Beh è un gesto ben visto dalla società perché è altruistico, per aiutare una coppia in difficoltà e poi chiaramente per i soldi che per legge non devono servire a sopravvivere ma a stare meglio. Una surrogata non può essere senza casa o dipendente dai sussidi dello Stato».
I tempi per la procedura non sono biblici. Se accettiamo, a febbraio potremo fare il primo transfer e il bambino potrebbe arrivare entro la fine del prossimo anno. «Io ho già una portatrice ready to go — spiega Julie con un mezzo sorriso — che se dovessi fare io questo percorso prenderei subito. È lesbica, molto coscienziosa ma non ansiosa. Perfetta secondo me. È alla prima gravidanza surrogata ma ha già due figli suoi. Tieni conto che le surrogate che l’hanno già fatto costano di più, vedi qui sul catalogo c’è scritto premium vuol dire che sono le più gettonate. Molti preferiscono una portatrice lesbica perché non ha rapporti sessuali con penetrazione e in gravidanza è sempre meglio evitare».
Parliamo di soldi che sono in tre tranche. Per la donazione di ovuli ci vogliono quasi 40mila dollari. Per la madre surrogata si parte con 58mila cui si devono poi aggiungere altri 77mila per un totale di 135mila dollari. La portatrice prende un compenso a ogni passo: alla prima iniezione, al transfer, alla conferma del battito, per i viaggi, per i vestiti e una paghetta mensile. In tutto nelle tasche della donna entrano 40mila dollari. Il colloquio dura un’ora, non ci viene chiesto perché facciamo questa scelta, né se abbiamo figli. Mentre ci accompagna alla porta Julie sembra soddisfatta «Sono molto eccitata per voi che state iniziando questo percorso».
Due minuti dopo arriva l’email con la password per scegliere la donatrice di ovuli.
«Corriere della sera» del 18 dicembre 2015

29 novembre 2015

Scuola di Rozzano, Renzi: «Non si dialoga rinunciando al Natale»

Il premier: quel preside provoca o sbaglia. Il dirigente: sono pronto a lasciare l’incarico
di Marco Galluzzo
Alla fine, dopo che il preside è stato sommerso dalle polemiche, dopo che è stato criticato persino dai genitori dei suoi alunni, musulmani e cattolici, dopo che si è detto pronto a lasciare l’incarico — come conferma Delia Campanelli, direttore scolastico regionale lombardo —, alla fine ha sentito la necessità di intervenire anche il premier: «Il Natale è molto più importante di un preside in cerca di provocazioni. Se pensava di favorire integrazione e convivenza in questo modo, mi pare abbia sbagliato di grosso».
Insomma, la decisione di un preside di provincia rilancia il dibattito sulla nostra identità, sul modo di convivere con chi professa altre fedi, sul significato di integrazione. Dice Matteo Renzi al Corriere, senza mezze misure: «Confronto e dialogo non vuol dire affogare le identità in un politicamente corretto indistinto e scipito. L’Italia intera, laici e cristiani, non rinuncerà mai al Natale. Con buona pace del preside di Rozzano».
Lui, il preside, Marco Parma, 63 anni, dell’istituto Garofani a Rozzano, in provincia di Milano, si difende professando buone intenzioni. Ha deciso di cancellare le feste e i canti di Natale per non compromettere la sensibilità degli alunni di altre fedi.
L’Istituto comprensivo è frequentato da un migliaio di studenti, il 20% è di origine straniera. Dopo gli attentati di Parigi ha pensato che fosse meglio rinviare il concerto di Natale dei bimbi delle elementari al 21 gennaio, trasformandolo in concerto di inverno.
Laila Magar, 45 anni, egiziana di fede musulmana, abita a Rozzano da 7 anni, con il marito e i 4 figli. I due più piccoli, i gemelli Fatma e Yassin, hanno frequentato l’Istituto Garofani: «Ma a chi dà fastidio la festa di Natale? Forse al preside, di certo non alla comunità musulmana. I miei figli hanno sempre partecipato alle feste di Natale a scuola, hanno cantato “Tu scendi dalle stelle” e gli altri canti tradizionali cattolici. Perché si vuole creare un problema che non esiste?». Suo marito, Mahmoud El Kheir, 67 anni: «Chi siamo noi musulmani per dire che cosa si può fare nella scuola italiana? Noi siamo ospiti in questo Paese. Mi auguro che l’opinione pubblica capisca che la decisione non arriva da una richiesta dei genitori musulmani».
Il preside si difende così: «Credo sia un passo avanti verso l’integrazione rispettare la sensibilità di chi ha altre culture o religioni. Questa è una scuola multietnica». Critiche sono arrivate dal Pd, da Matteo Salvini («dovrebbe semplicemente essere licenziato»), e da quasi tutti gli altri partiti.
«Corriere della sera» del 29 novembre 2015

La tentazione degli intellettuali: l’Occidente sempre colpevole

Contro ogni scellerataggine commessa da uno Stato o un popolo europeo si è quasi sempre levata puntualmente una voce in difesa della giustizia offesa
di Ernesto Galli della Loggia
Anche di fronte al terrorismo islamista una parte dell’intellettualità italiana sembra non poter fare a meno di giudicare la civiltà occidentale sempre come la più colpevole; o perlomeno malvagia e iniqua al pari di ogni altra. Rosetta Loy, per esempio, si domanda sul Fatto di venerdì scorso con quale faccia possiamo mai sentirci autorizzati, proprio noi, abitanti di questa parte del mondo e autori di alcune tra le peggiori nefandezze della storia, a lanciare parole di accusa contro gli autori della strage di Parigi.
Se lo chiede ricordando a mo’ di esempio il terrificante sistema di sfruttamento e sterminio messo in piedi alla fine dell’800 in Congo da quel vero criminale che fu Leopoldo II del Belgio. E naturalmente lo fa in polemica con il profluvio d’inni alla triade Liberté, Egalité, Fraternité ascoltati in questi giorni.
Non tiene conto però, Rosetta Loy, di un particolare decisivo. E cioè che contro ogni scellerataggine commessa da uno Stato o un popolo europeo si è quasi sempre levata puntualmente, perlopiù ispirata dai principi cristiani, una voce in difesa della giustizia offesa. Da quella di Las Casas e poi dei Gesuiti delle «Reducciones», denunciatori degli orrori della Conquista ispanica delle Americhe, a quella - che pure lei stessa ricorda - di Mark Twain, Conan Doyle, Joseph Conrad; voce che a proposito del Congo ebbe un’eco vastissima. Talmente vasta che il governo britannico incaricò un suo diplomatico, Roger Casement, di un’indagine in loco che, resa pubblica nel 1904, illustrò apertamente «la riduzione in schiavitù, le mutilazioni e le torture subite dagli indigeni nelle piantagioni della gomma».
Voci di denuncia che tra l’altro sono state spesso proprio di intellettuali, come sono specialmente degli intellettuali ebrei quelle che oggi denunciano in Israele le ingiustizie subite dagli arabi. Accade, è accaduto qualcosa di simile altrove? A me non pare. A Rosetta Loy non so.
«Corriere della sera» del 29 novembre 2015

28 novembre 2015

Essere laici non significa negare la religione

di Antonio Polito
«Un concerto di canti religiosi a Natale, dopo quello che è successo a Parigi, sarebbe stata una provocazione pericolosa». Lo ha detto il preside dell’istituto Garofani di Rozzano, e meno male che la sua autorità si ferma alle porte della scuola, perché se fosse diventato sindaco (è stato candidato di una lista civica) chissà che altro avrebbe potuto proibire per evitare provocazioni: tutte queste donne a capo scoperto, per esempio; o il rock, musica satanica; o lo spudorato consumo di alcol in pubblico.
Pur essendo favorevoli all’idea di dare più poteri ai presidi nelle scuole, dobbiamo confessare che ieri abbiamo vacillato di fronte a questa performance. Purtroppo, spesso per pura ignoranza, c’è chi in Italia confonde l’obbligo alla laicità del nostro sistema educativo con la negazione della religione. Il nostro preside, che gestisce una scuola in cui il 20% degli studenti è straniero, ritiene che il suo compito sia quello di nascondere ai genitori musulmani che il restante 80% è fatto da cristiani.
Invece di promuovere un dialogo, per esempio spiegando ai bimbi cristiani in che cosa consista il credo dei loro compagni di banco islamici e viceversa, il preside promuove il silenzio, la censura, estesa fino al canto di Natale (c’è un istituto a Fonte Nuova, in provincia di Roma, dove hanno addirittura fatto sparire il bambinello dal presepe). In compenso la scuola di Rozzano trabocca di alberi di Natale e di Babbi Natale, quasi come a dire che far festa si può, ma senza religione.
Il guaio è che il 25 dicembre, per quanto multietnici vogliamo diventare, si celebra la nascita di un personaggio storico chiamato Gesù Cristo. Che tra l’altro, è rispettato e venerato anche dalla religione islamica, come potrebbero spiegare tutti i genitori musulmani che ieri, intervistati davanti alla scuola, hanno tenuto a precisare che non si sarebbero sentiti neanche lontanamente offesi da Tu scendi dalle stelle . Dunque, cari presidi italiani, sinite parvulos ...
«Corriere della sera» del 28 novembre 2015

22 novembre 2015

Bambini, leggete quello che volete

Così ho vinto il Nobel dei maestri
di Antonella De Gregorio
Metodo (classi piccole, approccio uno a uno) e progetti (comprare altri volumi, rifare il tetto) di Nancie Atwell, americana, 63 anni, miglior docente del mondo. Che insegna in un centro rurale di 1.200 abitanti
Di ragazzi che abbandonano la scuola e smettono di studiare non ce ne sono a Edgecomb, piccolo centro del Maine, dove un’insegnante appassionata, Nancie Atwell, ha avviato nel 1990 una demonstration school, scuola laboratorio che serve da modello e caso di studio per altri insegnanti. Accoglie un centinaio di bambini tra i 5 e i 12 anni e si sperimentano metodologie innovative. Nulla a che vedere con le tecnologie digitali, per una volta, ma pareti tappezzate di libri in ogni classe, decine di migliaia, a disposizione dei ragazzi. La novità, rivoluzionaria, è che dalla prima elementare alla fine delle medie, gli alunni della scuola (il Center for Teaching and Learning) leggono in media 40 libri a testa all’anno (contro i 5 della media Usa); scrivono ognuno una ventina di racconti, poesie, recensioni, che vengono pubblicati su riviste o sul sito del Centro; e soprattutto diventano presto autonomi nell’apprendimento. Con risultati scolastici molto alti. Il 97%, poi, prosegue gli studi e si iscrive a college e università anche eccellenti, come Harvard o Chicago.

Edgecomb è un paese rurale di 1.200 abitanti. Il Ctl è una scuola hands on, con laboratori di storia, arte, musica e scienze. E Nancie Atwell, 63 anni, è la prima vincitrice di quello che è stato definito il «Premio Nobel degli insegnanti», messo in palio dalla Varkey Foundation e conferito in marzo a Dubai, nel corso di una sontuosa cerimonia, alla presenza di capi di Stato e di docenti fuori dall’ordinario, di tutto il mondo. Un premio nato per far finire sotto i riflettori un insegnante eccezionale, che abbia offerto un contributo speciale alla professione. La luce su uno, per migliorare la reputazione dell’intera categoria e «far sì che riceva il rispetto che merita», ha spiegato l’ideatore, Sunny Varkey, imprenditore di origini indiane. Un modo, anche, per far conoscere le migliaia di storie di «eroi» che hanno trasformato la vita dei giovani.
«Ho saputo solo all’ultimo di aver vinto: quando, sul palco a Dubai, hanno letto il mio nome», dice a «la Lettura» tra un appuntamento e l’altro di un tour europeo per raccontare la sua esperienza ed esercitare il ruolo di ambasciatrice della Fondazione: eventi, forum, interviste.

