14 settembre 2015

Ishiguro, alla corte di re Artù

di Alessandro Zaccuri
Kazuo Ishiguro lo dichiara subito: «Non ho mai creduto troppo alla distinzione tra i generi letterari. Così come li conosciamo oggi, sono un’invenzione dell’industria editoriale. Un’invenzione abbastanza recente, tra l’altro, e molto pericolosa. Gli scrittori, ma anche i lettori, devono evitare di restare intrappolati in questo schema». Nonostante i draghi e gli orchi che lo popolano, dunque, Il gigante sepolto (traduzione di Susanna Basso, Einaudi, pagine 316, euro 20) non va considerato come un fantasy in senso tradizionale. Semmai, una conferma dell’assoluta libertà inventiva di cui Ishiguro – che oggi alle 11,15 dialogherà con Michela Murgia a Palazzo San Sebastiano di Mantova nell’ambito del Festivaletteratura – ha dato prova nei suoi ultimi romanzi.
E in ogni caso, anche se nel Gigante sepolto ha grande importanza la rivisitazione del ciclo arturiano, a rimanere impressa è più che altro la delicatezza con cui viene tratteggiato l’amore tra il vecchio guerriero Axl e Beatrice, sua sposa e sua principessa. Entrambi rischiano di perdere la memoria, ma non possono accettare di perdere se stessi.
«Più passa il tempo – dice l’autore di capolavori come Quel che resta del giorno e Non lasciarmi – più mi rendo conto di scrivere principalmente per rappresentare e condividere le mie emozioni. Ma i sentimenti, quando sono autentici, non sono mai semplici. Confinano tra loro, a volte si confondono l’uno con l’altro. È questa complessità a renderci umani, ed è questa umanità che cerco di esprimere nei miei libri».

Anche attraverso una favola?
«Per me Il gigante sepolto è più simile a un racconto popolare. Non è un’allegoria del presente né, tanto meno, una rappresentazione cifrata delle guerre recenti, come quelle in Bosnia o nel Burundi. Volevo che il lettore avesse sotto gli occhi uno schema ricorrente, capace di esaltare le emozioni, anche violente, con le quali ciascuno di noi si misura e lotta e ogni giorno. Per questo ho pensato di ambientare la storia in un passato leggendario, dominato da una mentalità prescientifica. Un mondo pieno di superstizioni, ma nel quale la morte è ancora considerata come un viaggio verso una realtà sconosciuta. Una convinzione, questa, alla quale diventa sempre più difficile dare voce nella società contemporanea».

Ma il tema centrale non è quello della memoria?
«La memoria e l’oblio. Meglio ancora, la necessità di scegliere che cosa dimenticare e che cosa, invece, ricordare a ogni costo. Si tratta di un’alternativa che ricorre spesso nelle famiglie e perfino nei matrimoni più duraturi, come quello che lega Axl e Beatrice. Ma anche le nazioni si trovano a volte nella condizione di confrontarsi con la parte più oscura della memoria collettiva».

Come è accaduto in Sudafrica?
«Sì, come in Sudafrica. Dopo la lunga stagione dell’apartheid, ci si sarebbe potuti aspettare un’ondata di vendette e ritorsioni. Così sarebbe successo, probabilmente, se le diverse componenti della società non avessero trovato il modo di governare il processo della memoria, fino a stabilire un equilibrio condiviso fra quello che andava ricordato e quello che era ormai opportuno consegnare all’oblio. Insieme con la vicenda d’amore, nel romanzo è presente anche quest’altro livello, che definirei politico. Britanni e sassoni, cristiani e pagani: sia pure leggendario, questo è un mondo di divisioni profonde e lacerazioni terribili».

Oltre che di mostri.
«Non mi interessava descrivere per l’ennesima volta un orco, tutti abbiamo più o meno l’idea di che aspetto potrebbe avere. Però mi sono dato una regola: se per le superstizioni dell’epoca i mostri costituiscono una realtà assodata, presentiamoli come tali, come parte della routine quotidiana. I miei personaggi, in definitiva, non temono di essere sbranati da un orco più di quanto ciascuno di noi non tema di essere investito da un’auto ogni volta che attraversa la strada».

Vale anche per il drago?
«Avevo bisogno di un elemento che facesse da chiave di volta: qualcosa o qualcuno da cui tutto dipendesse e su cui, di conseguenza, si concentrassero gli sforzi dei personaggi. C’è chi ne vuole la distruzione, chi al contrario è disposto a morire in sua difesa. Forse avrei potuto inventarmi qualcosa del genere anche in un contesto fantascientifico, ma alla fine mi sono convinto che un’ambientazione leggendaria fosse più adatta e, nello stesso tempo, mi consentisse maggior libertà».

Perché, tra i tanti personaggi del ciclo arturiano, si è soffermato proprio su Galvano?
«Perché è il più giovane dei cavalieri della Tavola Rotonda e quindi, a rigor di logica, quello che avrebbe potuto sopravvivere agli altri. Magari i puristi non saranno d’accordo, dato che in molte versioni della leggenda Galvano muore ancora giovane. Ma io avevo in mente una figura ben precisa, quella del vecchio cavaliere solitario che continua, nonostante tutto, a difendere i valori di un mondo ormai finito. È l’eroe al tramonto che troviamo in molti classici del film western e, dentro di me, ho sempre desiderato farlo entrare nei miei romanzi. Ora, anche prendendo a modello il lavoro di scrittori più giovani di me, sono riuscito a superare ogni pregiudizio, ogni distinzione preconcetta fra i generi. Forse il mio Galvano assomiglia al John Wayne di Sentieri selvaggi. Ma è esattamente quello che volevo».
«Avvenire» del 12 settembre 2015

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