29 novembre 2015

Scuola di Rozzano, Renzi: «Non si dialoga rinunciando al Natale»

Il premier: quel preside provoca o sbaglia. Il dirigente: sono pronto a lasciare l’incarico
di Marco Galluzzo
Alla fine, dopo che il preside è stato sommerso dalle polemiche, dopo che è stato criticato persino dai genitori dei suoi alunni, musulmani e cattolici, dopo che si è detto pronto a lasciare l’incarico — come conferma Delia Campanelli, direttore scolastico regionale lombardo —, alla fine ha sentito la necessità di intervenire anche il premier: «Il Natale è molto più importante di un preside in cerca di provocazioni. Se pensava di favorire integrazione e convivenza in questo modo, mi pare abbia sbagliato di grosso».
Insomma, la decisione di un preside di provincia rilancia il dibattito sulla nostra identità, sul modo di convivere con chi professa altre fedi, sul significato di integrazione. Dice Matteo Renzi al Corriere, senza mezze misure: «Confronto e dialogo non vuol dire affogare le identità in un politicamente corretto indistinto e scipito. L’Italia intera, laici e cristiani, non rinuncerà mai al Natale. Con buona pace del preside di Rozzano».
Lui, il preside, Marco Parma, 63 anni, dell’istituto Garofani a Rozzano, in provincia di Milano, si difende professando buone intenzioni. Ha deciso di cancellare le feste e i canti di Natale per non compromettere la sensibilità degli alunni di altre fedi.
L’Istituto comprensivo è frequentato da un migliaio di studenti, il 20% è di origine straniera. Dopo gli attentati di Parigi ha pensato che fosse meglio rinviare il concerto di Natale dei bimbi delle elementari al 21 gennaio, trasformandolo in concerto di inverno.
Laila Magar, 45 anni, egiziana di fede musulmana, abita a Rozzano da 7 anni, con il marito e i 4 figli. I due più piccoli, i gemelli Fatma e Yassin, hanno frequentato l’Istituto Garofani: «Ma a chi dà fastidio la festa di Natale? Forse al preside, di certo non alla comunità musulmana. I miei figli hanno sempre partecipato alle feste di Natale a scuola, hanno cantato “Tu scendi dalle stelle” e gli altri canti tradizionali cattolici. Perché si vuole creare un problema che non esiste?». Suo marito, Mahmoud El Kheir, 67 anni: «Chi siamo noi musulmani per dire che cosa si può fare nella scuola italiana? Noi siamo ospiti in questo Paese. Mi auguro che l’opinione pubblica capisca che la decisione non arriva da una richiesta dei genitori musulmani».
Il preside si difende così: «Credo sia un passo avanti verso l’integrazione rispettare la sensibilità di chi ha altre culture o religioni. Questa è una scuola multietnica». Critiche sono arrivate dal Pd, da Matteo Salvini («dovrebbe semplicemente essere licenziato»), e da quasi tutti gli altri partiti.
«Corriere della sera» del 29 novembre 2015

La tentazione degli intellettuali: l’Occidente sempre colpevole

Contro ogni scellerataggine commessa da uno Stato o un popolo europeo si è quasi sempre levata puntualmente una voce in difesa della giustizia offesa
di Ernesto Galli della Loggia
Anche di fronte al terrorismo islamista una parte dell’intellettualità italiana sembra non poter fare a meno di giudicare la civiltà occidentale sempre come la più colpevole; o perlomeno malvagia e iniqua al pari di ogni altra. Rosetta Loy, per esempio, si domanda sul Fatto di venerdì scorso con quale faccia possiamo mai sentirci autorizzati, proprio noi, abitanti di questa parte del mondo e autori di alcune tra le peggiori nefandezze della storia, a lanciare parole di accusa contro gli autori della strage di Parigi.
Se lo chiede ricordando a mo’ di esempio il terrificante sistema di sfruttamento e sterminio messo in piedi alla fine dell’800 in Congo da quel vero criminale che fu Leopoldo II del Belgio. E naturalmente lo fa in polemica con il profluvio d’inni alla triade Liberté, Egalité, Fraternité ascoltati in questi giorni.
Non tiene conto però, Rosetta Loy, di un particolare decisivo. E cioè che contro ogni scellerataggine commessa da uno Stato o un popolo europeo si è quasi sempre levata puntualmente, perlopiù ispirata dai principi cristiani, una voce in difesa della giustizia offesa. Da quella di Las Casas e poi dei Gesuiti delle «Reducciones», denunciatori degli orrori della Conquista ispanica delle Americhe, a quella - che pure lei stessa ricorda - di Mark Twain, Conan Doyle, Joseph Conrad; voce che a proposito del Congo ebbe un’eco vastissima. Talmente vasta che il governo britannico incaricò un suo diplomatico, Roger Casement, di un’indagine in loco che, resa pubblica nel 1904, illustrò apertamente «la riduzione in schiavitù, le mutilazioni e le torture subite dagli indigeni nelle piantagioni della gomma».
Voci di denuncia che tra l’altro sono state spesso proprio di intellettuali, come sono specialmente degli intellettuali ebrei quelle che oggi denunciano in Israele le ingiustizie subite dagli arabi. Accade, è accaduto qualcosa di simile altrove? A me non pare. A Rosetta Loy non so.
«Corriere della sera» del 29 novembre 2015