Oltre alla meraviglia e alla gratificazione, un assegno da dirigente d’azienda, da calciatore, star della tv: un milione di dollari che le verranno corrisposti a rate, in dieci anni. Che cosa ne farà?
«Investirò tutto nel Centro: prima di marzo ero preoccupata di come andare avanti. Abbiamo bisogno urgente di rifare il tetto, sostituire i caloriferi e soprattutto acquistare libri: non sono mai abbastanza. Abbiamo deciso dall’inizio di sostenerci con raccolte fondi e con il provento delle royalty dei libri che scriviamo (una trentina all’attivo, su diversi aspetti della didattica, ndr). La nostra è una scuola privata, ma ha rette pari a un terzo delle altre e offriamo molte borse di studio: meno del 20% degli studenti paga la quota intera».

Qual è la novità del suo metodo?
«Classi piccole, niente test standardizzati, approccio “uno a uno” con i ragazzi. I bambini sono incoraggiati a scegliere in autonomia il libro che hanno più voglia di leggere e hanno il tempo e lo spazio per farlo, in un continuo dialogo con l’insegnante. Facciamo laboratori quotidiani di scrittura e sono i bambini a decidere che cosa scrivere: l’ultimo libro che hanno letto, le emozioni che ha prodotto in loro. La scoperta rivoluzionaria è stata vedere che lasciandoli liberi di scegliere da soli, dalla libreria che aggiorniamo continuamente, diventano lettori appassionati».

Un’idea contrastata da molti educatori, che ritengono che i ragazzi debbano leggere libri più impegnativi di quelli che selezionerebbero per conto proprio. Che dedicare tempo alla lettura significa togliere tempo alle attività scolastiche ...
«Sarebbe facile convincerli del contrario se solo si prendessero la briga di vedere i risultati che otteniamo noi. Certo, un bambino seduto in una stanza tranquilla con un buon libro in mano non è un metodo d’impatto mediatico. Ma è l’unico modo in cui si diventa lettori. E attraverso la lettura si possono imparare tante cose importanti, la storia, i valori civili, la grammatica, la matematica. Si sviluppa il pensiero critico. Si conosce il mondo: quando escono da scuola, i nostri ragazzi trovano idee, luoghi, persone che conoscono già, per averli incontrati nelle pagine scritte».

Che genere di libri acquistate?
«Di tutto: Harry Potter, Amleto, Huck Finn. Classici e novità. Fortunatamente in questo momento negli Stati Uniti c’è grandissima scelta. Sul sito della scuola (www.c-t-l.org) abbiamo elenchi di libri consigliati, che vengono aggiornati tre volte all’anno, anche con il contributo dei ragazzi».

Qual è un errore che non si dovrebbe mai fare se si vuole che un ragazzo si appassioni alla lettura?
«Mai dare per scontato che un bambino che non legge non leggerà. Quando un ragazzo afferma di non amare la lettura in realtà è perché non ha trovato il libro giusto».

Per molti adolescenti leggere è noioso, difficile e non rende felici. Ha a che fare con il fatto che trovano più interessante la tv, i social, la rapidità del web? E in generale, cosa pensa delle tecnologie a scuola?
«I giovani che non sono abituati a leggere non provano un piacere immediato, devono entrare nella storia e comprenderne il linguaggio. Un videogioco e un libro non sono la stessa cosa. Se vogliamo far entrare la lettura nella loro vita dobbiamo fare in modo che la incrocino sempre, non solo un’ora a settimana. Io poi sono contraria alla lettura su schermi digitali. Anche i bambini abituati ai libri, non li amano. Ai genitori chiediamo di limitare a mezz’ora, massimo un’ora al giorno il tempo per videogiochi o social network. E comunque dopo la lettura, che deve essere quotidiana. A scuola usiamo le tecnologie solo per fare ricerche di storia o scienze, laptop per scrivere. Niente tablet ai più piccoli, mouse e tastiera solo dopo i nove anni».
«Corriere della sera» del 22 novembre 2015

Amori finiti dell’era social: «Cancellare i ricordi non basta»

Il filosofo canadese Clancy Martin, studioso di Kierkegaard: meglio pensare a una nuova «memoria digitale» che dia spazio al lutto, al pentimento e alla rinascita
di Serena Danna
Clancy Martin ha un talento naturale nel raccontare le complicazioni che nascono dai vizi. Nonostante sia un grande esperto di Kierkegaard, lo scrittore canadese, 45 anni, che insegna filosofia all’università del Missouri, non utilizza mai il filtro della morale quando scrive di passione, che sia quella per l’alcol, per il sesso o per il furto - argomenti dei suoi libri nonché costanti della sua vita. La sua ultima opera, Adulterio in America Centrale (Indiana), racconta di una storia d’amore clandestina, che si trasforma presto in ossessione per la protagonista Brett. Martin definisce il romanzo uno studio sui «pericoli dell’amore».

Cominciamo dal primo pericolo: le conseguenze dell’innamoramento.
«Le storie d’amore brevi e intense si sono rivelate presto uno specchio utile della mia debolezza: mi ritrovo a rivelare tutti i miei difetti, a svelare i miei tentativi di essere più attraente per prolungare l’estasi di quei giorni di vertigine. Nelle relazioni durature, come quella con mia moglie e con i miei figli, sembra accadere esattamente l’opposto: scopro delle forze che non ero sicuro di avere e quel sentimento mi rassicura. La relazione amorosa rappresenta la più piena espressione della vita, contiene tutto il male e il bene e la solitudine, l’angoscia, la gioia e il conforto dell’essere umano. È questo il suo valore. Non credo ci sia nulla nella vita umana di comparabile a un rapporto d’amore».

È vero che si parla (e si scrive) troppo dell’inizio degli amori e poco della fine?
«Passiamo molto tempo a discutere di anatomia dell’innamoramento, delle unioni che funzionano e analizziamo poco la struttura dei cuori spezzati e l’ossessione che si sviluppa verso l’amor perduto. Ci piace il lieto fine e tendiamo a evitare la parte triste. Naturalmente la letteratura è piena di cantori della fine: Raymond Carver, Ferrante, Yates, Didion, Renata Adler e Moravia. Nel mio libro, la prima metà si concentra sull’innamoramento, la seconda sulla disgregazione. Tuttavia credo che dovremmo occuparci di più del lungo processo di guarigione: proprio questo segmento è il meno servito. Penso a quei giorni in cui ti alzi dal letto alle nove di sera solo per trovare qualcuno da portarci».

A proposito di ossessioni, qual è il ruolo delle tecnologie digitali nel discorso amoroso?
«Amo vedere come le persone giurano di smetterla con Facebook e poi ci tornano, e di nuovo “adesso basta”, e poi eccoli collegati. L’attacco di follia che porta a cancellare tutti i vecchi messaggi e le chat per poi piangere la loro perdita. E, una volta ri-innamorati, cominciare tutto daccapo. In realtà, non credo che la falsa memoria del digitale cambi davvero qualcosa: il significato della memoria dipende dal modo in cui ti relazioni ad essa. Non c’è dubbio che internet contribuisca all’infelice prolungamento del processo di lutto, all’insana, infinita ossessione verso l’amante che non c’è più. Sono un romanziere quindi credo nell’uso della memoria come strumento per capire il presente, per dargli un senso, come possibilità di crescita. Penso anche che il pentimento sia una cosa buona. Come dice Kierkegaard, la vita può essere compresa solo all’indietro ma guardando avanti. Passare il tempo a sviscerare le tracce digitali di una storia finita è utile quanto guardare l’album delle nozze disteso sul pavimento della propria camera da letto. Questo non significa che dovresti fare come la mia mamma, che ha bruciato tutte le fotografie del suo matrimonio (incluse quelle di noi figli!). Penso piuttosto che dobbiamo ancora trovare una strada ragionevole per integrare la nuova memoria digitale nella struttura più ampia del lutto, del pentimento e della rinascita».
«Corriere della sera» del 21 novembre 2015

15 novembre 2015

Gli attentati di Parigi e la Fallaci: «Scusaci Oriana, avevi ragione»

Il risarcimento postumo è online
di Pierluigi Battista
Aspra ma vera, violenta ma realista. Fallaci protagonista su Facebook e Twitter
Su Twitter, su Facebook, sui social network, dopo l’apocalisse di Parigi è tutto uno «scusaci Oriana». Anzi, tutto no. La parte opposta se la prende aspramente, rancorosamente, con «il delirio della Fallaci», con «l’odio fallaciano». Uno ha scritto, come in una disputa teologica, contro il «fallacianesimo». Ma insomma, da una parte e dall’altra fioriscono le citazioni di Oriana Fallaci. Si vede nel massacro di Parigi il frutto della «profezia di Oriana». Si citano brani interi de La rabbia e l’orgoglio, un libro che ha venduto un numero incalcolabile di copie, che ha intercettato un umore popolare, che ha dato voce a un sentimento diffuso. E oggi, dopo anni di dimenticanza e di marginalizzazione, lo «scusaci Oriana» sembra essere la ricompensa postuma, il risarcimento per una sordità, quasi a considerare Oriana Fallaci come una intrattabile estremista. Mentre ora si vede che le sue diagnosi non erano poi così insensate.
Un passo della Fallaci molto citato: «Intimiditi dalla paura di andar controcorrente cioè d’apparire razzisti, non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione». «Brava Oriana», «Scusaci Oriana», «Non ti hanno voluto ascoltare Oriana», si batte e si ribatte sui social network. E giù anche con gli improperi di Oriana Fallaci sull’Italia molle e arrendevole, «l’avamposto che si chiama Italia» come lo definiva beffardamente lei: «avamposto comodo strategicamente perché offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà». E sulla «coglioneria» s’alza la standing ovation dei fallaciani dell’ultimissima ora, o forse della prima perché compravano avidamente i suoi libri ma non avevano il palcoscenico di Internet sul quale esibirsi. E la profezia della Fallaci che viene rilanciata, e poi contestata, e poi brandita come un’arma della guerra culturale, e poi vituperata, e poi sventolata come una bandiera: «Ma presto si scateneranno. Molti italiani non ci credono ancora. Si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi».
E poi, la previsione più precisa, geograficamente circostanziata, in perfetta connessione con l’orrore che ha scosso la Francia: «Parigi è persa, qui l’odio per gli infedeli è sovrano e gli imam vogliono sovvertire le leggi laiche in favore della sharia». La Francia che non ha mai amato Oriana Fallaci. E bisognerebbe anche ricordare che in Francia la Fallaci, assieme a Michel Houellebecq molto prima che uscisse Sottomissione, fu messa sul banco degli accusati con l’imputazione, che assomiglia a una scomunica ideologica, di «islamofobia»: un’impostura intellettuale che diventa reato e che in Francia, nella Parigi che ieri è stata sconvolta dalla follia fanatica dei combattenti jihadisti, è diventata un’arma di ricatto per tacitare la «parola contraria», come direbbe Erri De Luca in un contesto peraltro completamente diverso. La Fallaci del dopo 11 settembre ha sempre diviso l’opinione pubblica: l’hanno amata e l’hanno odiata, hanno comprato milioni di suoi libri e l’hanno bollata come fanatica al contrario, come guerrafondaia scatenata, come una pericolosa incendiaria quando descriveva Firenze assediata e violentata dagli immigrati che orinavano sul sagrato del Duomo, con un’immagine aspra, violenta. Senza che nessuno si chiedesse: aspra ma vera? Violenta ma corrispondente alla realtà? Oggi, dopo il massacro di Parigi, quelle domande tornano di attualità e vengono assorbite e fagocitate da quel grande mostro onnivoro che è il mondo dei social network. «Scusaci Oriana» su Twitter. Neanche una «profezia» della Fallaci poteva arrivare a tanto.
«Corriere della Sera» del 15 novembre 2015

