30 settembre 2015

Fermiamo la "biblioclastia" una volta per tutte

La "biblioclastia"
di Giuliano Vigini
Le distruzioni dell'Is ripetono la lunga storia dei roghi di libri
Può apparire soltanto un particolare di poco conto di fronte all’ininterrotta sfilata di notizie e immagini dei massacri di vite umane compiuti dall’Is. Ma non lo è. Dopo che agli inizi dell’anno era stata bruciata la principale biblioteca della città irachena di Mosul, e distrutte o saccheggiate altre biblioteche, ora il nuovo califfato aggiunge orrore a orrore, passando al setaccio abitazioni private o sedi pubbliche per scovare i libri degli “infedeli” e farne uno scoppiettante falò. Così migliaia di libri, di contenuto religioso, ma anche scientifico e letterario (come si sa, non è meno violento l’odio jihadista per la scienza e la letteratura), rinnovano l’antico spettacolo dei roghi di libri, che spesso hanno cancellato la memoria storica di interi popoli. Mosul, Palmira e chissà quante altre località dell’Iraq o della Siria stanno conoscendo anche questo volto dei nuovi fanatismi, che colpiscono la cultura “deviata” e i luoghi che la conservano, a cominciare dalle biblioteche.
Tanti celebri film e libri – da Brave new world (1932) di Huxley a 1984 (1950) di Orwell a Fahrenheit 451 (1966) di Truffaut – ci hanno già in vario modo ricordato che l’intolleranza verso la cultura è un pericolo sempre in agguato, perché la barbarie non si stanca mai di rinnovarsi. Così anche oggi continua a levarsi un’interminabile e densa scia di fumo, senza delimitazioni di confini e latitudini, perpetuando una storia di secoli.
Non si sa esattamente quando questa triste storia sia cominciata, ma si ricorda che già Tebe era stata distrutta nel 1.358 a.C.; Ninive, rasa al suolo nel 612 a.C., e soprattutto Alessandria, incendiata nel 48 a.C.: formidabili biblioteche, indipendentemente dal numero di rotoli e documenti conservati, comunque molto cospicui. Che dire, poi, della fine di altre biblioteche antiche, come quelle di Tiro o di Pergamo, di Persepoli o Cartagine, di Gerusalemme o Antiochia, di Atene o Roma? La censura trasformata in vera e propria biblioclastia (ossia in odio persecutorio e distruttore di libri) trova già nell’editto (303) di Diocleziano giustificazione e impulso per altri scempi. Dal Concilio di Nicea (325) in poi, il divieto, la condanna, il sequestro e l’eliminazione di tanti scritti eretici, eterodossi e comunque giudicati nocivi o pericolosi per la fede e i costumi diventa una pratica abituale. Per non parlare poi dell’Inquisizione medioevale e moderna. Ma, per tornare al presente, anche la storia del Novecento presenta un teatro d’azione impressionante; dal Vicino Oriente all’Europa (Germania, Unione Sovietica, Cecoslovacchia, Polonia...), dalla Cina all’India, dal Cile all’Argentina, dal Messico alla Cambogia, dall’Iraq a Cuba, è tutto un susseguirsi di incredibili devastazioni, oltre a quelle legate agli eventi naturali (incendi, terremoti, alluvioni...).
Milioni e milioni di manoscritti, libri, documenti che non ci sono pervenuti per ragioni ideologiche o politiche, religiose o morali. Classici greci e latini, scritti cristiani e anticristiani, testi dell’ebraismo e dell’islam, opere di storia e documentazione (tra questi, anche tanti libri aztechi e maya) finiti nel nulla per la furia, la follia e, non ultima, l’ignoranza degli uomini. Un’ulteriore conferma che la libertà di pensiero e d’espressione è stata e resta ancora in molti luoghi della terra per alcuni un tabù inviolabile, per altri una speranza.
Purtroppo, tra l’inasprirsi e l’estendersi delle guerre (aveva forse ragione Chesterton che l’espressione “scoppiare la guerra” è impropria, perché la guerra è la condizione normale delle cose; è la pace che deve scoppiare) e l’acuirsi di tanti fenomeni di intolleranza religiosa e culturale rendono tale speranza molto più precaria. Ma per fortuna possiamo pur sempre contare su tante biblioteche nel mondo che continuano a testimoniare il valore insostituibile della loro presenza: quello che significa, cioè, conservare e valorizzare la memoria del passato e del presente, svolgere una funzione al servizio di un’umanità che vuole conoscere, imparare e ascoltare tutti coloro che desiderano parlarle.
«Avvenire» del 25 settembre 2015

29 settembre 2015

Rifugiati, che fine ha fatto la solidarietà internazionale?