28 novembre 2015

Essere laici non significa negare la religione

di Antonio Polito
«Un concerto di canti religiosi a Natale, dopo quello che è successo a Parigi, sarebbe stata una provocazione pericolosa». Lo ha detto il preside dell’istituto Garofani di Rozzano, e meno male che la sua autorità si ferma alle porte della scuola, perché se fosse diventato sindaco (è stato candidato di una lista civica) chissà che altro avrebbe potuto proibire per evitare provocazioni: tutte queste donne a capo scoperto, per esempio; o il rock, musica satanica; o lo spudorato consumo di alcol in pubblico.
Pur essendo favorevoli all’idea di dare più poteri ai presidi nelle scuole, dobbiamo confessare che ieri abbiamo vacillato di fronte a questa performance. Purtroppo, spesso per pura ignoranza, c’è chi in Italia confonde l’obbligo alla laicità del nostro sistema educativo con la negazione della religione. Il nostro preside, che gestisce una scuola in cui il 20% degli studenti è straniero, ritiene che il suo compito sia quello di nascondere ai genitori musulmani che il restante 80% è fatto da cristiani.
Invece di promuovere un dialogo, per esempio spiegando ai bimbi cristiani in che cosa consista il credo dei loro compagni di banco islamici e viceversa, il preside promuove il silenzio, la censura, estesa fino al canto di Natale (c’è un istituto a Fonte Nuova, in provincia di Roma, dove hanno addirittura fatto sparire il bambinello dal presepe). In compenso la scuola di Rozzano trabocca di alberi di Natale e di Babbi Natale, quasi come a dire che far festa si può, ma senza religione.
Il guaio è che il 25 dicembre, per quanto multietnici vogliamo diventare, si celebra la nascita di un personaggio storico chiamato Gesù Cristo. Che tra l’altro, è rispettato e venerato anche dalla religione islamica, come potrebbero spiegare tutti i genitori musulmani che ieri, intervistati davanti alla scuola, hanno tenuto a precisare che non si sarebbero sentiti neanche lontanamente offesi da Tu scendi dalle stelle . Dunque, cari presidi italiani, sinite parvulos ...
«Corriere della sera» del 28 novembre 2015

22 novembre 2015

Bambini, leggete quello che volete

Così ho vinto il Nobel dei maestri
di Antonella De Gregorio
Metodo (classi piccole, approccio uno a uno) e progetti (comprare altri volumi, rifare il tetto) di Nancie Atwell, americana, 63 anni, miglior docente del mondo. Che insegna in un centro rurale di 1.200 abitanti
Di ragazzi che abbandonano la scuola e smettono di studiare non ce ne sono a Edgecomb, piccolo centro del Maine, dove un’insegnante appassionata, Nancie Atwell, ha avviato nel 1990 una demonstration school, scuola laboratorio che serve da modello e caso di studio per altri insegnanti. Accoglie un centinaio di bambini tra i 5 e i 12 anni e si sperimentano metodologie innovative. Nulla a che vedere con le tecnologie digitali, per una volta, ma pareti tappezzate di libri in ogni classe, decine di migliaia, a disposizione dei ragazzi. La novità, rivoluzionaria, è che dalla prima elementare alla fine delle medie, gli alunni della scuola (il Center for Teaching and Learning) leggono in media 40 libri a testa all’anno (contro i 5 della media Usa); scrivono ognuno una ventina di racconti, poesie, recensioni, che vengono pubblicati su riviste o sul sito del Centro; e soprattutto diventano presto autonomi nell’apprendimento. Con risultati scolastici molto alti. Il 97%, poi, prosegue gli studi e si iscrive a college e università anche eccellenti, come Harvard o Chicago.