19 ottobre 2015

Erri De Luca assolto: meno male che è finita. La parola è libera ma non deve essere irresponsabile

Il commento
di Marco Imarisio
L’assoluzione rimette le cose nel loro ordine naturale
Meno male che è finita. Nell’unico modo possibile, se si analizzano le carte e non si cade nella logica delle opposte tifoserie. Erri De Luca, imputato di istigazione a delinquere dalla procura di Torino che per lui aveva richiesto 8 mesi di pena per via di due interviste del 2013 (quando in Val di Susa la tensione era alta) nelle quali lo scrittore napoletano faceva l’elogio del sabotaggio contra la linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione, altrimenti detta Tav, è stato assolto, al termine di un processo che mai si sarebbe dovuto fare.
Formula piena, il fatto non sussiste. L’eco della vicenda aveva da tempo superato i confini italiani. Intellettuali ed esponenti della società civile italiana e soprattutto francese avevano lanciato campagne di solidarietà con l’autore, che ha scritto anche un libro sul processo che lo riguarda.
Secondo De Luca e i suoi molti sostenitori, in gioco c’era la libertà di espressione cara a Voltaire. Per la procura di Torino si trattava invece di verificare se era stato commesso un reato a mezzo stampa, applicando un codice penale che non prevede deroghe, neppure per gli scrittori. L’assoluzione rimette le cose nel loro ordine naturale. L’aula del tribunale non era il luogo giusto per pesare le opinioni di uno scrittore. Tanto più che il nesso tra causa, le parole di De Luca, e l’effetto, atti di sabotaggio al Tav successivi alle sue dichiarazioni, era impossibile da dimostrare. Altra cosa è l’impunità assoluta rivendicata da De Luca in quanto scrittore. I nostri atti, e le nostre parole, di tutti, anche degli intellettuali, ci seguono. La parola è libera ma non deve essere irresponsabile. Vale per tutti. Anche per Erri De Luca.
«Corriere della sera» del 19 ottobre 2015

18 ottobre 2015

Se da queste foto cancelli lo smarpthone si vede la nostra solitudine

di Luca Mastrantonio
Cosa ci dice la fotografia dell’americano Eric Pickersgill che ritrae una coppia abbracciata ma con l’aria stranamente assente? Che si può stare insieme, intimamente, e restare soli. Alla saggista Sherry Turkle è servito un libro per dimostrare questa tesi (Insieme ma soli); a Pickersgill basta un clic per mostrarla in tutta la sua evidenza, come nella serie di foto Removed, in cui ha, appunto, rimosso gli smartphone da scene di vita quotidiana. Cade così la maschera sulla condizione esistenziale dell’uomo iper-connesso: la solitudine.

Gli sguardi fissi sugli schermi ci permettono di restare connessi a moltissime persone online, ma rischiano di farci perdere il contatto, visivo e non solo, con le persone attorno a noi, nei luoghi fisici, offline, che abitiamo. Situazioni comuni a tutti noi, vissute ogni giorno, in luoghi socializzanti. 
 
Come quel caffè dove Pickersgill (classe 1986, nato in Florida) vide una famiglia praticamente atomizzata dagli smartphone. Assurdo, pensò. Lì, racconta su www.removed.social, gli venne l’ispirazione per Removed. Foto in cui le persone osservano con grande concentrazione i propri palmi delle mani, quasi trattenessero l’ombra di qualcosa di importante, qualcosa che continuano a mettere a fuoco, ma non c’è (lo smartphone rimosso). Per ottenere questo effetto, allo stesso tempo naturalissimo e straniante, Pickersgill ha scattato le foto dopo aver tolto fisicamente i cellulari dalle mani dei proprietari, che restano con i palmi semichiusi, i pollici piegati; per renderne apprezzabile anche lo spazio mentale, psicologico, ha chiesto loro di mantenere intatta l’espressione del volto, oltre alla postura. Così l’assenza dello smartphone si acuisce, è visivamente tangibile e rende palese la sua tirannia nelle nostre vite.
Stiamo esagerando? Se ragioniamo per assurdo, no. Rimuovendo altri oggetti usati per compiere azioni comuni, il senso di questi gesti persiste: togliete le posate a un commensale, la chitarra a un chitarrista, l’auto a un automobilista; non sarà difficile capire che uno mangia, l’altro suona, l’altro guida. Se togliete invece lo smartphone a un utente, non si capisce cosa stia facendo; o, peggio, non si capisce perché sembri altrove rispetto a quello che fa. Senza gli smartphone, le persone appaiono occupate a leggere le linee della loro mano, come ipnotizzate dal niente. In un certo senso, queste foto sono i selfie della nostra solitudine.
«Corriere della sera» del 16 ottobre 2015

14 ottobre 2015

Il film per ragazzi senza la ragione

Il popolarissimo cartoon
di Antonio Polito
«Inside Out» racconta cosa passa nel cervello della preadolescente Riley. Ma manca il «generatore di equilibrio»
Se andate a vedere Inside Out (andateci con la scusa di portarci i bambini, ne uscirete migliori) fate attenzione a un dettaglio. Come è ormai arcinoto, il film è una rappresentazione fantastica, ma scientificamente fondata, di ciò che passa nella mente di una pre-adolescente di undici anni, il tumulto e il conflitto tra i sentimenti, l’incontrarsi e scontrarsi delle emozioni, rabbia paura disgusto tristezza gioia. Ciò che però manca, del tutto, è la ragione. La guerra degli istinti è l’unica cosa che accade nel cervello di Riley. I suoi comportamenti sono determinati in una cabina di regia nella quale non siede nessun regista. Dunque non ci chiediamo nemmeno se siano ragionevoli o irragionevoli. Sono l’esito di una partita senza arbitro nella quale, forse in ossequio alla giovane età della protagonista, la sola Gioia esercita una leadership sugli altri giocatori, così che se appena appena si distrae l’intero autocontrollo di Riley crolla.
Quel generatore di equilibrio - la ragione, la razionalità, la ragionevolezza - in cui ogni genitore confida per moderare lo strapotere e la violenza dei sentimenti in un ragazzo, e ogni giorno lavora sodo per trasferirgliene i rudimenti appresi con l’esperienza di vita, qui non c’è. Dicono che il film conosce e rispetta le ultime scoperte della neurobiologia, e che le cose stiano davvero più o meno così nel nostro cervello. Ma se stanno così, a che pro tutto lo sforzo dell’educazione, del buon esempio, del trasferimento di valori tra le generazioni, se non c’è una ragione cui appellarsi? (E infatti, nel film, i genitori non possono più o meno niente, se non amare, se non irritare).
Per fortuna gli istinti di Riley, a loro volta mossi dall’istinto di sopravvivenza, si moderano a vicenda. Si potrebbe perfino dire, anche se il film non lo dice, che la ragionevolezza sia il frutto del compromesso che alla fine si stabilisce tra Gioia e Tristezza, quando Gioia capisce che anche un po’ di Tristezza è necessaria nella vita, se si vuole crescere. I ricordi della ragazza, prima giallo oro se fatti di Gioia, o blu se fatti di Tristezza, diventano così di un colore misto, tra il giallo e il blu. La ragione non è dunque altro che un effetto cromatico, come quando si mescolano i colori base su una tavolozza. Ma è un processo spontaneo, e casuale. Verrebbe da dire: irrazionale.
Oltre alla ragione, a essere pignoli, si potrebbe aggiungere un altro grande assente nella mente di Riley: il libero arbitrio. Non c’è infatti mai un momento in cui la nostra eroina sia chiamata a prendere una decisione, a scegliere tra diverse opzioni. Sono sempre gli istinti che la dirigono, in fuga da casa e poi di ritorno a casa, all’indietro verso un passato nostalgico e rassicurante da bambina o in avanti verso un futuro da adolescente che la turba per la sua imprevedibilità. Riley vive in un universo morale in cui non c’è spazio per la responsabilità individuale, e di fatto non c’è libertà; dunque non ci può essere colpa o peccato, ma neanche si intravede una persona, che non sia solo biologia. È forse il primo carattere nella storia del cinema senza un carattere . Il film è bellissimo, e, come vedete, fa riflettere. Ma è un segno dei tempi che nessuno abbia lamentato la scomparsa di quei due attori, la ragione e il libero arbitrio, che appena una generazione fa consideravamo indispensabili per l’edificazione di una vita adulta.
«Corriere della sera» del 4 ottobre 2015

13 ottobre 2015

I tormenti della Sinistra quando l’Italia fa la guerra

regole d’ingaggio
di Pierluigi Battista
Moltissimi «se» e un mare di «ma» sono sempre stati la cifra nella Seconda Repubblica nei confronti della partecipazione alle cosiddette «missioni di pace» o «peacekeeping»
«Senza se e senza ma», si usava dire con espressione che voleva alludere a una ferrea volontà di coerenza. Tuttavia, moltissimi «se» e un mare di «ma» sono sempre stati la cifra, il modello di comportamento della sinistra nella Seconda Repubblica nei confronti della nostra partecipazione alle guerre, anzi, pudicamente, «missioni di pace», o «peacekeeping» per stare nei consessi internazionali. Per colpa delle «regole di ingaggio», per esempio, il governo Prodi rischiava ogni volta di smottare e venir giù. Ci si impratichì con termini come «caveat», che poi sarebbero i codicilli che avrebbero dovuto regolare le modalità di azione o non-azione delle nostre truppe in Afghanistan, per la formulazione dei quali c’era sempre un senatore della sinistra «radicale», Turigliatto in primis, disposto a far cadere il governo. Bisognava starci, ma in modo limitato, circoscritto, con «regole d’ingaggio» rigidissime. Come sta avvenendo in questi giorni. Nella comunità internazionale, ma pur sempre con distinguo, codicilli, caveat di impossibile oltrepassamento. In Iraq, ma non in Siria, anche se l’Isis sta sia in Siria che in Iraq. E con la sinistra «radicale», o chi ne fa le veci come Beppe Grillo in questa occasione, a gridare contro la «subalternità» del governo italiano ai dettami della Nato.
C’è sempre un contorcimento, una precisazione una condizione nel rapporto tra la sinistra e la guerra guerreggiata. Quando è un no secco, come nell’Iraq del 2003, allora è un no secco. Ma il no non diventa mai un sì squillante, piuttosto sempre un nì. Come nella guerra del Kosovo. Il governo D’Alema, con l’appoggio dei ribaltonisti che attraverso Francesco Cossiga trasmigrarono dalla destra all’Ulivo, era ovviamente favorevole alla guerra contro Milosevic. Non la chiamavano guerra, la chiamavano «ingerenza umanitaria», ma comunque ci stavano. Ma mai del tutto, sempre tenendo un piede sull’uscio. D’accordo con il sostegno delle basi in Italia da dove sarebbero partiti i raid destinati a colpire Belgrado. Ma senza partecipare direttamente ai raid. Poi, ogni volta che i raid colpivano duro, subito arrivava dall’Italia la proposta di un rapido cessate il fuoco. Eravamo a pieno titolo nella guerra, ma non potevamo dirlo. Una sinistra che citava la sacralità della Costituzione a ogni passo non se la sentiva di sfidare troppo la lettera dell’articolo 11 della Carta Costituzionale, quello che ripudiava la guerra come soluzione dei conflitti. Nella guerra, ma con tanti se e tanti ma.
La sinistra italiana e la guerra si erano già fronteggiate nel 1991, quando la Nato decise di scatenare la guerra del Golfo per punire Saddam Hussein, reo di aver invaso il Kuwait nell’agosto del 1990. Era in corso la trasformazione del Pci in Pds e l’atto primo del partito di Occhetto non poteva essere il sì a una guerra che avrebbe dovuto garantire il nuovo «ordine internazionale» scaturito dalla caduta di Berlino e dalla fine della guerra fredda per estinzione dell’Urss, uno dei due contendenti. Ma una parte della sinistra, quella di matrice socialista, ma anche quella di Vittorio Foa, vedeva in quel conflitto baciato dall’Onu addirittura una riedizione della guerra civile spagnola con le sue Brigate internazionali chiamate a colpire il nuovo tiranno Saddam Hussein. Poi, dopo tanti anni, e dopo l’attacco dell’11 settembre alle Torri Gemelle, rinasce la questione con la spedizione di truppe italiane a Kabul. All’inizio, sull’onda emotiva di quell’attentato storico, la vista delle torri che crollavano, il cuore dell’Occidente colpito a morte, la sinistra non se la sentì di mettere ostacoli. Sottolineava che quella guerra doveva essere condotta nel nome del venerato «multilateralismo», che doveva essere certificata e vidimata come un’iniziativa «sotto l’egida dell’Onu», ma insomma le distinzioni non potevano superare una certa soglia pena l’accusa di fare ostruzionismo in un’emergenza tanto drammatica del mondo in cui l’obiettivo numero uno era la sconfitta dei talebani e di Osama Bin Laden. Ma negli anni successivi la guerra dei caveat rimpiazzò quella della guerra vera: e ogni volta i finanziamenti della missione italiana diventavano la scintilla di uno psicodramma. Sempre dentro, ma anche un po’ fuori. In Iraq, ma non in Siria. Mille se e mille ma.
«Corriere della sera» dell'8 ottobre 2015