Le misure e l’approccio corretti per affrontare la crisi migratoria
di Michael Moller *
Mentre il flusso di rifugiati continua inarrestabile, è confortante vedere che la nostra umanità sta finalmente dando segnali di vita grazie alla generosità dei cittadini tedeschi, serbi, austriaci, greci, italiani e di altri Paesi europei, sulla scia dell’esempio virtuoso fornito da Libano, Giordania, Egitto e Turchia. I leader politici si sono finalmente convinti a dare ascolto agli appelli dei propri elettori e stanno mettendo in discussione il credito dato finora alla voce dei movimenti anti-immigrazione. Il tono negativo che ha caratterizzato per lungo tempo le storie di rifugiati e i racconti sull’immigrazione sta cedendo il passo alla realtà dei fatti: i Paesi che forniscono accoglienza a queste persone, come pure i Paesi d’origine di questi ultimi, ricavano evidenti vantaggi economici e sociali da tali spostamenti.
Senza contare che la maggior parte dei Paesi europei e altre economie avanzate fanno affidamento sull’immigrazione per far fronte alle richieste di forza lavoro, ora e per il futuro. Questo è positivo. Ma non è abbastanza. È necessario il contributo di tutti gli Stati.
Per la ricerca di una necessaria soluzione internazionale, possiamo appellarci alla nostra memoria istituzionale collettiva. Non è certo la prima volta che fronteggiamo un esodo di tale entità. Ricordate i
boat people vietnamiti degli anni Ottanta? In migliaia presero la via del mare per raggiungere i Paesi limitrofi e, da lì, salpare poi per Stati Uniti, Canada e altrove. In migliaia morirono, i trafficanti di esseri umani fecero fortuna a loro spese e i Paesi di primo asilo sigillarono i propri confini. Il problema sembrava non avere soluzione.
Finché l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur) elaborò un Piano di azione globale, approvato da una conferenza internazionale nel 1989. La conferenza riuscì a raccogliere la comunità internazionale attorno ad un processo strutturato che distingueva tra richiedenti asilo e migranti economici, definendo le procedure per il reinsediamento dei rifugiati e il rimpatrio dei migranti non considerati rifugiati. Un buon esempio di come sia possibile ottenere risultati quando ci siano volontà e mezzi per fornire protezione e assistenza con umanità e dignità. Perché questo esempio possa dare i suoi frutti anche ai nostri giorni, è necessario: – allestire centri di prima accoglienza e di identificazione in Paesi di transito come Turchia, Grecia, Italia, eventualmente la Tunisia (la Libia qualora le condizioni lo consentano).
Sarà compito dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Acnur) e dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) occuparsi di gestire i rifugiati/migranti, vigilare sulla corretta applicazione di procedure concordate per il riconoscimento dello status di rifugiato, il reinsediamento o il rimpatrio dei migranti, assicurando loro la necessaria assistenza; – potenziare la capacità di ricerca e soccorso nel Mediterraneo; – coordinare efficaci programmi per la cattura dei trafficanti; – negoziare accordi con i Paesi d’origine di coloro che vengono identificati come migranti economici per garantire loro un rientro in patria senza rischi, potendo contare sull’accettazione da parte dei propri connazionali e di un sostegno alla reintegrazione; – finanziare tali misure su scala globale e assistere i principali Paesi di accoglienza quali Libano, Giordania, Turchia e Grecia, erogando inoltre fondi per lo sviluppo nei Paesi d’origine dei rifugiati/migranti; – condurre campagne d’informazione rivolte ai potenziali rifugiati e migranti economici, illustrando le procedure previste e i rischi che comporta intraprendere il viaggio; – contrastare l’attuale narrativa negativa basata su fatti economici e sociali nei Paesi di destinazione, attuali e potenziali.
Se eseguite nella maniera corretta, queste azioni potrebbero dimostrare che interessi, umanità e solidarietà internazionale possono essere ancora combinati in una soluzione vantaggiosa per tutti. Tuttavia questo affronterebbe solo il picco attuale e temporaneo. Occorre occuparsi della tendenza migratoria molto più ampia e a lungo termine. A livello operativo, le agenzie incaricate delle questioni di asilo e immigrazione sono sommerse di lavoro e sottofinanziate. Sul piano politico, oltre al Forum globale su migrazione e sviluppo scarsamente organizzato, non esiste una struttura formale internazionale che fornisca politiche alternative per futuri flussi di vittime di disastri causati dall’uomo o naturali (i.e. legati al clima), che definiranno entrambi la nostra quotidianità nel prossimo futuro. In mancanza di una tale organizzazione, occorre affidare a Peter Sutherland, il Rappresentante Speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per la migrazione e lo sviluppo, il mandato e i mezzi necessari per catalizzare l’azione necessaria.
Un modo per iniziare il processo potrebbe essere decidere su una maggiore integrazione del lavoro dell’Acnur e dell’Oim, permettendo loro di proporre nuove politiche globali di lungo periodo. Il Vertice umanitario che si terrà a Istanbul l’anno prossimo, l’incontro indetto da Ban Ki-moon a New York a settembre, e quello della Valletta a novembre tra i Capi di Stato di Europa e Africa sono opportunità per fare progressi. Dobbiamo seriamente riconsiderare la relazione tra aiuto allo sviluppo e assistenza umanitaria, con un sostegno che affronti all’origine le cause dei problemi umanitari. L’Alto Commissario per i rifugiati Guterres è un sostenitore instancabile di questa tesi, e ha bisogno del nostro sostegno. Infine, va sfruttato al meglio il quadro politico che il mondo sta adottando quest’anno: gli Obiettivi di sviluppo sostenibile, l’accordo sul clima e quello sulla riduzione del rischio delle catastrofi. Se riusciamo a dare attuazione con successo ai diciassette Obiettivi ci sarà un’opportunità infinitamente migliore di far fronte a flussi futuri. Ognuno di noi un giorno potrà avere bisogno di un rifugio.
Empatia, generosità e politiche efficaci oggi, miglioreranno di molto le possibilità di poter applicare le stesse alle calamità del domani.