Edgecomb è un paese rurale di 1.200 abitanti. Il Ctl è una scuola hands on, con laboratori di storia, arte, musica e scienze. E Nancie Atwell, 63 anni, è la prima vincitrice di quello che è stato definito il «Premio Nobel degli insegnanti», messo in palio dalla Varkey Foundation e conferito in marzo a Dubai, nel corso di una sontuosa cerimonia, alla presenza di capi di Stato e di docenti fuori dall’ordinario, di tutto il mondo. Un premio nato per far finire sotto i riflettori un insegnante eccezionale, che abbia offerto un contributo speciale alla professione. La luce su uno, per migliorare la reputazione dell’intera categoria e «far sì che riceva il rispetto che merita», ha spiegato l’ideatore, Sunny Varkey, imprenditore di origini indiane. Un modo, anche, per far conoscere le migliaia di storie di «eroi» che hanno trasformato la vita dei giovani.
«Ho saputo solo all’ultimo di aver vinto: quando, sul palco a Dubai, hanno letto il mio nome», dice a «la Lettura» tra un appuntamento e l’altro di un tour europeo per raccontare la sua esperienza ed esercitare il ruolo di ambasciatrice della Fondazione: eventi, forum, interviste.

Oltre alla meraviglia e alla gratificazione, un assegno da dirigente d’azienda, da calciatore, star della tv: un milione di dollari che le verranno corrisposti a rate, in dieci anni. Che cosa ne farà?
«Investirò tutto nel Centro: prima di marzo ero preoccupata di come andare avanti. Abbiamo bisogno urgente di rifare il tetto, sostituire i caloriferi e soprattutto acquistare libri: non sono mai abbastanza. Abbiamo deciso dall’inizio di sostenerci con raccolte fondi e con il provento delle royalty dei libri che scriviamo (una trentina all’attivo, su diversi aspetti della didattica, ndr). La nostra è una scuola privata, ma ha rette pari a un terzo delle altre e offriamo molte borse di studio: meno del 20% degli studenti paga la quota intera».

Qual è la novità del suo metodo?
«Classi piccole, niente test standardizzati, approccio “uno a uno” con i ragazzi. I bambini sono incoraggiati a scegliere in autonomia il libro che hanno più voglia di leggere e hanno il tempo e lo spazio per farlo, in un continuo dialogo con l’insegnante. Facciamo laboratori quotidiani di scrittura e sono i bambini a decidere che cosa scrivere: l’ultimo libro che hanno letto, le emozioni che ha prodotto in loro. La scoperta rivoluzionaria è stata vedere che lasciandoli liberi di scegliere da soli, dalla libreria che aggiorniamo continuamente, diventano lettori appassionati».

Un’idea contrastata da molti educatori, che ritengono che i ragazzi debbano leggere libri più impegnativi di quelli che selezionerebbero per conto proprio. Che dedicare tempo alla lettura significa togliere tempo alle attività scolastiche ...
«Sarebbe facile convincerli del contrario se solo si prendessero la briga di vedere i risultati che otteniamo noi. Certo, un bambino seduto in una stanza tranquilla con un buon libro in mano non è un metodo d’impatto mediatico. Ma è l’unico modo in cui si diventa lettori. E attraverso la lettura si possono imparare tante cose importanti, la storia, i valori civili, la grammatica, la matematica. Si sviluppa il pensiero critico. Si conosce il mondo: quando escono da scuola, i nostri ragazzi trovano idee, luoghi, persone che conoscono già, per averli incontrati nelle pagine scritte».

Che genere di libri acquistate?
«Di tutto: Harry Potter, Amleto, Huck Finn. Classici e novità. Fortunatamente in questo momento negli Stati Uniti c’è grandissima scelta. Sul sito della scuola (www.c-t-l.org) abbiamo elenchi di libri consigliati, che vengono aggiornati tre volte all’anno, anche con il contributo dei ragazzi».

Qual è un errore che non si dovrebbe mai fare se si vuole che un ragazzo si appassioni alla lettura?
«Mai dare per scontato che un bambino che non legge non leggerà. Quando un ragazzo afferma di non amare la lettura in realtà è perché non ha trovato il libro giusto».