12 ottobre 2015

Ecco quello che (ci) manca nel dialogo con l'islam

Le basi di un necessario confronto fra culture sui diritti
di Giusto Sciacchitano *
I recenti fatti terroristici compiuti in Europa, in Africa, in Asia, sia contro musulmani che contro cristiani, hanno fatto emergere sempre di più l’esigenza che oltre a combattere il terrorismo oggi rappresentato dall’Is, occorre sviluppare un dialogo con l’islam, senza il quale la stessa lotta al terrorismo di matrice islamica risulta inefficace. La questione che, però, è altrettanto impellente riguarda il contenuto di questo dialogo: di cosa possiamo e dobbiamo parlare noi occidentali e l’islam, perché il dialogo possa essere veramente concreto e produttivo per entrambi?
Subito dopo i fatti di Parigi, tutte le Autorità nazionali e internazionali hanno sottolineato la necessità di assicurare maggiore sicurezza ai propri cittadini e finanziare maggiori investimenti per realizzare un più soddisfacente inserimento degli immigrati nei nostri Paesi; dopo Tunisi e dopo Il Cairo abbiamo, con convinzione, assicurato quei Paesi che saremo con loro nella lotta al terrorismo, con ciò stesso dichiarando di volere approfondire il dialogo per superare e vincere la spirale terroristica. Tutte queste dichiarazioni e i provvedimenti adottati sono assolutamente giusti e necessari, e tra questi indico anche le recenti norme italiane sul contrasto al terrorismo islamico con l’attribuzione alla Direzione nazionale antimafia della funzione di coordinamento nelle indagini in questa materia. Credo però che non siano sufficienti, anche se il tema che qui si intende trattare - la necessità del dialogo con l’islam - richiede tempi lunghi e preparazione culturale.
La scrittrice libanese Etel Adnan, citata dal 'Corriere della Sera' in un articolo di Roberta Scorranese del 18 gennaio 2015, ha ricordato a questo proposito che lo sguardo dell’Occidente è troppo impegnato nell’economia e nelle questioni militari per prendersi il tempo di capire davvero il retroterra storico e culturale del Vicino Oriente: è come se la cultura occidentale fosse arrivata a un tal punto di completezza da pensare che altri universi siano inutili. Forse è veramente così; e se è così, è una concezione errata. Credo poi che la concezione del mondo musulmano non sia molto diversa, e in questa visione simmetrica e opposta sta la difficoltà del dialogo. La completezza della cultura occidentale, cui la Adnan fa riferimento, è certamente quella che proviene dal mondo greco-romano e dal cristianesimo, dalla filosofia del secolo dei Lumi che ha operato la netta distinzione tra Trono e Altare, tra mondo civile e mondo religioso e ha prodotto nel tempo l’affermazione dei Diritti Umani quali valori universali. Noi, e in generale l’Occidente, in nome di questi Diritti, abbiamo ritenuto che la nostra cultura fosse in grado di assimilare facilmente altre culture: nei nostri Paesi è stata esperienza comune la convivenza con popolazioni di varie etnie, religioni, sistemi giuridici e sociali diversi: noi l’abbiamo chiamata multiculturalismo e abbiamo ritenuto che questa convivenza potesse facilmente essere pacifica.
Eppure è stato Benedetto XVI che dopo avere osservato che nel mondo si confrontano tradizioni culturali e antropologiche del tutto diverse da quelle che qualifichiamo come occidentali, ha rilevato che il fenomeno chiamato interculturalismo sembra, in vaste proporzioni, mettere in discussione la razionalità occidentale che si può riflettere nella stessa rivendicazione universalista della nostra cultura . (Cartabia Simoncini. 'La Legge di Re Salomone'. Discorsi di Benedetto XVI). Queste affermazioni meritano una riflessione maggiore di quella che finora vi è stata. I fatti di Londra e di Parigi, dove persone di seconda o terza generazione hanno compiuto gravissime stragi, ci dicono chiaramente che il modello di vita loro proposto era stato rigettato, naturalmente con metodi del tutto inaccettabili alla luce della nostra cultura. Le stragi in Siria e Iraq, ma anche in Nigeria e Tunisia, ci dicono che quei Diritti Umani che noi riteniamo universali, realisticamente tali non sono. Non lo sono, soprattutto, perché i princìpi occidentali non sono visti, da molta parte di quelle popolazioni, come frutto di una loro scelta razionale.
In occasione di una visita in Nigeria, organizzata dalle Nazioni Unite e diretta a illustrare i princìpi della Convenzione dell’Onu del 2000 contro la criminalità organizzata transnazionale, che comprende la lotta alla tratta degli esseri umani e al traffico di clandestini, ci sentimmo chiarire da un delegato di quel Paese che i princìpi della Convenzione non rispondevano alle loro tradizioni e potevano essere considerati come una nuova forma di colonialismo culturale. Criminalità organizzata, terrorismo, economia sono le tre sfide globali che si stanno presentando contemporaneamente e oggi si presentano a noi come inestricabilmente intrecciate. Il dialogo con l’islam, ampio e concreto, è pertanto essenziale per le due parti. Ma è nel modo di proporre un suo modello di vita che forse l’Occidente non sa più comprendere la base della cultura islamica, che è impregnata del sentimento religioso.
In un incontro organizzato a Siracusa nel novembre 2014 dall’Istituto superiore internazionale di Scienze criminali (Isisc), giuristi italiani e iraniani si sono confrontati sul tema dei Diritti Umani nel campo penale; questo incontro - il primo tra i due Paesi - è servito per conoscere i princìpi cardine su cui si fondano i due sistemi e gettare le basi per un più profondo dialogo; ha avuto pertanto una grande importanza sul piano politico, giuridico, culturale.
L’Iran è uno Stato teocratico che si fonda unicamente sulla legge coranica, la quale non distingue tra potere religioso e potere civile; il giudice per esercitare bene la sua funzione deve essere anche un teologo; il teologo indicherà al legislatore quali norme varare perché il cittadino rimanga nella retta via. Tutta la vita del cittadino negli Stati a prevalente cultura islamica è pertanto segnata dalla religiosità dei cittadini musulmani e ogni singola attività, dalla più rilevante socialmente alla più insignificante e quotidiana, è scandita dal Corano o dagli insegnamenti del Profeta. La politica della sharia, è stato più volte ribadito nell’incontro, è essenzialmente una politica volta a promuovere la 'riconciliazione' della società, che si basa sulla conoscenza e la consapevolezza e non sull’ignoranza, e tutti gli uomini sono invitati a conoscersi e preparare il terreno per la reciproca comprensione.
Questi valori sono stati certamente il motivo per cui quell’incontro fra
giuristi verteva sui Diritti Umani in materia penale, anche se il presidente dell’Isisc ha comunque osservato che alcune riflessioni contenute nelle relazioni degli iraniani sciiti, non sono tutte condivise nelle scuole sunnite, e se va comunque ricordato che l’Iran non ha ratificato la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo perché ritenuta non del tutto compatibile con la sharia. Se la semplice affermazione dei princìpi dello Stato nella visione islamica fa risaltare la grande differenza che lo separa dalla Stato di diritto occidentale, tuttavia quell’incontro è stato importante per cominciare a comprendere cosa manca nell’approccio occidentale al mondo islamico. Il dialogo finora sviluppato ha evidentemente trattato materie importanti nelle relazioni tra Stati, ma non ha toccato la profondità della cultura islamica, impregnata di senso religioso. E forse non poteva che essere così.
Nel mondo occidentale (che i musulmani indicano genericamente come mondo cristiano) le autorità civili trattano le materie che sono proprie del mondo civile (quelle in fondo ricordate da Etel Adnan) e non quelle del mondo religioso; lasciano quindi ad altre Istituzioni (per esempio, la Chiesa) il dialogo su questi temi. In questo modo però il dialogo (dal punto di vista musulmano) non è mai completo, è sempre monco. La cultura e la politica occidentali dovrebbero essere consapevoli che se si limitano a guardare a sicurezza e aspetti economici, rispetto all’universo islamico rimarranno sempre questa separatezza e una diversa valenza dei valori.
Naturalmente un’apertura deve esserci anche da parte del mondo islamico, non essendo più sufficiente la sola condanna degli atti terroristici compiuti sia in danno dei cristiani che dei musulmani. Il dialogo, certamente non facile e contrassegnato da notevoli e storiche contrapposizioni, che spetta alla cultura occidentale laica e a quella musulmana più avveduta, dovrebbe quindi essere sviluppato attorno a temi che veramente interessino e includano il 'sentire' islamico e facciano emergere l’esigenza di archiviare la violenza stragista. È questo il 'contenuto' che oggi sembra mancare. La nostra cultura dovrebbe affrontare il dialogo con l’islam - anche in chiave antiterroristica sviluppando insieme il concetto per cui altri universi non sono inutili; il Sacro di qualunque Religione deve essere rispettato: il Corano come il Vangelo.
Nelle nostre librerie è facile trovare il Libro sacro dell’islam, non il contrario. Mi ha perciò molto colpito un grande passo compiuto in Iran dalla Università delle Religioni e delle Confessioni, che si trova nella città santa sciita di Qom, la quale nell’ambito di uno studio su altre religioni, ha completato recentemente un progetto ardito e molto significativo, ossia la traduzione in lingua farsi dell’intero Catechismo cattolico. Il progetto è stato realizzato in accordo con la Nunziatura di Teheran. È fortemente auspicabile che questi passi continuino e si giunga a norme legislative che realizzino, anche in questa materia, la più ampia applicazione dei Diritti Umani. I passi reciproci debbono convergere sulla necessità della convivenza dei popoli pur appartenenti a sistemi giuridici e sociali diversi e a religioni diverse, escludendo la percezione che i valori professati da ciascuna delle due parti possano sembrare imposti all’altra come nuova forma di colonialismo culturale.
* Procuratore nazionale Antimafia Aggiunto
«Avvenire» del 7 ottobre 2015