* Capo dell’Ufficio Onu di Ginevra
«Avvenire» del 26 settembre 2015

28 settembre 2015

I migranti in arrivo. Le regole da rispettare

L’esodo è una risorsa o fattore di disgregazione? Dipende dalle nostre scelte
Ma accoglierli non significa rinunciare alle radici
di Susanna Tamaro
Guardando le immagini delle torme di bambini che marciano per settimane insieme ai loro genitori nelle condizioni più estreme, mi sono resa visivamente conto della fragilità in cui versa la nostra società che spinge ormai i suoi figli in carrozzina fino quasi alle soglie dell’eta scolare e alla stessa epoca, in sempre più casi, li disabitua all’uso del pannolino.
Sono sempre stata colpita da questo prolungamento della prima infanzia, da questa impossibilità di marcare i tempi e di crescere facendo continuamente procrastinare l’ingresso nell’età adulta. Fin dai primi istanti, i nostri piccoli vivono sotto la costante cappa di controllo degli adulti che tendono a proteggerli in maniera ossessiva da qualsiasi cosa possa turbarli o ferirli. Il frutto di tutto ciò è una generazione di bambini fragili o fin troppo sicuri, bambini già immersi nella foschia della depressione o vittime di una sovraeccitazione difficile da controllare senza l’aiuto dei farmaci.
Di questo disagio, di questo straniamento, nella nostra società prostrata davanti all’altare dell’esasperato narcisismo si parla poco, perché parlarne vorrebbe dire affrontare altri livelli di discorso, prima tra tutti quello della distruzione sistematica di tutti i valori che hanno permesso al nostro Paese - e agli altri Paesi europei - di avere radici profonde e di produrre una cultura ammirata ed esportata in tutto il mondo.
Così quest’esodo biblico - che tanto, e per tante ragioni, ci turba - appare in primo luogo come un’improvvisa e imprevista iniezione di vitalità. Questi bambini che marciano silenziosi sono abituati a sopravvivere, ad affrontare il disagio, la fatica e la morte, trovando sempre comunque la forza di andare avanti, sorretti dai loro genitori. Se un giorno nasceranno nuovamente grandi scrittori, ho pensato, verranno fuori da lì, da questi bambini in marcia che tutto hanno visto e tutto hanno provato, e non certo da qualche raffinato ed esangue master di scrittura creativa.
Quando un’arnia di api è debole, spesso arrivano api più forti a saccheggiarla, così mi pare che questa affluenza straordinaria di persone, al di là delle ragioni politiche ed economiche, abbia anche un’altra valenza, direi quasi energetica. Quando una società diventa debole, confusa, capace solo di seguire i fantasmi della sua mente non più calibrata sulla concretezza della realtà, attira direi quasi spontaneamente l’energia di mondi più giovani, più forti, capaci di emergere per la compattezza e la profondità delle loro radici. Popoli affamati di vita contro popoli che della vita non sanno più che cosa farsene. Popoli che conoscono la ferocia della sopravvivenza, la durezza di condizioni comunque sempre estreme, contro popoli per lo più assopiti in una dimensione larvale, capaci di risollevarsi dal sonno soltanto per esaltare l’alimentazioni crudista o compiere battaglie epocali come quella per l’abolizione del maschile e femminile, la misera fola culturale che continua a infestare la nostra società.
Abolire ogni differenza, ecco il ruggito terminale del nichilismo: né maschio né femmina, né giorno né notte, né bene né male, né vita né morte. La polarità che da sempre regge il mondo - e che con il suo movimento dinamico crea tutto ciò che esiste - viene finalmente annullata, le sue catene che per troppo tempo ci hanno tenuti schiavi, facendoci recitare una parte per cui non ci sentivamo più adatti, alla fine sono state divelte. Nessun condizionamento deve tarpare le ali della nostra libertà.
Gli estremamente liberi allora come si potranno relazionare con gli estremamente vitali? Quali nuovi equilibri si formeranno o, piuttosto, come si farà a mantenere un equilibrio positivo per entrambi? Lo sforzo di generosità scaturito in queste settimane da parte di normali cittadini è un bellissimo segno di risveglio ma, quando l’emergenza sarà finita, in che modo riusciranno a relazionarsi queste realtà così diverse e così storicamente lontane? Come sarà possibile mantenere un equilibrio positivo per entrambe le culture?
Una scuola in Germania, che si trova nelle vicinanze di un centro per rifugiati, ha chiesto alle ragazze di vestirsi in modo più acconcio per non urtare la sensibilità degli ospiti. L’ospitalità è sacra - e quando si tratta di ospitare persone in fuga da guerre e persecuzioni è doppiamente sacra - però, nella sua sacralità, ha delle precise regole che devono essere rispettate da entrambe le parti. E oltre alle regole, richiede un sentimento fondamentale che è quello della gratitudine. Senza questi due capisaldi - rispetto e gratitudine - con molta facilità si trasforma in qualcos’altro.
Un mondo fluttuante come il nostro, che ha rinunciato alle sue radici più profonde, timoroso e pavido nell’affermare i propri valori, in che modo potrà rapportarsi con persone dall’identità così forte? Basterà fare un girotondo inneggiando alla fraternità, convinti che l’importante sia volersi bene e che il bene che noi vogliamo sia anche il bene che desiderano gli altri per noi? Oppure, evaporata l’ebbrezza dei buoni sentimenti, le cose non rischieranno di essere un po’ più complicate?
I processi di integrazione richiedono sempre tempi molto lunghi e la via preferenziale per ottenerli sono i bambini, quando viene loro permesso di inserirsi in un contesto positivo. Ma questo purtroppo non sempre avviene perché, per istinto, gli esseri umani amano stare con chi gli è più simile e diffidano di chi è diverso. Lo spauracchio del razzismo ci impedisce spesso di vedere questa realtà, i gruppi etnici tendono a proteggersi con una struttura chiusa e difficilmente si aprono verso ciò che viene percepito come estraneo. Conosco persone che da più di vent’anni vivono in Italia e non hanno imparato più di duecento parole della nostra lingua.
Cosa succederà poi di tutti quei giovani maschi soli, provenienti dall’Africa subsahariana o da altri miseri paesi, che bighellonano nella maggior parte dei giardinetti pubblici italiani, in attesa dei lunghissimi processi di valutazione della richiesta di asilo? Con quali speranze, con quali orizzonti vengono da noi persone che non fuggono da realtà in guerra ma soltanto dalla miseria? Non rischiano di innescare situazioni esplosive? Un Paese come il nostro, in cui le famiglie, in buona parte dei casi non arrivano a fine mese, non può vedere di buon occhio questi ragazzi che vagano senza meta per le nostre strade e che vengono mantenuti dal denaro pubblico. E chi dà loro i soldi per affrontare un viaggio così costoso, quando nei loro Paesi il reddito annuo si aggira intorno ai duecento euro? Con la stessa cifra non avrebbero potuto iniziare una qualsiasi attività, anche modesta, dalle loro parti, contribuendo così al cambiamento della loro terra? Che peso hanno nell’immediato, e che peso avranno nel futuro queste presenze? Saranno una risorsa o diventeranno un elemento di disintegrazione?
Molto dipenderà credo dal nostro comportamento. Dal nostro saper essere veri ospiti, capaci di stabilire e imporre le regole del rispetto e della reciprocità. Se invece ci ridurremo nello stato larvale, balbettando incerti davanti ad ogni richiesta, arretrando e cedendo ogni giorno, convinti in fondo che nella nostra civiltà non ci sia granché da difendere, non occorre avere la sfera da veggenti per renderci conto che il paese in cui vivranno i nostri nipoti sarà molto diverso da quello che fino a qui abbiamo conosciuto.
«Corriere della sera» del 28 settembre 2015

14 settembre 2015

Ishiguro, alla corte di re Artù

di Alessandro Zaccuri
Kazuo Ishiguro lo dichiara subito: «Non ho mai creduto troppo alla distinzione tra i generi letterari. Così come li conosciamo oggi, sono un’invenzione dell’industria editoriale. Un’invenzione abbastanza recente, tra l’altro, e molto pericolosa. Gli scrittori, ma anche i lettori, devono evitare di restare intrappolati in questo schema». Nonostante i draghi e gli orchi che lo popolano, dunque, Il gigante sepolto (traduzione di Susanna Basso, Einaudi, pagine 316, euro 20) non va considerato come un fantasy in senso tradizionale. Semmai, una conferma dell’assoluta libertà inventiva di cui Ishiguro – che oggi alle 11,15 dialogherà con Michela Murgia a Palazzo San Sebastiano di Mantova nell’ambito del Festivaletteratura – ha dato prova nei suoi ultimi romanzi.
E in ogni caso, anche se nel Gigante sepolto ha grande importanza la rivisitazione del ciclo arturiano, a rimanere impressa è più che altro la delicatezza con cui viene tratteggiato l’amore tra il vecchio guerriero Axl e Beatrice, sua sposa e sua principessa. Entrambi rischiano di perdere la memoria, ma non possono accettare di perdere se stessi.
«Più passa il tempo – dice l’autore di capolavori come Quel che resta del giorno e Non lasciarmi – più mi rendo conto di scrivere principalmente per rappresentare e condividere le mie emozioni. Ma i sentimenti, quando sono autentici, non sono mai semplici. Confinano tra loro, a volte si confondono l’uno con l’altro. È questa complessità a renderci umani, ed è questa umanità che cerco di esprimere nei miei libri».