Per molti adolescenti leggere è noioso, difficile e non rende felici. Ha a che fare con il fatto che trovano più interessante la tv, i social, la rapidità del web? E in generale, cosa pensa delle tecnologie a scuola?
«I giovani che non sono abituati a leggere non provano un piacere immediato, devono entrare nella storia e comprenderne il linguaggio. Un videogioco e un libro non sono la stessa cosa. Se vogliamo far entrare la lettura nella loro vita dobbiamo fare in modo che la incrocino sempre, non solo un’ora a settimana. Io poi sono contraria alla lettura su schermi digitali. Anche i bambini abituati ai libri, non li amano. Ai genitori chiediamo di limitare a mezz’ora, massimo un’ora al giorno il tempo per videogiochi o social network. E comunque dopo la lettura, che deve essere quotidiana. A scuola usiamo le tecnologie solo per fare ricerche di storia o scienze, laptop per scrivere. Niente tablet ai più piccoli, mouse e tastiera solo dopo i nove anni».
«Corriere della sera» del 22 novembre 2015

Amori finiti dell’era social: «Cancellare i ricordi non basta»

Il filosofo canadese Clancy Martin, studioso di Kierkegaard: meglio pensare a una nuova «memoria digitale» che dia spazio al lutto, al pentimento e alla rinascita
di Serena Danna
Clancy Martin ha un talento naturale nel raccontare le complicazioni che nascono dai vizi. Nonostante sia un grande esperto di Kierkegaard, lo scrittore canadese, 45 anni, che insegna filosofia all’università del Missouri, non utilizza mai il filtro della morale quando scrive di passione, che sia quella per l’alcol, per il sesso o per il furto - argomenti dei suoi libri nonché costanti della sua vita. La sua ultima opera, Adulterio in America Centrale (Indiana), racconta di una storia d’amore clandestina, che si trasforma presto in ossessione per la protagonista Brett. Martin definisce il romanzo uno studio sui «pericoli dell’amore».

Cominciamo dal primo pericolo: le conseguenze dell’innamoramento.
«Le storie d’amore brevi e intense si sono rivelate presto uno specchio utile della mia debolezza: mi ritrovo a rivelare tutti i miei difetti, a svelare i miei tentativi di essere più attraente per prolungare l’estasi di quei giorni di vertigine. Nelle relazioni durature, come quella con mia moglie e con i miei figli, sembra accadere esattamente l’opposto: scopro delle forze che non ero sicuro di avere e quel sentimento mi rassicura. La relazione amorosa rappresenta la più piena espressione della vita, contiene tutto il male e il bene e la solitudine, l’angoscia, la gioia e il conforto dell’essere umano. È questo il suo valore. Non credo ci sia nulla nella vita umana di comparabile a un rapporto d’amore».

È vero che si parla (e si scrive) troppo dell’inizio degli amori e poco della fine?
«Passiamo molto tempo a discutere di anatomia dell’innamoramento, delle unioni che funzionano e analizziamo poco la struttura dei cuori spezzati e l’ossessione che si sviluppa verso l’amor perduto. Ci piace il lieto fine e tendiamo a evitare la parte triste. Naturalmente la letteratura è piena di cantori della fine: Raymond Carver, Ferrante, Yates, Didion, Renata Adler e Moravia. Nel mio libro, la prima metà si concentra sull’innamoramento, la seconda sulla disgregazione. Tuttavia credo che dovremmo occuparci di più del lungo processo di guarigione: proprio questo segmento è il meno servito. Penso a quei giorni in cui ti alzi dal letto alle nove di sera solo per trovare qualcuno da portarci».

A proposito di ossessioni, qual è il ruolo delle tecnologie digitali nel discorso amoroso?
«Amo vedere come le persone giurano di smetterla con Facebook e poi ci tornano, e di nuovo “adesso basta”, e poi eccoli collegati. L’attacco di follia che porta a cancellare tutti i vecchi messaggi e le chat per poi piangere la loro perdita. E, una volta ri-innamorati, cominciare tutto daccapo. In realtà, non credo che la falsa memoria del digitale cambi davvero qualcosa: il significato della memoria dipende dal modo in cui ti relazioni ad essa. Non c’è dubbio che internet contribuisca all’infelice prolungamento del processo di lutto, all’insana, infinita ossessione verso l’amante che non c’è più. Sono un romanziere quindi credo nell’uso della memoria come strumento per capire il presente, per dargli un senso, come possibilità di crescita. Penso anche che il pentimento sia una cosa buona. Come dice Kierkegaard, la vita può essere compresa solo all’indietro ma guardando avanti. Passare il tempo a sviscerare le tracce digitali di una storia finita è utile quanto guardare l’album delle nozze disteso sul pavimento della propria camera da letto. Questo non significa che dovresti fare come la mia mamma, che ha bruciato tutte le fotografie del suo matrimonio (incluse quelle di noi figli!). Penso piuttosto che dobbiamo ancora trovare una strada ragionevole per integrare la nuova memoria digitale nella struttura più ampia del lutto, del pentimento e della rinascita».
«Corriere della sera» del 21 novembre 2015