11 ottobre 2015

Perché è importante l'alt europeo agli imperi digitali

Primo freno UE al saccheggio dei dati
di Gigio Rancilio
L'ultima sentenza della Corte di Giustizia europea – quella che ieri ha stabilito che gli Usa non garantiscono un livello di protezione adeguato dei dati personali raccolti via web – non riguarda solo avvocati, professori e appassionati di tecnologie. Riguarda tutti noi. Ci riguarda come utenti di Internet, come cittadini italiani ed europei. Riguarda, in parte, anche il nostro futuro economico e tecnologico, e il rapporto – anche commerciale – tra Europa e Stati Uniti. Qualcosa di ben più complesso, quindi, di una battaglia contro Facebook o della partita di un giovane avvocato austriaco che con la sua denuncia ha deciso di sfidare uno dei colossi del web, mettendo in moto tutto questo.
In questi anni, infatti, l’America di Facebook, Google, Twitter e Apple è diventata il centro del mondo digitale. Il crocevia dei dati mondiali raccolti ogni secondo su web e social. Miliardi di informazioni personali su ognuno di noi che rappresentano la vera ricchezza di molti di questi giganti della tecnologia. I dati degli utenti europei vengono però conservati su computer (i cosiddetti server) posti fisicamente in Irlanda, e ogni giorno trasferiti in America per trattarli in maniera globale. Lo scandalo Datagate, con tutti i suoi annessi e connessi, ha messo sotto gli occhi del mondo le falle del sistema americano, relativo alla sicurezza e al trattamento dei dati personali degli utenti. Da qui la sentenza della Corte di Giustizia europea che annulla quanto sostenuto nel 2000 dalla Commissione europea, rimettendo al centro dell’agenda degli Stati Uniti – come ha ricordato il Garante italiano della privacy, Antonello Soro – «il tema dei diritti fondamentali delle persone e la necessità che questi diritti, primo fra tutti la protezione dei dati, vengano tutelati anche nei confronti di chi li usa al di fuori dei confini europei».
Che una sentenza obblighi gli Stati a tutelare maggiormente la privacy dei cittadini è sempre una buona notizia. Perché troppo spesso noi sottovalutiamo il problema o perché ci sentiamo impotenti davanti ai colossi che minano la nostra privacy, oppure perché crediamo di non avere niente da temere. Uno dei rischi derivanti semmai da questa sentenza è che l’Europa non riesca a dare vita a una politica comune di protezione dei dati digitali e che ognuno dei Paesi europei faccia di testa sua, mettendo in difficoltà tutti gli altri. Una vera incognita è, poi, rappresentata da ciò che faranno gli Stati Uniti, la cui ricchezza tecnologica dipende in larga parte anche dai dati digitali posseduti dalle sue aziende.
Perché qui non si tratta di spostare fisicamente un computer (migliaia di computer) da una nazione a un’altra per aggirare la sentenza. La fretta con la quale Facebook e tutti gli altri colossi web chiedono norme chiare riguarda la paura di perdere il controllo (e i soldi, molti soldi) sulla gigantesca raccolta di dati che fanno ogni giorno. E di doversi sottoporre a regole sempre più severe decise da nazioni che hanno a cuore più di altre la privacy dei cittadini.
Sarà fantascienza, ma provate a immaginare cosa succederebbe se l’Europa vietasse a Google, Facebook, Twitter e a tutte le altre aziende che controllano la Rete di usare a fini commerciali i nostri dati che consciamente e (troppo spesso) inconsciamente lasciamo ogni giorno sul web. Nell’attuale impero digitale, retto da una potentissima oligarchia, ci sarebbe una rivoluzione con conseguenze serie e persino inimmaginabili. Perché in Rete i veri soldi sono i dati. Tolti quelli, molti giganti non sarebbero più tali. E gli Stati Uniti d’America, che non sono già più l’unica e incontrastata potenza globale, non sarebbero più nemmeno il centro del mondo digitale.
«Avvenire» del 7 ottobre 2015

10 ottobre 2015

Il difficile rapporto con l’Islam

Religione e paletti
di Ernesto Galli della Loggia
Due grandi fenomeni storici stanno svolgendosi sotto i nostri occhi nel Medio Oriente, alle nostre porte di casa (di noi europei e italiani in particolare). Da un lato la disintegrazione di fatto dell’intero sistema di Stati nato dopo la Prima guerra mondiale sulle rovine dell’Impero ottomano, dunque la ridefinizione di interessi, alleanze, rivalità, con la conseguente caduta di gran parte delle élite e dei movimenti alla loro guida da decenni, spesso legate in un modo o nell’altro ai Paesi europei (anche l’Unione Sovietica da questo punto di vista lo era). Dall’altro lato assistiamo all’affermarsi di una versione ultraradicale e quanto mai aggressiva della «umma» musulmana, della «comunità dei fedeli» che pretende di non conoscere confini e regole che non siano quelli della religione.
Da entrambi questi fenomeni siamo presi come tra due fuochi: in una condizione d’incertezza non solo politica, resa più inquietante dal fatto che ormai milioni di immigrati musulmani sono tra noi, popolano l’Italia e l’Europa. Fuori e dentro i nostri confini, insomma, ci troviamo di fronte al gigantesco problema di un nuovo rapporto con l’Islam. Come risolvere i suoi mille aspetti non lo sappiamo. Preliminarmente però a ogni possibile ricerca di soluzione dovremmo almeno fissare dei punti-chiave, una sorta di paletti concettuali, entro i quali non solo la discussione pubblica in questo campo, ma anche gli atteggiamenti concreti che ne derivano dovrebbero cercare di restare.
Mi sembrano fondamentali almeno i cinque seguenti.
1) Va innanzitutto limitato al massimo l’uso del termine polemico «islamofobia». Criticare la religione islamica, i suoi testi, le sue prescrizioni, mostrarne le contraddizioni e i risultati negativi nei suoi insediamenti storici (per esempio verso le donne), deve essere sempre lecito. Dovrebbe essere stigmatizzato come «islamofobia» solo l’atteggiamento aggressivo, discriminatorio o violento, verso le persone di religione musulmana a causa della loro fede.
2) Va poi recisamente confutata l’affermazione di uso corrente secondo la quale «tutte le religioni monoteiste sono fondamentalmente eguali». Non è vero. L’eguaglianza davanti a Dio di tutti gli essere umani indipendentemente dal proprio sesso, la titolarità da parte di ognuno di loro di certi diritti «naturali», il rapporto riguardo alla propria specifica tradizione dottrinale e all’interpretazione dei testi sacri, l’atteggiamento nei confronti della violenza e della guerra, la presenza o no di un clero organizzato stabilmente in un organismo gerarchico, sono solo alcuni dei principali ambiti di radicali differenze tra le varie religioni monoteiste. Che a loro volta producono, com’è ovvio, una fortissima diversità tra di esse nella costruzione della soggettività, del legame sociale, nonché del modo di stare con gli altri e nel mondo.
3) Ancora: i reciproci torti storici (ammesso che una simile espressione abbia un senso) tra mondo islamico e mondo cristiano come minimo si equivalgono. L’Islam attuale, infatti, si stende su un territorio in grandissima parte originariamente non suo né arabo, conquistato grazie a un paio di secoli di guerre che tra l’altro portarono, oltre che alla lunga occupazione della Sicilia e di due terzi della penisola iberica, all’occupazione militare da parte musulmana dei cosiddetti Luoghi Santi (le Crociate furono un fallimentare tentativo di risposta precisamente a tale occupazione), nonché alla virtuale cancellazione della presenza cristiana fino allora maggioritaria specialmente nel Nord Africa. Anche la cancellazione dall’Anatolia e dintorni dell’impero cristiano di Bisanzio, da parte degli ottomani, non avvenne proprio con mezzi pacifici.
D’altro canto la conquista coloniale di parti dell’Islam compiuta da alcune potenze europee a partire dal ‘700 e durata fino alla metà del ‘900 appare più o meno «equivalente» - se proprio dobbiamo ragionare in questi termini alquanto ridicoli - all’occupazione per secoli dell’Europa balcanica da parte dell’Islam. In conclusione non sembra proprio, se i fatti contano qualcosa, che storicamente gli occidentali e l’Europa abbiano qualcosa da farsi perdonare dal mondo islamico.
4) Per convalidare l’effettiva «moderazione» dell’Islam che si dice tale non dovrebbe bastare la sua astensione dalla violenza. Dovrebbe anche essere considerata necessaria l’aperta condanna da parte sua dei propri correligionari quando questi, invece, ne fanno uso.
5) Infine, il dialogo interreligioso, se non vuole essere inutile apparenza, se per l’appunto vuole essere un dialogo e non un monologo, non può fare a meno di prevedere che ad ogni sua manifestazione pubblica «da noi» ne corrisponda una analoga pubblica (sottolineo pubblica) «da loro». Solo una simile pratica può contribuire a instaurare un costume di autentica, reciproca tolleranza. Continuerà altrimenti a sussistere sempre la situazione attuale che nel complesso vede il tasso di tolleranza delle società islamiche nei confronti dei cristiani e della loro cultura enormemente inferiore a quello delle società cristiane verso i musulmani.
Mentre i punti chiave appena indicati, se non mi sbaglio, sono largamente condivisi dall’opinione pubblica, temo che invece essi siano disattesi, e anzi guardati con sospetto, dalle élite politiche e intellettuali che guidano le nostre società: affezionate ancora oggi, specie nei rapporti internazionali, a un’ideologia buonista, a una voglia di illudersi e di chiudere gli occhi di fronte alla realtà, che finora non hanno mai portato a nulla di buono. E destinate, è certo, a portarne ancora meno in futuro.
«Corriere della sera» del 7 ottobre 2015