Anche attraverso una favola?
«Per me Il gigante sepolto è più simile a un racconto popolare. Non è un’allegoria del presente né, tanto meno, una rappresentazione cifrata delle guerre recenti, come quelle in Bosnia o nel Burundi. Volevo che il lettore avesse sotto gli occhi uno schema ricorrente, capace di esaltare le emozioni, anche violente, con le quali ciascuno di noi si misura e lotta e ogni giorno. Per questo ho pensato di ambientare la storia in un passato leggendario, dominato da una mentalità prescientifica. Un mondo pieno di superstizioni, ma nel quale la morte è ancora considerata come un viaggio verso una realtà sconosciuta. Una convinzione, questa, alla quale diventa sempre più difficile dare voce nella società contemporanea».

Ma il tema centrale non è quello della memoria?
«La memoria e l’oblio. Meglio ancora, la necessità di scegliere che cosa dimenticare e che cosa, invece, ricordare a ogni costo. Si tratta di un’alternativa che ricorre spesso nelle famiglie e perfino nei matrimoni più duraturi, come quello che lega Axl e Beatrice. Ma anche le nazioni si trovano a volte nella condizione di confrontarsi con la parte più oscura della memoria collettiva».

Come è accaduto in Sudafrica?
«Sì, come in Sudafrica. Dopo la lunga stagione dell’apartheid, ci si sarebbe potuti aspettare un’ondata di vendette e ritorsioni. Così sarebbe successo, probabilmente, se le diverse componenti della società non avessero trovato il modo di governare il processo della memoria, fino a stabilire un equilibrio condiviso fra quello che andava ricordato e quello che era ormai opportuno consegnare all’oblio. Insieme con la vicenda d’amore, nel romanzo è presente anche quest’altro livello, che definirei politico. Britanni e sassoni, cristiani e pagani: sia pure leggendario, questo è un mondo di divisioni profonde e lacerazioni terribili».

Oltre che di mostri.
«Non mi interessava descrivere per l’ennesima volta un orco, tutti abbiamo più o meno l’idea di che aspetto potrebbe avere. Però mi sono dato una regola: se per le superstizioni dell’epoca i mostri costituiscono una realtà assodata, presentiamoli come tali, come parte della routine quotidiana. I miei personaggi, in definitiva, non temono di essere sbranati da un orco più di quanto ciascuno di noi non tema di essere investito da un’auto ogni volta che attraversa la strada».

Vale anche per il drago?
«Avevo bisogno di un elemento che facesse da chiave di volta: qualcosa o qualcuno da cui tutto dipendesse e su cui, di conseguenza, si concentrassero gli sforzi dei personaggi. C’è chi ne vuole la distruzione, chi al contrario è disposto a morire in sua difesa. Forse avrei potuto inventarmi qualcosa del genere anche in un contesto fantascientifico, ma alla fine mi sono convinto che un’ambientazione leggendaria fosse più adatta e, nello stesso tempo, mi consentisse maggior libertà».

Perché, tra i tanti personaggi del ciclo arturiano, si è soffermato proprio su Galvano?
«Perché è il più giovane dei cavalieri della Tavola Rotonda e quindi, a rigor di logica, quello che avrebbe potuto sopravvivere agli altri. Magari i puristi non saranno d’accordo, dato che in molte versioni della leggenda Galvano muore ancora giovane. Ma io avevo in mente una figura ben precisa, quella del vecchio cavaliere solitario che continua, nonostante tutto, a difendere i valori di un mondo ormai finito. È l’eroe al tramonto che troviamo in molti classici del film western e, dentro di me, ho sempre desiderato farlo entrare nei miei romanzi. Ora, anche prendendo a modello il lavoro di scrittori più giovani di me, sono riuscito a superare ogni pregiudizio, ogni distinzione preconcetta fra i generi. Forse il mio Galvano assomiglia al John Wayne di Sentieri selvaggi. Ma è esattamente quello che volevo».
«Avvenire» del 12 settembre 2015