15 novembre 2015

Gli attentati di Parigi e la Fallaci: «Scusaci Oriana, avevi ragione»

Il risarcimento postumo è online
di Pierluigi Battista
Aspra ma vera, violenta ma realista. Fallaci protagonista su Facebook e Twitter
Su Twitter, su Facebook, sui social network, dopo l’apocalisse di Parigi è tutto uno «scusaci Oriana». Anzi, tutto no. La parte opposta se la prende aspramente, rancorosamente, con «il delirio della Fallaci», con «l’odio fallaciano». Uno ha scritto, come in una disputa teologica, contro il «fallacianesimo». Ma insomma, da una parte e dall’altra fioriscono le citazioni di Oriana Fallaci. Si vede nel massacro di Parigi il frutto della «profezia di Oriana». Si citano brani interi de La rabbia e l’orgoglio, un libro che ha venduto un numero incalcolabile di copie, che ha intercettato un umore popolare, che ha dato voce a un sentimento diffuso. E oggi, dopo anni di dimenticanza e di marginalizzazione, lo «scusaci Oriana» sembra essere la ricompensa postuma, il risarcimento per una sordità, quasi a considerare Oriana Fallaci come una intrattabile estremista. Mentre ora si vede che le sue diagnosi non erano poi così insensate.
Un passo della Fallaci molto citato: «Intimiditi dalla paura di andar controcorrente cioè d’apparire razzisti, non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione». «Brava Oriana», «Scusaci Oriana», «Non ti hanno voluto ascoltare Oriana», si batte e si ribatte sui social network. E giù anche con gli improperi di Oriana Fallaci sull’Italia molle e arrendevole, «l’avamposto che si chiama Italia» come lo definiva beffardamente lei: «avamposto comodo strategicamente perché offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà». E sulla «coglioneria» s’alza la standing ovation dei fallaciani dell’ultimissima ora, o forse della prima perché compravano avidamente i suoi libri ma non avevano il palcoscenico di Internet sul quale esibirsi. E la profezia della Fallaci che viene rilanciata, e poi contestata, e poi brandita come un’arma della guerra culturale, e poi vituperata, e poi sventolata come una bandiera: «Ma presto si scateneranno. Molti italiani non ci credono ancora. Si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi».
E poi, la previsione più precisa, geograficamente circostanziata, in perfetta connessione con l’orrore che ha scosso la Francia: «Parigi è persa, qui l’odio per gli infedeli è sovrano e gli imam vogliono sovvertire le leggi laiche in favore della sharia». La Francia che non ha mai amato Oriana Fallaci. E bisognerebbe anche ricordare che in Francia la Fallaci, assieme a Michel Houellebecq molto prima che uscisse Sottomissione, fu messa sul banco degli accusati con l’imputazione, che assomiglia a una scomunica ideologica, di «islamofobia»: un’impostura intellettuale che diventa reato e che in Francia, nella Parigi che ieri è stata sconvolta dalla follia fanatica dei combattenti jihadisti, è diventata un’arma di ricatto per tacitare la «parola contraria», come direbbe Erri De Luca in un contesto peraltro completamente diverso. La Fallaci del dopo 11 settembre ha sempre diviso l’opinione pubblica: l’hanno amata e l’hanno odiata, hanno comprato milioni di suoi libri e l’hanno bollata come fanatica al contrario, come guerrafondaia scatenata, come una pericolosa incendiaria quando descriveva Firenze assediata e violentata dagli immigrati che orinavano sul sagrato del Duomo, con un’immagine aspra, violenta. Senza che nessuno si chiedesse: aspra ma vera? Violenta ma corrispondente alla realtà? Oggi, dopo il massacro di Parigi, quelle domande tornano di attualità e vengono assorbite e fagocitate da quel grande mostro onnivoro che è il mondo dei social network. «Scusaci Oriana» su Twitter. Neanche una «profezia» della Fallaci poteva arrivare a tanto.
«Corriere della Sera» del 15 novembre 2015