C'è del marcio nella grandeur britannica

J'accuse
di Roberto Festorazzi
A metà dell’Ottocento, il socialista e 'cartista' inglese Ernest Jones replicò alla vanteria secondo la quale sull’Impero di Sua Maestà il sole non tramontava mai, con la battuta scudisciante che in quella superficie sterminata di domini e possedimenti pure il sangue non asciugava mai. L’elenco dei crimini compiuti dai colonialisti britannici, nell’arco di quattro secoli, è impressionante: si va dalla tratta degli schiavi alla repressione delle sollevazioni dei repubblicani irlandesi, dalle tre guerre dell’oppio cinesi al soffocamento delle insorgenze indiane. Sarebbe in ogni caso sbagliato pensare che la morsa di ferro degli inglesi abbia allentato la presa all’avvicinarsi della decolonizzazione: al contrario, alcuni degli episodi più efferati della dominazione britannica si sono svolti, per così dire, fuori tempo massimo, tanto che si può parlare di un vero e proprio colpo di coda dell’imperialismo targato 'Union Jack'.
Ce ne offre un esempio illuminante lo storico marxista inglese John Newsinger, il cui Libro nero del colonialismo britannico viene ora proposto in edizione italiana (21 Editore, pagine 390, 15,00 euro). L’autore mostra anzitutto come anche il Regno Unito abbia i suoi 'armadi della vergogna'. Soltanto in anni recenti, infatti, in occasione della causa intentata contro il governo di Londra da quattro kenioti vittime di orrende torture negli anni Cinquanta del secolo scorso, dal sancta sanctorum degli archivi coloniali di Hanslope Park, nel sudest dell’Inghilterra, è emersa un’intera, imbarazzante collezione di carte 'smarrite': 294 scatoloni contenenti 1.500 fascicoli riguardanti le atrocità compiute in Kenya sulle etnie ribelli, in particolare i Kikuyu. È la pagina di tenebra della rivolta dei Mau Mau, che provocò, entro la fine del 1954, lo sradicamento della popolazione in maggioranza Kikuyu dai distretti ove era insediata, e l’internamento di 77.000 persone.
Per stroncare la guerriglia dei Mau Mau, il governo britannico ricorse a misure spietate. Risultato, 1.090 ribelli impiccati e altri 11.503 uccisi nel corso di scontri, per non parlare dell’endemico ricorso alla tortura. Tanto che Newsinger arriva a chiedersi «come sia stato possibile che governi inglesi guidati da figure rispettabili quali Winston Churchill, Anthony Eden e Harold Macmillan siano stati in grado di gestire lo scandalo senza che l’opinione pubblica chiedesse spiegazioni». La risposta a questa domanda retorica giunge appena poche righe dopo: «Il ministro delle colonie Alan Lennox-Boyd, negli anni Trenta simpatizzante dei fascisti, dopo il suo ritiro ammise con franchezza di essersi lui stesso impegnato attivamente in «operazioni di insabbiamento a favore delle forze di sicurezza».
Altre pagine ignominiose sono quelle riguardanti la gestione 'terroristica' delle carestie che colpirono vari territori sottoposti al dominio inglese. L’ultima, in ordine di tempo, fu quella che s’abbatté sul Bengala, nel 1943-44, provocando la morte per fame di 3,5 milioni di uomini, donne e bambini. Churchill fu inflessibile nell’impedire che scorte di granaglie destinate alla Madrepatria, e provenienti da altre zone dell’Impero, fossero dirottate per soccorrere le masse indiane. A un suo fedele sostenitore, dentro il Partito conservatore, come Leo Amery, non celerà il suo disprezzo razzistico per i poveri sudditi della regione asiatica: «Io gli indiani li odio. Sono un popolo di bestie, con una religione da bestie». Non era andata molto diversamente, un secolo prima, con la spaventosa carestia che ferì l’Irlanda, a causa di un fungo infestante che distrusse i raccolti di patate. I tuberi costituivano la principale fonte di sostentamento per la popolazione dell’isola, che venne falcidiata dalla denutrizione.
I governanti di Londra, asserragliati nelle gabbie mentali del loro liberismo darwiniano, non mossero un dito per aiutare gli irlandesi. Risultato: un milione di morti e un altro milione costretto, per sopravvivere, a emigrare al di là dell’Atlantico. Un altro, grande peccato storico che grava sulla coscienza della nazione britannica è quello riguardante la tratta degli schiavi. L’autore quantifica in almeno 3 milioni la cifra complessiva dei neri trasportati su navi inglesi, dall’Africa alle Americhe, dal 1690 fino all’abolizione della schiavitù, nel 1807.
Newsinger è polemico verso la corposa tendenza culturale, in atto oggi in Gran Bretagna, che punta alla rivalutazione del passato coloniale come veicolo di civilizzazione. Un’atmosfera da revival che ha contagiato anche l’attuale premier conservatore, David Cameron, secondo il quale è giunta «l’ora di smettere di scusarsi». Una posizione poco giustificabile, perché sarebbe invece arrivato il momento di fare i conti con una sanguinosa eredità di sangue che ha ipotecato lo stesso percorso della decolonizzazione, con esiti ben visibili ai giorni nostri. Del resto è un fatto che, complice il silenzio del circuito mediatico inglese, molta parte dei sudditi di Sua Maestà ignori completamente l’ecatombe provocata dalla carestia del Bengala. Una strage rimossa che meriterebbe il nome di genocidio.
«Avvenire» del 3 ottobre 2015

09 ottobre 2015

Caro Hawking, il Big Bang non esclude Dio

Dibattiti
di Sergio Givone
Dice ancora qualcosa il nome di Dio agli uomini di oggi? Secondo Nietzsche, poco o nulla. Lo stesso annuncio che «Dio è morto» è destinato a cadere nel vuoto. Magari tutti ripetono la frase a proposito di questo o di quello. Ma come se fosse un’ovvietà, una cosa scontata, di cui prendere atto per poi archiviarla senza farsi troppi problemi [...].
Che morte di Dio appaia come un evento che è ormai alle nostre spalle e che ci lascia sostanzialmente indifferenti non è ateismo. È nichilismo. L’ateismo a suo modo tiene ferma l’idea di Dio [...], vede in Dio il nemico dell’uomo. Perciò gli muove guerra. Per il nichilismo niente di tutto ciò. Quella di Dio è una grande idea. Talmente alta e nobile che, come afferma quel perfetto nichilista che è Ivan Karamazov, c’è da stupire che sia venuta in mente a un “animale selvaggio” come l’uomo. Però destinata a dissolversi come rugiada al sole sotto i raggi spietati della scienza.
Rimasto senza Dio, l’uomo deve fare i conti con la realtà. Deve imparare a vivere sotto un cielo da cui non può più venirgli alcun soccorso né consolazione. Quindi, deve riappropriarsi della sua vita terrena e soltanto terrena. Con quanto di buono e prezioso la terra ha da offrire una volta che Dio è uscito di scena. Ma siccome non c’è nulla di buono e prezioso se non in forza dei nostri stessi limiti, diciamo pure in forza del nostro destino di morte (infatti come potremmo amarci gli uni gli altri se fossimo immortali?), sia lode al nulla! Questo dice il nichilismo.
Ma anche più importante di quel che il nichilismo dice, è quel che il nichilismo non dice. Per realizzare il suo progetto di riconciliazione con la mortalità e la finitezza, il nichilismo deve tacere su un punto decisivo: lo scandalo dal male. Precisamente lo scandalo che l’ateismo aveva fatto valere contro Dio, in questo dimostrandosi consapevole del fatto che il male sta e cade con Dio. È di fronte a Dio che il male appare scandaloso. Cancellato del tutto Dio, persino come idea, il male continua a far male, ma rientra nell’ordine naturale delle cose. Ed ecco la parola d’ordine del nichilismo: tranquilli, non è il caso di far tragedie [...].
Spostiamo ora la nostra attenzione su un altro piano.
Dove in questione sono scienza e religione. Affermando, come gli è accaduto recentemente, che una “teoria unificata dell’universo” è ormai a portata di mano, Stephen Hawking ha riproposto quello che per Einstein era un sogno irrealizzabile, ossia la riunificazione in un solo campo delle forze dell’infinitamente piccolo (forza nucleare e radioattività) e delle forze dell’infinitamente grande (elettromagnetismo e gravità). Lasciamo stare se Hawking abbia ragione o pecchi di ottimismo. Chiediamoci piuttosto da dove Hawking tragga l’idea che fa da corollario alla sua affermazione: quella per cui tale teoria metterebbe Dio definitivamente fuori gioco. E dire che proprio Hawking solo qualche anno fa ne aveva ammesso la possibilità. Lo stesso vale per Einstein. Per non parlare di Cantor, la cui teoria degli insiemi prospetta gli infiniti (al plurale) l’uno dentro l’altro, come in un gioco di scatole cinesi, ed evoca Dio come infinito degli infiniti (ma anche come ultimo orizzonte in cui la ragione fa naufragio). Sia come sia il problema Dio appariva aperto e invece ora non più. Se non risolto, accantonato su base fisicomatematica prima ancora che su altra base (ad esempio etica).
In altri termini, quel che viene sostenuto da Hawking è che di Dio non c’è alcun bisogno per spiegare il passaggio dallo stato assolutamente inerziale dell’inizio al Big Bang. Nulla infatti vieta di pensare che lo stato iniziale contenga già, prima della sua esplosione – e dunque in un tempo solo immaginario e non ancora reale –, tutte le informazioni necessarie a produrre l’esplosione stessa. Se il successivo processo entropico viene fatto regredire fino al grado zero, dove l’entropia è nulla ma le informazioni ci sono e contengono nel tempo immaginario la totalità delle cose che poi si svilupperanno nel tempo reale, è come se ci fosse dato di giungere al limite estremo dell’universo (per non dire dell’essere) e poi fare ancora un passo. Un passo a nord del Polo Nord, per usare la paradossale metafora di Hawking.
Che cos’è questo? Un salto nel nulla? Un tentativo di costruire, nel cuore stesso del nulla, una postazione da cui osservare il prodursi della realtà, il suo venire alla luce, il suo offrirsi a uno sguardo capace di descriverne perfettamente la manifestazione? Certo è un salto nel grado zero della realtà. Diciamo pure: un salto nello zero. E allora perché stupirsi? Lo zero è un numero. Ma un numero straordinario. Simboleggia ciò che sta prima dell’uno, ma al tempo stesso contiene l’uno, se è vero che zero elevato a potenza zero dà uno. Contiene non solo quel che non è ancora ma addirittura quel che esso nega. Posto lo zero, è posto anche l’uno. E con l’uno la serie infinita dei numeri, con i numeri il prima e il dopo, vale a dire il tempo, col tempo la possibilità che le cose siano... Accade con il numero zero quel che accade con il concetto di nulla: ce ne serviamo per indicare una realtà negativa, realtà che non esiste, eppure grazie a essi compiamo operazioni altrimenti impossibili o riusciamo a pensare ciò che diversamente resterebbe impensato (l’indeterminazione, la libertà, e così via).
Nondimeno ... Se ci limitiamo a considerare lo zero un analogo del nulla, quasi che lo zero fosse in matematica quel che il nulla è in metafisica, perdiamo di vista la differenza essenziale. Lo zero è qualcosa. È un numero, appunto. Un simbolo. È qualcosa che ha pur sempre che fare con qualcosa, anche quando questo qualcosa è una realtà puramente negativa o realtà che sta prima della realtà, come il tempo immaginario che sta prima del tempo reale. Invece posto il nulla, non è posto alcunché [...]: il nulla non designa nulla e soprattutto non ha a che fare con dei fatti, ma semmai col senso o col non senso delle cose. Come quando dico: questo non significa nulla. Oppure: il nulla è il senso del tutto. Oppure: Dio ha tratto il mondo fuori dal nulla. Come intendere queste affermazioni? In un solo modo, se si vuole evitare di cadere nell’assurdo: come affermazioni che non riguardano questo o quel fatto, né la totalità dei fatti, né l’essere, ma il senso dell’essere. Quando dico che Dio ha tratto il mondo fuori da nulla, non sto affatto descrivendo il processo che ha innescato il Big Bang, cioè una serie di fatti. Al contrario, sto dicendo (magari a torto, ma questo non è qui in discussione) che il mondo ha senso, visto che Dio, che poteva abbandonarlo al nulla, lo ha invece tratto fuori dal nulla e quindi lo ha “salvato”. Due piani, dunque, da tenere ben distinti. Per gli astrofisici si tratta di spiegare com’è fatto il mondo. Per i filosofi e per i teologi, se il mondo abbia o non abbia un senso. Chiamare o non chiamare Dio quel principio di spiegazione è irrilevante, così come è fuori luogo applicare a una teoria fisica la nozione di disegno salvifico o intelligente che sia.
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Sentieri filosofici alla tedesca
Sembra quasi una risposta “preventiva” a quanto affermato ieri da Stephen Hawking, in un’intervista alla “Repubblica”, lo stralcio del volume di Sergio Givone “I sentieri della filosofia”, curato da Ugo Perone per Rosenberg & Sellier (pagine 110, euro 11,00) che anticipiamo in questa pagina. Il libro raccoglie i testi di un ciclo di lezioni tenute da Givone a Berlino per la Scuola di alta formazione filosofica. Qui Givone affronta le domande fondamentali del pensiero umano, da “che cos’è la filosofia?” agli interrogativi sulla narrazione, sul mito, sull’ermeneutica, sull’estetica.
«Avvenire» del 27 settembre 2015