Quei precipitosi de profundis

I guai della bioetica e chi vorrebbe liquidarla
di Francesco D’Agostino
Dando notizia ai lettori di un duro articolo di Steven Pinker contro la bioetica, Chiara Lalli (nell’inserto culturale del "Corriere della Sera" del 6 settembre scorso) coglie l’occasione per attaccare la bioetica (che si sarebbe nel tempo trasformata in un «cane da guardia», il cui unico ruolo sembrerebbe essere quello di «vietare e condannare moralmente»), per vituperare i bioeticisti in generale (qualificati alla stregua degli appartenenti a una casta, anzi a un «sacerdozio laico, privo di una teoria coerente e razionale»), per stigmatizzare il Comitato nazionale per la bioetica («la caricatura di un parlamento, gravato da irrazionalità, paternalismo, giudizi intuitivi e moralistici») e infine per biasimare tutti coloro «che usano ogni possibile scusa per bloccare la ricerca».
Basta così? No, non basta: al fondo di tutte queste critiche ce ne è una radicale e gravissima, quella di dogmatismo, di utilizzazione di «concetti insensati», di carenza di argomentazioni. Alle questioni cruciali della bioetica (e Lalli cita espressamente la procreazione assistita, le direttive anticipate di trattamento, la sperimentazione embrionale) i bioeticisti direbbero di no «anche prima di analizzarle».
Come de profundis per la bioetica, proprio non c’è male. Le cose, naturalmente, sono molto più complicate di come le mettono il buon Steven Pinker e la buona Chiara Lalli. Che la bioetica sia malata (ma per ragioni diverse da quelle appena dette) lo sappiamo bene per contro nostro e non abbiamo bisogno che ce lo venga a dire uno psicologo, per quanto illustre, come Pinker. Il quale, oltre tutto, quando passa a fornire indicazioni terapeutiche per risanare la bioetica dai suoi mali, se la cava maluccio, limitandosi a esortare i bioeticisti a non cedere ai pregiudizi di parte, a non schierarsi (se non dalla parte dei ragionamenti corretti!), a non dire a quale sia la loro "squadra" di appartenenza, ma solo ad «argomentare».
Vorremmo rassicurare Pinker e Lalli: almeno in Italia, la bioetica è sempre stata molto ben argomentata, a volte perfino in modo fin troppo pedante; gli studiosi che hanno manifestato riserve verso la procreazione assistita, il testamento biologico o la sperimentazione sugli embrioni non hanno mai (lo dico e lo ripeto: mai e poi mai) usato argomenti confessionali, dogmatici, aprioristici. Possono aver usato argomenti non condivisibili e non convincenti: ma l’accusa nei loro confronti di dogmatismo ottuso non solo è ingenerosa, ma (cosa ben più grave) è indizio di una pregiudiziale, mancata lettura delle loro opere. La questione di fondo, però non è questa, ma un’altra e ancora più grave. Non solo le prese di posizioni di uno scienziato come Pinker e di una bioeticista come Chiara Lalli fanno venire alla mente una loro grave carenza di documentazione, ma inducono a pensare che questa carenza di documentazione non sia accidentale, ma intenzionale.
È quanto emerge quando Lalli, rifacendosi al pensiero di una filosofa, Bonnie Steinbock, accusa molti bioeticisti di usare l’espressione «dignità umana» come «una mazza per criticare qualsiasi innovazione tecnologica che non gradiscono». Perché questa espressione sarebbe una «mazza»? Perché, insiste Lalli, «dignità non vuol dire nulla, perché ognuno riempie quella parola di significati diversi».
Questo, forse, è davvero il punto cruciale del discorso. È ovvio che ogni termine possa essere usato in modo rozzo e deformante, da chi non riesce a coglierne il significato autentico; ma è altrettanto ovvio che basta leggere alcune pagine decisive di Kant per capire quanto sia grottesco buttare a mare il concetto di "dignità" per il cattivo uso che qualcuno possa farne: sarebbe come irridere un capolavoro della pittura universale (lascio a Lalli la scelta) per il solo fatto che in un mercatino domenicale vengono messe in vendita tele imbrattate da sedicenti pittori.
I bioeticisti (almeno quelli "buoni") non sono individui altezzosi, che stanno al mondo per mettere i bastoni tra le ruote alla ricerca scientifica, usando giudizi «moralistici, intuitivi e contraddittori»; sono persone invece che prendono sul serio la necessità di valutare eticamente non la ricerca (che ovviamente è sempre buona in sé e per sé), ma le metodologie che gli scienziati possono utilizzare. E lo fanno (o almeno questo è quello che fanno i bioeticisti "buoni") elaborando e rendendo pubbliche ragioni che essi ritengono (fino a prova contraria) "forti" e "valide", come è dimostrato dal fatto che sono molti gli scienziati che le condividono e che calibrano le loro ricerche su queste stesse ragioni. Se Pinker e Lalli, invece di strepitare, entrassero in un serrato dibattito bioetico con chi, a loro avviso, vorrebbe limitare la ricerca scientifica, mentre invece cercano solo di orientarla eticamente, come è loro dovere fare, cadrebbero tante polemiche pretestuose, con grande vantaggio di tutti.
«Avvenire» del 14 settembre 2015

Perché vogliamo mettere una virgola: i «contenuti» della punteggiatura

s. i. a
La virgola è cordiale e aperta, i puntini di sospensione sono sognanti, il punto, addirittura, è ostile. In un mondo in cui gli sms, i post, e in genere le scritture «social» hanno un’importanza sempre maggiore, anche la punteggiatura è usata per esprimere qualcosa di noi: se abbiamo a disposizione solo 140 caratteri — come accade su Twitter —, occorre che perfino il più piccolo segno diventi «contenuto». A raccontarlo sul nuovo numero de «la Lettura», che resta in edicola per tutta la settimana a 0,50 centesimi, è l’ampio articolo del linguista Giuseppe Antonelli, in cui l’evoluzione dell’interpunzione da ritmica a emotiva è raccontata dalla prima «faccina sorridente» del 1982 a emoticon di oggi. Si può, scrive Antonelli, quasi pensare a una sorta di «oroscopo» dei segni di punteggiatura adatti a ciascuno.
Una forma di libertà che è normale per gli scrittori. «La punteggiatura non esiste in natura, e soprattutto non esiste il punto fermo»: a spiegarcelo è Giovanni Mariotti, scrittore che di ortografia se ne intende, visto che è autore di un romanzo di 220 pagine senza punteggiatura, Storia di Matilde (Adelphi). «Tutto è legato, tutto fluisce. Qualche virgola può anche esistere nella vita, ma siamo noi a desiderare che esistano dei punti. Le feste dell’inizio, il Capodanno, il punto fermo, il lunedì, piccoli desideri umani. Ogni capoverso rinnova il fantasma». Ancora oggi, dice Mariotti, gli capita di scrivere senza punteggiatura: «D’altronde anche il romanzo di Matilde non è nato in modo deliberato: partii solo con l’intenzione di scrivere una bella frase lunga... e poi il resto venne da sè. Il contrario del flusso di coscienza, che tende all’informe».
Ma per giocare con l’interpunzione, bisogna conoscerla bene: chissà se la maggior frequentazione del segno scritto tra post e sms ha migliorato la scrittura, ad esempio a scuola. «Spesso i ragazzi hanno un difetto di ascolto, non hanno il senso del ritmo e quindi ignorano la punteggiatura, che appunto riproduce il ritmo», sospira un professore e scrittore, Alessandro Banda, autore de Il lamento dell’insegnante (Guanda). «Per loro le frasi sono blocchi di testo, o meglio “cluster”, agglomerati interrotti da un punto. Ma sono contento che si riattivino, sui social, certe zone arcaiche della scrittura, come geroglifici, ideogrammi, con gli emoticon. E quando spiego il Manifesto della Letteratura futurista, con il suo “abolire la punteggiatura!”, i ragazzi mi dicono: “Noi siamo Futuristi!”».
«Il Corriere della Sera» del 13 settembre 2015