08 ottobre 2015

Otranto, il mosaico è Divino

La scoperta
di Alessandro Zaccuri

L’ipotesi del parroco e studioso don Gianfreda: la Commedia si ispira al pavimento del duomo pugliese, anteriore di oltre un secolo? (a lato, un soggetto del grandioso mosaico pavimentale della cattedrale: dannati tormentati dai serpenti con pene molto simili a quelle narrate nella Commedia)
​Satana ha tre volti, questo lo sappiamo. E anche la lonza «leggera e presta molto» è proprio come ce la immaginiamo quando leggiamo il primo canto dell’Inferno. Più in là ci sono i peccatori tormentati dai serpenti, c’è perfino il pozzo nel quale i dannati finiscono a testa in giù. Niente di strano, se questa fosse un’edizione illustrata della Commedia dantesca. Si tratta, invece, dell’imponente mosaico che il prete Pantaleone porta a termine nella cattedrale di Otranto nell’anno 1165, esattamente un secolo prima della nascita del poeta. Possibile che sia soltanto una coincidenza? Una serie di coincidenze, anzi. A porsi la domanda è stato, più di mezzo secolo fa, il sacerdote pugliese Grazio Gianfreda, morto nel 2007 all’età di 94 anni dopo essere stato a lungo parroco della stessa cattedrale idruntina.
Appassionato di storia locale e autore di numerose pubblicazioni, tra cui un poema in tre cantiche ispirato al mosaico di prete Pantaleone, monsignor Gianfreda ha avuto l’indubbio merito di cogliere e analizzare nel dettaglio le non poche similitudini tra questo capolavoro del Medioevo figurativo e il poema di Dante, senza mai formulare un giudizio definitivo. Tant’è vero che il suo più fortunato saggio sull’argomento, ora riproposto nell’edizione riveduta dal nipote, monsignor Quintino Gianfreda, si intitola semplicemente Suggestioni e analogie tra il Mosaico di Otranto e la Divina Commedia (Grifo, pp. 124, euro 10: per informazioni www.edizionigrifo.it).
Resta il fatto che le analogie ci sono, e le suggestioni sono molto numerose. A cominciare da quelle che riguardano la storia editoriale del libro, apparso per la prima volta nel 1964, in tempo per il duplice centenario dell’anno successivo (completamento del mosaico e nascita di Dante), rivisto nel 1966 anche sulla base delle lusinghiere recensioni ricevute e di nuovo aggiornato nel 1974. Quella attuale è dunque la quarta versione, edita in concomitanza di un altro doppio anniversario (850 anni del mosaico, 750 dalla nascita del poeta).
 
La lonza, una delle «tre fiere» descritte anche da Dante all’ingresso dell’inferno.

L’impianto, in ogni caso, è rimasto immutato. Per monsignor Gianfreda l’opera di Pantaleone corrisponde all’estrema manifestazione dell’Impero bizantino, con il quale Otranto, «Gibilterra adriatica», intrattiene da sempre rapporti strettissimi. Nei secoli successivi si afferma invece la “Cristianità” europea d’Occidente, che ha in Dante il suo più grande interprete. Un dialogo tra giganti, dunque, che non esclude il contatto diretto. Nulla vieta, ipotizza con discrezione lo studioso, che le vicissitudini connesse all’esilio da Firenze abbiano portato il poeta anche in Meridione. Magari proprio a Otranto, dove avrebbe potuto ammirare il famoso mosaico e trarne ispirazione per i suoi versi.
Non diversamente dalla Commedia, infatti, la decorazione della cattedrale presenta uno schema tripartito, nel quale hanno fondamentale importanza le raffigurazioni di Inferno e Paradiso. In uncaso come nell’altro, inoltre, l’immaginario biblico si contamina con quello pagano o comunque secolare (celebre, a Otranto, il ritratto di
rex Arturus, vale a dire re Artù). Ma a colpire di più sono le rispondenze puntuali. In entrambe le opere, per esempio, si dà spazio a un “antinferno” dove si incontrano «tre fiere» di esplicito valore allegorico: lonza, leone e lupa. Nel mosaico, annota Gianfreda, la lonza sembra sostituita da un orso, salvo riaffiorare – riconoscibilissima – in un’altra scena dell’opus tessellatum.
All’aspetto tripartito di Satana si è già accennato, così come al pozzo ad apertura circolare nel quale sprofondano i simoniaci. La sovrapposizione in ogni senso più impressionante è quella tra i canti XXIV-XXV dell’Inferno, nei quali è descritta la punizione dei ladri in Malebolge, e la porzione del mosaico in cui spadroneggiano i serpenti: un dannato viene morso a «l’una e l’altra guancia», un altro viene azzannato alla nuca, non manca neppure l’inquadratura che pare alludere alla mostruosa metamorfosi incrociata tra rettile ed essere umano.
Certo, in quest’ultima occasione Dante si pone in dichiarata emulazione rispetto a Ovidio e Lucano, e anche in altre circostanze il ricorso a una fonte comune (la Scrittura, anzitutto, oltre ai bestiari e alle fantasiose relazioni di viaggio medievali) potrebbe in qualche misura giustificare le assonanze tra la Commedia e il mosaico di Otranto. Tutto questo, però, non sminuisce affatto la consonanza colta con esattezza da monsignor Gianfreda: siamo davanti a due “opere mondo” che non solo si prefiggono il medesimo scopo, ma lo raggiungono con strumenti del tutto analoghi. Il motivo per cui questo accade potrebbe essere nascosto nei meandri ancora inesplorati della biografia di Dante. O forse è una dimostrazione del fatto che, pur restando lontana da Bisanzio, Roma non ne è mai stata davvero separata.
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LE PRIME MINIATURE DELL’INFERNO
Sarebbero le prime illustrazioni della Commedia di Dante, eseguite quando il capolavoro era ancora in fase di composizione iniziale. Ne parla Paolo Di Stefano sul «Corriere» di ieri: le due miniature, raffiguranti il limbo e il girone di Paolo e Francesca (nella foto a fianco), sono state rinvenute in un libro d’ore manoscritto fatto confezionare fra il 1304 e il 1309 a Padova da Francesco da Barberino, notaio e uomo di lettere fiorentino, anch’egli esiliato come Dante e finora noto come il primo ad aver citato le cantiche dell’Alighieri in una sua opera del 1313-14. Il libro d’ore, venuto alla luce nel 2003 e ricco di suggestioni giottesche, sarà ora riprodotto in facsimile per cura del Centro Pio Rajna, lo stesso che da domani a giovedì organizza a Roma (Villa Altieri e Palazzetto degli Anguillara) un grande convegno dantesco durante il quale si discuterà anche delle presunte illustrazioni della Commedia.
«Avvenire» del 27 settembre 2015

07 ottobre 2015

Le proteste e una legge da cambiare

I diritti dei cittadini
di Enrico Marro
La norma che regola gli scioperi e i disagi per i cittadini
Ancora una volta uno sciopero proclamato da un sindacato minoritario riesce a fermare la metropolitana nella capitale. Ancora una volta di venerdì. Ancora una volta lasciando un profondo senso di rabbia e impotenza nei cittadini vittime di questi disagi. Cittadini che non hanno alcuna colpa del conflitto tra aziende e sindacati, ma ne pagano il prezzo, subendo danni concreti: giornate e appuntamenti di lavoro che saltano; visite mediche cui si deve rinunciare o che si raggiungono prendendo taxi costosi; anziani che devono chiamare figli o nipoti per farsi accompagnare in macchina. A Roma, ha ricordato il garante per gli scioperi nei servizi pubblici, Roberto Alesse, quello di ieri è stato il sedicesimo sciopero del trasporto locale dall’inizio dell’anno: quasi due al mese. Su tutto il territorio nazionale, nello stesso settore, ne sono stati proclamati 255, di cui 193 effettuati. Alla base delle proteste il mancato rinnovo del contratto di lavoro, scaduto da ben otto anni. Nella capitale, con l’aggravante che a circa un migliaio di lavoratori di Roma Tpl, consorzio di aziende private che gestisce parte del trasporto, non veniva più pagato lo stipendio da luglio. Motivi seri, dunque. E responsabilità pesanti dei datori di lavoro e dell’amministrazione capitolina.
L’Italia, fin dal 1990, si è dotata di una legge, la 146 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, per molti versi avanzata e severa, se confrontata a livello internazionale. N el nostro Paese non sono possibili scioperi ad oltranza, improvvisi, totali. Serve un preavviso, devono essere garantiti dei servizi minimi, vanno rispettati intervalli di tempo tra un’astensione del lavoro e la successiva, non sono possibili sovrapposizioni che paralizzino funzioni fondamentali della vita collettiva (nei trasporti, per esempio, non possono scioperare insieme treni e aerei). La legge ha cioè cercato di «contemperare», come dissero allora gli autori della normativa tra i quali Gino Giugni, il diritto allo sciopero tutelato dalla Costituzione e i diritti dei cittadini e degli utenti di vedersi assicurati servizi fondamentali (dai trasporti alla salute all’istruzione) anch’essi tutelati dalla Carta fondamentale. Del resto, lo stesso articolo 40 della Costituzione dice che «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano».
La 146, però, ha disciplinato le modalità di svolgimento dello sciopero, ma non quelle di proclamazione. Così, ancora oggi, nulla impedisce anche a un sindacato microscopico di indire un’astensione dal lavoro, alterando proprio quell’equilibrio tra interessi diversi che la legge del 1990 voleva tutelare. Succede così, come è accaduto di nuovo ieri, che un sindacato minoritario possa paralizzare un servizio pubblico essenziale, grazie al fatto che per bloccare la metro basta che incroci le braccia una piccola parte degli addetti. È evidente a tutti che in questo caso c’è una sproporzione tra chi innesca la protesta e le conseguenze della stessa, spesso poi amplificate dall’effetto annuncio.
Ecco perché, senza nulla togliere alle ragioni di chi ieri ha scioperato a Roma (ma anche a Firenze e in altre città), è necessario un nuovo intervento per ristabilire un equilibrio non solo nel modo in cui lo sciopero nei servizi pubblici essenziali può svolgersi, ma anche nel modo in cui esso si proclama. Nella commissione Lavoro del Senato sono da tempo in discussione varie proposte di legge. Due in particolare, quella dell’ex ministro Maurizio Sacconi (Area popolare) e quella del giuslavorista Pietro Ichino (Pd), affrontano il problema, prevedendo, limitatamente al settore dei trasporti pubblici, che lo sciopero possa essere proclamato da sindacati che rappresentino la maggioranza dei lavoratori (o comunque una soglia minima), altrimenti sarebbe necessario sottoporre la proposta al referendum tra tutti i lavoratori interessati; una regola presente, sottolinea lo stesso Ichino, in Germania, nel Regno Unito, in Spagna. Il 26 luglio scorso, sul Corriere della Sera , nell’intervista a Lorenzo Salvia, il ministro dei Trasporti Graziano Delrio ha promesso che il governo avrebbe sostenuto l’approvazione in Parlamento di queste proposte. Ora bisogna accelerare.
«Corriere della sera» del 3 ottobre 2015