11 settembre 2015

Wagner, Hitler e la "musica" del nazismo

Il museo a Bayreuth
di Giacomo Gambassi
Il volto di Adolf Hitler, incorniciato fra le svastiche sulla facciata del teatro del Festival di Bayreuth, compare in uno schermo della casa di Siegfried Wagner. Si varca una porta ed ecco la sala da pranzo con un caminetto in pietra e un lampadario in ferro battuto. Il totem spiega che intorno al lungo tavolo si sono seduti gli eredi di Richard Wagner assieme ad Arturo Toscanini o Richard Strauss, ma anche con Hitler e il ministro della propaganda Joseph Goebbels che erano ospiti fissi. Sul pavimento un display mostra i nipoti del compositore, Wieland e Wolfang, accanto al Führer nel 1934.
Dalle finestre si vede Villa Wahnfried, la tenuta nel centro di Bayreuth dove Wagner ha trovato «pace» (come lui stabilì fosse scritto all’esterno) e ha trascorso l’ultimo scorcio della vita. La villa in stile neorinascimentale, la casa di Siegfried (figlio del compositore) e una nuova dépendance dai lineamenti contemporanei formano il nuovo museo di Richard Wagner.
È stato appena aperto nella cittadina della Baviera scelta dall’irrequieta penna per custodire il suo “verbo” musicale con il Festival voluto dal genio romantico nel teatro fatto costruire a misura delle sue partiture, il Festspielhaus. Un “tempio” che negli anni del Terzo Reich è stato il megafono musicale del nazismo e su cui ancora aleggia quell’aurea “nera” figlia dell’incontro fra Hitler, le creazioni di Wagner e i parenti dell’autore del Ring. Da Bayreuth è passato un pezzo di storia della Germania con le sue vette artistiche e le sue barbarie ideologiche. «Wagner è una pietra miliare dell’identità cittadina», afferma il sindaco Brigitte Merk-Erbe accanto alla tomba del maestro nel giardino della villa. E una delle pronipoti, Nike Wagner, scherza: «Col nuovo allestimento è stato costruito un bar vicino alla lapide. Così emenderà il ricordo di Hitler che qui ha dormito».
«Il museo non sarebbe stato completo se non avessimo affrontato anche questo controverso aspetto», spiega il direttore Sven Friedrich. Per metterlo a fuoco serve entrare prima di tutto dentro Villa Wahnfried edificata fra il 1874 e il 1876 grazie a Ludovico II, il “re folle” di Baviera stregato dalla musica di Wagner e suo prezioso mecenate. La casa è stata bombardata nel 1945 e i Wagner l’hanno abitata fino al 1966 prima di cederla al municipio. Nel piano rialzato viene narrata la vita del cantore di Sigfrido e Brunilde con scritti, spartiti, oggetti, abiti. E fra le stanze è collocata la pagina autografa del pamphlet Il giudaismo nella musica in cui Wagner descrive l’influenza «corruttrice» del popolo eletto e se ne auspica l’eclisse. Gli storici sostengono che il suo antisemitismo non è soltanto espressione del clima culturale tedesco di metà Ottocento ma scaturisce anche dall’incubo di essere figlio di un ebreo, l’attore Ludwig Geyer, sposato in seconde nozze dalla madre.
L’ossessione contagia la moglie Cosima, figlia di Franz Liszt, che dopo la morte di Wagner, nel 1883, sarà per trent’anni la “guardiana” della sua musica e la direttrice del Festival. Proprio a Bayreuth metterà in scena nel 1888 un’edizione dei Maestri cantori di Norimberga senza «impuri», ossia senza artisti di origine ebraica. Lo ammette la mostra “Voci silenziate” dedicata agli ebrei estromessi dal Festival che le pronipoti di Wagner, Eva Wagner-Pasquier e Katharina, oggi direttrici della rassegna, hanno voluto nei giardini del Festspielhaus. Insieme con il nuovo museo è un modo per fare luce sugli anni oscuri di Bayreuth: nella mostra per desiderio della famiglia Wagner; a Villa Wahnfried su richiesta delle istituzioni, dal Comune al Governo federale, che con 22 milioni di euro hanno finanziato il riassetto della struttura aperta per la prima volta nel 1976.
Intorno a Cosima nasce il “circolo di Bayreuth”: è un cenacolo di devoti di Wagner ma diventerà una congrega di antidemocratici e antisemiti. A fomentare questi sentimenti l’inglese Houston Stewart Chamberlain, marito della figlia di Wagner, Eva, e autore del libro I fondamenti del diciannovesimo secolo in cui esalta la razza ariana. Con lui sarà un’altra inglese, Winifred, moglie di Siegfried, a sancire il binomio Wagner-Hitler, a 40 anni dalla morte del compositore. Adottata dal pianista Karl Klindworth, respira in famiglia il nazionalismo teutonico e sposa il figlio di Wagner, di 28 anni più anziano, per coprine l’omosessualità.
Nel nuovo museo lo studio di Winifred, in un angolo della casa di Siegfried, aiuta a comprendere il “Wagner nazista”. Si rivela il primo incontro fra lei, il marito e Hitler nel 1923; la sua iscrizione al Partito nazionalsocialista nel 1926; l’intima amicizia con Adolf a cui dà del “tu”; la presenza costante di «zio Wolf» (così Winifred chiama il dittatore) a Villa Wahnfried e nel teatro di Wagner anche prima dell’ascesa al potere nel 1933. Già Siegfried, riaprendo il Festival nel 1924 dopo la grande Guerra, ne fa una ribalta nazionalista, ma sarà la “signora di Bayreuth” – com’è soprannominata Winifred – a trasformarlo in un «palcoscenico della propaganda nazista» quando nel 1930 ne assume la direzione alla morte del marito. Un’operazione grazie a cui la nuora «salvaguardia il Festival» assicurandosi «cospicui finanziamenti» del Reich e «una significativa autonomia» artistica, precisa Friedrich. Qualcuno l’ha descritta come amante di Adolf: lei ha sempre smentito, persino in un’intervista del 1975 dove – fa sapere il museo – rimarca la sua ammirazione per Hitler.
La corrispondenza d’amorosi sensi fra il Führer e i Wagner è cercata anche dal dittatore che si innamora del genio di Lipsia fin da ragazzo. Nel Mein Kampf racconta: «A dodici anni ho visto la mia prima opera, Lohengrin. In un istante ho compreso che il mio entusiasmo per il maestro di Bayreuth non avrebbe conosciuto limiti». Dirà anche: «Il suo pensiero mi è intimamente familiare». Hitler eleva la musica di Wagner a colonna sonora del regime: impone di eseguire i Maestri cantori dopo la “giornata di Potsdam” del 1933 e ne fa l’emblema del Führerkult; usa Rienzi nelle cerimonie ufficiali; fa suonare la marcia funebre di Sigfrido (tratta del Crepuscolo degli dei) nelle esequie dei gerarchi.
Le saghe germaniche, al centro dei lavori wagneriani, giocano un loro ruolo nell’appropriazione hitleriana del musicista che era un anticapitalista anarchico (come emerge dal ciclo dell’Anello del Nibelungo) seppur con tratti aristocratici. Va perciò considerata un’usurpazione la manovra che innalza Wagner a profeta del nazionalsocialismo nonostante alcuni suoi scritti. Durante il Reich si realizza una strumentalizzazione a posteriori delle sue partiture che ancora oggi continuano a essere gravate dal pregiudizio. È il caso del perenne “no” alle esecuzioni delle opere wagneriane in Israele. Persino il suo antisemitismo “teorico” è contraddetto da lui stesso: per la prima di Parsifal a Bayreuth nel 1882 sceglie personalmente come direttore d’orchestra l’ebreo Hermann Levi. L’intero maneggio nazista rimuove anche le debolezze umane presenti nei drammi musicali: persino Lohengrin, caro al dittatore, non lo si vede alla stregua di chi è condannato all’incomprensione, come voleva Wagner. Ed è delirante la rilettura di Parsifal da parte del Führer che indica il titolo come fondamento “sacro” della sua ideologia: «Quello che si celebra non è una religione cristiana schopenhaueriana della compassione, ma il sangue puro e nobile» del popolo ariano.
Nel secondo dopoguerra la denazificazione di Bayreuth rimane a metà: esiliata Winifred, i suoi successori alla guida del Festival, i figli Wieland e Wolfgang, preferiscono lasciarsi alle spalle il passato piuttosto che scandagliarlo. Adesso provano a voltare pagina le pronipoti e un museo (rivisto e corretto) da visitare.

IL NUOVO MUSEO DI WAGNER A BAYREUTH
Non c’è solo il rapporto fra il clan Wagner e il nazismo nel nuovo museo dedicato al rivoluzionario compositore tedesco a Bayreuth. Fulcro dell’esposizione è Villa Wahnfried, la casa dove Wagner ha composto parte del Crepuscolo degli dei e l’intero Parsifal. La villa conserva segmenti degli arredi originali e nel salone affacciato sul giardino dove è sepolto il maestro si trova la sua biblioteca. Fra i volumi “italiani” spiccano quelli su Dante Alighieri e sui musicisti Gioacchino Rossini e Gaspare Spontini. Interessante la serie di libri sulla vita di Lutero. Nel piano rialzato viene ripercorsa la vita del genio romantico anche con gli spartiti di tutte le sue opere. Ma il “tesoro” si trova nei sotterranei dove può essere ammirata l’intera partitura originale di Tristano e Isotta. Accanto alla villa è stata aperta per la prima volta la casa di Siegfried, figlio di Wagner, in cui viene documentato il passato hitleriano della famiglia. Sul lato opposto è stato costruito un nuovo edificio dove si narra la storia di Villa Wahnfried e quella del Festival wagneriano con costumi di scena e modellini degli allestimenti proposti nella rassegna voluta da Wagner fin dal 1876.
«Avvenire» del 4 settembre 2015

Bugie e violenza sui social la colpa è un po’ di tutti noi

Impariamo a fare pulizia contro le notizie inventate per seminare odio
di Gigio Rancilio
Un tempo i giornali che facevano cattiva informazione venivano tenuti ai margini. Oggi sul web sembra quasi non ci sia più distinzione. Apparentemente vale tutto, valgono tutti. Il primo che arriva o che urla più forte «vince». Se poi diamo retta alla media dei commenti che circolano sui social network, non solo non si salva quasi nessuna testata giornalistica ma "la verità" sembra il più delle volte albergare solo e soltanto nel mondo digitale.
Non ci interessa però addentrarci in una sorta di sfida tra informazione tradizionale e digitale, ma provare – per una volta – ad affrontare il tema della qualità dell’informazione in maniera diversa. Nessun direttore marketing e nessun stratega del web probabilmente approverebbe. Per entrambi, il lettore – tradizionale o digitale – va sempre blandito. Invece, se sul web e sui social network l’informazione di qualità fatica sempre più a trovare spazio, sommersa da tante sciocchezze e da molte bufale, la colpa – caro lettore – è anche tua. Magari non tua, ma del tuo vicino, di un tuo amico o un di un tuo parente.
Lo dicono i numeri: il 45% di chi frequenta i social non sa cosa commenta o commenta senza leggere il post col quale sta interagendo, mentre il 47% degli italiani legge la realtà che lo circonda soltanto in base alla propria esperienza o a quella di un amico. In pratica, il mondo è «solo» ciò che percepisce e pazienza se c’entra soltanto in minima parte con la realtà. Lo so che può suonare un po’ offensivo e per questo chiedo in anticipo scusa, ma se i social sono intasati di bugie e di violenza la colpa è anche tua, mia, nostra. Di chi commenta con leggerezza pseudo notizie senza verificarle e di chi magari condivide articoli falsi, creati ad arte per generare odio. Forse non lo sapete, ma in Rete ci sono centinaia di siti e pagine Facebook costruiti ad hoc per seminare odio con notizie false.
E lo fanno non a fini "politici" (cosa di cui già ci sarebbe molto poco di cui vantarsi) ma per guadagnare soldi. Un esercito dell’odio a fini commerciali – e per questo ancor più cinico e senza scrupoli – che però esiste (scusa, se te lo ricordo) solo e soltanto perché qualcuno di noi o molto vicino a noi lo rende di successo, leggendo e condividendo le falsità che pubblica. Qualche giorno fa uno di questi untori moderni che seminavano la peste sul web è stato arrestato. E ha ammesso candidamente di avere inventato decine di notizie false che accusavano gli immigrati di centinaia di nefandezze per fare soldi. Già, ma chi ha cliccato su quelle notizie o le ha diffuse senza il minimo dubbio, rendendosi in qualche modo complice, perché l’ha fatto? Probabilmente non lo sapremo mai. Ma le statistiche ci dicono che ognuno di noi conosce qualcuno che l’ha fatto sul proprio profilo Facebook. In giro purtroppo, stando alla sola Italia, sono ancora attivi moltissimi siti e pagine così.
Senza contare quegli utenti che intervengono su web e social per offendere e scatenare odio, colpendo chiunque con frasi e parole irripetibili e inaccettabili. I guru del web tollerano queste figure perché, continuando ad attaccare tutti a testa bassa sulla Rete, «fanno traffico». Ma le persone per bene hanno il dovere di emarginarle. Abbassare i toni e fare un po’ di pulizia serve a tutti. In primis ai lettori dotati di coscienza.
«Avvenire» del 10 settembre 2015