06 ottobre 2015

Il liceo classico non è morto, ecco perché

di Giorgio Israel
"Perché se muore il liceo classico muore il paese" era il titolo di un articolo pubblicato su queste pagine [Il Mattino] a fine agosto 2013 e che ha avuto una grande diffusione; è stato discusso largamente nelle scuole ed è capitato di sentirlo citare nella presentazione dell’offerta formativa di alcuni licei classici. Si è forse sviluppato in questi mesi un dibattito culturale che abbia difeso o contestato la tesi di quell’articolo? Nulla di tutto ciò. La tecnica collaudata per far passare un progetto senza discutere è ben nota: prima si lancia il “ballon d’essai” provocatorio – la riduzione del liceo a quattro anni, la riforma radicale del classico, il ridimensionamento della filosofia – poi si assiste in silenzio alle reazioni, senza alimentare alcun dibattito, quindi si torna alla carica su un altro terreno, quello dell’indottrinamento; il quale, manco a dirlo, è rivolto agli insegnanti. È questa una categoria che ha mele sane e marce come tutte ma che gode di uno speciale “privilegio” oltre a quello di essere la più malpagata d’Europa: di essere l’oggetto speciale dell’attenzione di “esperti” della scuola che si dedicano a riformarne le teste sulla base di teorie insindacabili e al disopra di ogni possibile contestazione.
Forse per sottrarsi a questa tecnica di indottrinamento coatto alcuni licei classici romani hanno promosso incontri sul tema del futuro del liceo classico che avrebbero dovuto mettere a confronto, su un piede di parità, difensori e detrattori, in una sorta di processo, con tanto di accusa, difesa, giuria e sentenza finale. Non posso dare un giudizio completo di come sia andata non avendo partecipato alle iniziative, ma mi ha assai colpito la lettura dei dettagliati rendiconti per due aspetti. In primo luogo, l’ammissione che l’accusa era stata più nutrita, incisiva e coordinata, mentre la difesa era stata più debole e minoritaria, il che suggerisce che forse non è stata scelta la migliore politica degli inviti. In secondo luogo, e soprattutto, mi ha colpito la sentenza finale espressa con una formula di pessimo gusto: all’imputato (il liceo classico) «non arresti domiciliari ma impegno nei servizi sociali»…
Difatti, le cronache raccontano il solito contenzioso, francamente ripetitivo: il liceo classico è lontano dalla vita, manca di pratiche esperienziali, si arrocca su una didattica fine a sé stessa, non collega lo studio delle lingue classiche all’acquisizione di “competenze”, non contempla pratiche laboratoriali, e così via. La ricetta del riscatto è prevedibile: rinnovamento delle pratiche didattiche basate sull’acquisizione di “competenze” più che di “nozionistiche” conoscenze, apertura al mondo esterno anche con l’alternanza scuola-lavoro. Facciamo grazia al lettore di trascinarlo nella diatriba competenze/conoscenze tipica della scolastica didattichese: una persona esterna a tale gergo difficilmente può capire come si possa avere una buona conoscenza di qualsiasi cosa senza saperne far uso (competenza), se non per colpa di un cattivo insegnamento. Lasciamo anche perdere lo slogan sull’alternanza scuola-lavoro: o ci si spiega in che modo può realizzarsi per certe materie o siamo alla pura chiacchiera da bar. Ma quel che soprattutto colpisce è l’ostinazione. Se è vero – come ripete l’accusa – che il calo di iscrizioni testimonierebbe che il liceo classico è irrimediabilmente morente, e che esso se lo merita in quanto detestabile relitto di una visione gentiliana e aristocratica della cultura, perché mai agitarsi tanto? Il corso delle cose realizzerà l’esito agognato: rimarrà un numero sempre più piccolo di persone, amanti della cultura classica, del latino, del greco, della filosofia, che magari saranno utili per intrattenere i residui relitti dei nostri beni culturali e mantenere un legame, ormai solo sentimentale, con il passato su cui si è costruita la nostra identità. Il punto è che il liceo classico, malgrado il declino delle iscrizioni, è lungi dal rappresentare una fetta marginale dell’istruzione liceale italiana. E la vitalità dei licei classici è lungi dall’essere spenta: chi frequenti le presentazioni dell’offerta formativa resta colpito, al contrario, dal fatto che questi licei, nonostante tutto, offrono l’immagine di una serietà, di un entusiasmo, di un impegno e – diciamolo pure – di uno stile che contribuisce a dare linfa all’intero sistema delle scuole superiori. E allora l’unica spiegazione è un’ostilità di principio, incomprensibile per chi non capisce le guerre di religione ed è convinto della positività dello sviluppo dei licei scientifici e dell’assoluta necessità di restituire alla formazione tecnica e professionale la qualità e il prestigio che appartengono alla tradizione nazionale, in vista di una necessaria ripresa tecnologica del paese. Ma forse è un’ostilità non tanto incomprensibile se l’intento è quello di puntare a trasformare la scuola in un sistema di formazione di quadri per le imprese: le manifestazioni di intenti in tal senso sono troppo smaccate per poterle ignorare.
Nessuno vuol negare a priori la necessità di miglioramenti didattici; al contrario, purché questo venga fatto con serietà e – valga qui il termine – con competenza, e non con slogan, come se ripetere “didattica laboratoriale” voglia dire di per sé nulla di sensato (ad esempio, o si configura in modo serio e concreto cosa possa essere un laboratorio di filosofia, o è meglio tacere). Ma la domanda è un’altra. Qualcuno pensa davvero che, anche nella necessaria riqualificazione di tutto il sistema dell’istruzione e anche concentrando l’attenzione sulla formazione tecnica e professionale, non sia necessaria più cultura per tutti, anche per chi andrà a fare l’elettricista o il panettiere? Qualcuno può credere seriamente che si possa formare un buon cittadino, una persona capace di buoni comportamenti emotivi e relazionali, che abbia senso etico, morale, senza aver letto buoni libri, grandi romanzi, belle poesie (anche su un tablet), e senza aver avuto almeno qualche sentore dei temi fondamentali della filosofia? Chi può credere seriamente che si possa formare un buon cittadino rispettoso delle leggi e dei principi della convivenza civile che non abbia ricevuto un’adeguata conoscenza della storia che lo renda consapevole delle origini dei principi della democrazia? Tutto questo deve esserci in ogni scuola, e non basta certamente l’alternanza scuola-lavoro e il legame con il territorio a crearlo. Quindi, più preparazione tecnica e maggiore concretezza, ma anche più cultura, quella che non si mangia; più cultura dappertutto, nelle scuole di ogni ordine e grado. E poiché il liceo classico è il luogo in cui – come tutti, convinti o obtorto collo, concedono – viene dato il massimo spazio alla coltivazione di quelle basi culturali che sono il fondamento della nostra identità italiana ed europea, molto giustamente fu detto che “se muore il liceo classico muore il paese”.
«Il mattino» del 26 aprile 2014

05 ottobre 2015

Ruanda, memorie di un medico

Intervista
di Chiara Zappa
Dall’incontro ravvicinato con il genocidio ruandese, la mattanza che ventun anni fa fece sprofondare nel baratro il Paese delle mille colline trascinando con sé forse un milione di vite innocenti, non si può uscire indenni, nel cuore e nell’anima. Lo ha imparato a sue spese Gaddo Flego, che nel giugno del 1994, come operatore di Medici senza frontiere, fu tra i primi occidentali a portare aiuto a chi era riuscito a scampare alla carneficina, iniziata il 6 aprile e ancora in corso in molte zone del Paese. Cento giorni di follia collettiva – ma ben pilotata da gruppi di potere e media – in cui l’odio della maggioranza hutu nei confronti dei tutsi divampò in un massacro sistematico, principalmente a colpi di machete, di almeno 800 mila persone: tutsi ma anche i cosiddetti 'hutu moderati', ossia chi si rifiutò di cedere alla logica assurda della divisione etnica. Una mistificazione dagli effetti disumani in cui trovarono sfogo molte altre motivazioni: dalla volontà di potere alle semplici, letali, invidie dei beni altrui.
Dopo una lunga e faticosa rielaborazione, Flego oggi riesce ad affermare che l’intimità con il male assoluto, quella che in certi momenti sembra pronta a inghiottirti nell’abisso, può almeno insegnarci qualcosa. «Da quell’esperienza tragica ho tratto la ferma consapevolezza che un genocidio è prevedibile e prevenibile, e che dunque, in qualunque situazione e ad ogni latitudine, abbiamo la responsabilità di non sottovalutare i segnali di imbarbarimento della società e di tenere sveglie le nostre coscienze», dice.
Ma al tempo, quando il giovane medico arrivò, nella zona già sotto il controllo del Fronte patriottico ruandese, in una Nyamata spettrale e brulicante unicamente di orfani, l’evidenza in cui si imbatté fu solo quella di un fatto terribile, ormai già accaduto. Un evento che, nonostante alcuni maldestri tentativi di occultarne le prove più schiaccianti agli estranei (i rwandesi ne erano stati tutti, volenti o nolenti, protagonisti), era presente ovunque.
«Le enormi fosse comuni, che sono sempre all’interno dei nostri percorsi, rendono veramente il massacro meno visibile dei cadaveri esposti nella chiesa di N’tarama? La donna che non riesce più a tenere la testa eretta per il colpo di machete che le ha sezionato i tendini del collo non rimanda forse direttamente al gesto di un assassino affaticato dal troppo colpire, a un corpo esanime che cade su un mucchio di cadaveri? Noi ci muoviamo su campi di cadaveri, viviamo tra i sopravvissuti: non occorre investigare per essere consapevoli di questo immane crimine ». Sono alcuni dei ricordi che, due decenni dopo, Gaddo Flego ha deciso di mettere nero su bianco, «forse per l’esigenza di chiudere quel periodo della mia vita – confida – ma anche perché il ricordo di alcuni dettagli rischiava di affievolirsi, e non volevo permetterlo. Volevo rendere, in qualche modo, la mia testimonianza». Ha preso così forma un quaderno di memorie, inviato all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano e subito vincitore del premio Pieve Saverio Tutino. Con il titolo Un milione di vite. Un medico ricorda il genocidio in Rwanda, il diario di Flego è diventato oggi un libro (Terre di Mezzo, pagine 128, euro 12,00; postfazioni della scrittrice Esther Mujawayo e del regista Gilbert Ndahayo).
Ed è una fortuna. Perché, come scrive il giornalista Pietro Veronese nella prefazione, fondamentali sono le testimonianze «degli osservatori terzi, ai quali è possibile riconoscere un punto di vista più libero, relativamente meno coinvolto di quello dei sopravvissuti. Poiché la quasi totalità dei residenti stranieri fu evacuata nei primissimi giorni del genocidio, tali testimonianze sono davvero rare». Tra gli aspetti più interessanti del testo del medico non ci sono solo le annotazioni di dettagli che si trasformano – da sé – in atti d’accusa contro l’inefficacia e l’ipocrisia dei rapporti internazionali, le complicità esterne con i
génocidaires, le contraddizioni che non risparmiano il sistema dell’aiuto umanitario, o le menzogne e la propaganda che avvolsero gli eventi del ’94.
Ci sono anche i compromessi quotidiani richiesti a chi è in prima linea, i dilemmi morali e deontologici, lo sconcerto dell’uomo Flego di fronte a situazioni estreme dove l’ordine naturale delle cose sembra rovesciato. Come quando gli capita di curare alcuni bimbi di sei anni che – gli spiega la giovane operatrice dell’orfanotrofio – «hanno voluto togliersi la vita». Ma anche quando, trovato un piccolissimo orfano durante un sopralluogo nei villaggi, lo affida a una suora che «non mi sembra né colpita né contenta, e non mi fa domande. Prende il bimbo che è quasi il tramonto, e il mondo mi sembra così triste che non riesco neanche a capire se sia meglio sopravvivere o morire. Se quello di oggi è un salvataggio, è una salvezza senza gioia…».
Eppure lo sconcerto e lo sconforto, la paura e l’impotenza, l’imperativo arduo della neutralità che popolano queste pagine non sono l’ultima parola. L’incontro con i sopravvissuti ha avuto un senso e un valore. «Tu li hai visti, tu li hai curati, tu li hai ascoltati o almeno hai tenuto loro la mano. Li hai mantenuti in vita attraverso le tue testimonianze », afferma Esther Mujawayo nella postfazione. Soprattutto, anche oggi che il dottor Flego ha scelto «un posto sicuro», è direttore sanitario a Chiavari e non è più tornato in Ruanda, non ha abbandonato la sua lotta. Una lotta condivisa – continua Mujawayo – «per un futuro migliore per i tuoi figli, i miei figli, i figli del mondo, un futuro nel quale un essere umano sia soltanto un essere umano e non debba più sparire dalla faccia della Terra perché è ciò che è».
«Avvenire» del 24 settembre 2015