Scuola, Mastrocola: no alla dittatura dell'ignoranza

J'accuse dell'insegnante-scrittrice
di Roberto Carnero
Un tempo lo studente ribelle era quello che non studiava: il rifiuto dello studio era il segno più palese ed eclatante della ribellione. Oggi invece le cose vanno esattamente in senso opposto: poiché la grande maggioranza dei ragazzi sono interessati a tutto tranne che a studiare, la vera ribellione consiste proprio nel farlo. Questa è la tesi – netta e tranchant, sebbene argomentata in maniera articolata dell’ultimo libro di Paola Mastrocola. È un’opera che appartiene al genere in cui la scrittrice torinese ha da sempre raggiunto i risultati più felici, quello del pamphlet.
Andata in pensione da un pluridecennale insegnamento liceale (l’informazione è data a un certo punto tra parentesi, ma già questa è una notizia), Mastrocola prova ancora ad avvicinarsi agli adolescenti con sguardo critico e curioso, e anche con maggiore benevolenza. Inevitabilmente li confronta con i ragazzi di quando adolescente era lei, evidenziandone vari punti di distanza. Lo studio, anzitutto: da attività centrale di un ragazzo (in quanto suo compito precipuo) a una sorta di optional, per lo più ritenuto inutile e spesso addirittura disprezzato.
Le ragioni – che l’autrice non manca di elencare e di analizzare – sono molteplici. La scuola è sempre meno in grado di funzionare come «ascensore sociale», e dunque perché ammazzarsi di fatica sui libri? I cosiddetti «nativi digitali» sono convinti che non serva a nulla imparare dati e immagazzinare nozioni, perché tanto qualsiasi informazione è immediatamente reperibile in rete con un clic. A sostenere questa «difesa dell’ignoranza» collaborano spesso i personaggi mediaticamente più in vista: esponenti dello sport, dello spettacolo, della politica e persino della cultura.
La "colpa", insomma, non è tutta dei ragazzi; anzi, è soprattutto di noi adulti. Scuola compresa: una scuola che si autopromuove sempre più spesso come mero luogo di socializzazione, più che come istituzione tesa a trasmettere precisi contenuti disciplinari e messaggi formativi. A un certo punto l’autrice si chiede quanti siano oggi percentualmente i docenti che trascorrono le ore libere dall’insegnamento leggendo libri pertinenti alla loro materia (cosa normale fino a qualche anno fa). Probabilmente pochi, certamente molti meno che in passato, poiché la scuola tende sempre più a occupare il loro tempo con riunioni sulla programmazione didattica, sull’orientamento in entrata e in uscita, sull’accoglienza, sui bisogni educativi speciali, sulla dislessia e sulla discalculia, sull’uso delle nuove tecnologie eccetera eccetera. Ma in questo modo come si può coltivare quella passione per il latino, per la storia dell’arte o per la matematica da passare poi agli alunni? E un docente che, soffocato dagli impegni burocratici, non può vivere la propria passione potrà trasmettere ben poco.
Nero pessimismo? No, sano realismo. Lo stesso che ha connotato negli ultimi 15 anni (dal suo romanzo d’esordio, La gallina volante, 2000) lo sguardo della Mastrocola. La quale ricorda una riflessione di Eugenio Montale datata 1975: «Non c’è scampo. Abbiamo perduto gli ormeggi e siamo costretti ad andare alla deriva. La crisi è dappertutto, in tutti i campi. È inutile chiudere gli occhi. E nessuno sa più cosa credere, nessuno sa più cosa fare». Per trarre proprio da lì qualche motivo di speranza: «Mi rincuora sapere che il mio poeta italiano preferito pensasse anche lui di vivere alla fine dei tempi, dal momento che nel mio piccolo lo penso anch’io [...]. È possibile che siamo in una fase di decadenza, sì, anzi, è quasi certo». E aggiunge: «Ho, per il Decadentismo, un amore forsennato. Abbiamo chiamato così uno dei momenti più belli e più ricchi dell’arte e della cultura europea». Il che però non deve impedirci di resistere e di opporci, coltivando, appunto, la possibilità di essere «ribelli» rispetto al «pensiero unico» che in molti ambiti caratterizza il nostro tempo.

IL LIBRO
Paola Mastrocola, La passione ribelle, Laterza – Festival della Mente, pp. 160, € 14,00
«Avvenire» dell'11 settembre 2015

05 settembre 2015

Chi si occupa dei primi della classe?

Scuola
s. i. a.
«Non c’è solo il disagio degli studenti più scarsi e con maggiori difficoltà. Ma anche dei più bravi, dei più dotati. Può sembrare strano o assurdo, ma anche loro sono vittime del sistema scolastico. Vedono sprecare il loro talento, a volte non riescono a individuarlo, trascinandosi per inerzia, travolti dalla noia».
C’era una volta l’"Elogio del ripetente", in un fortunato libro di Eraldo Affinati. C’è oggi «l’elogio del primo della classe» di Edoardo Albinati. Lo scrittore romano (fra i suoi ultimi libri, le lezioni di Oro colato, Fandango, e Vita e morte di un ingegnere, Mondadori), dal 1994 insegnante nel carcere di Rebibbia, sposta l’asticella verso… l’alto. La sua «non è una provocazione e nemmeno uno slogan, né tantomeno una posizione retriva», piuttosto un focus sugli studenti che fanno i conti con un sistema scolastico che «non li aiuta trovare la propria strada, a individuare la propria vocazione».

Albinati, c’è bisogno di un elogio dei primi?
«L’elogio è un genere letterario canonico. Lo si è dedicato a una figura classica del mondo della scuola, come il ragazzo difficile, l’ultimo, il ripetente. Io lo applico al primo della classe, come suo simmetrico: il ragazzo dotato e talentuoso, che a sua volta, spesso, è un ragazzo fragile e problematico. Con la paura di mostrare il proprio talento, di essere considerato diverso. E rischia di diventare il bersaglio dei compagni, ma anche di certi insegnanti che non riescono ad aiutarlo, che temono la sua precocità e intelligenza».

Mi vengono in mente le pagine del libro Cuore ...
«L’ho riletto non tanto tempo fa. È formidabile. C’è il famoso Franti, il cattivo, il ribelle. Talmente screditato da tutti che Umberto Eco lo ha poi scelto polemicamente per il suo spiritoso elogio. Io ho ripensato allora a De Rossi: un ragazzo splendido, generoso, disponibile ad aiutare gli altri. Del primo della classe ci si è fatta un’immagine odiosa o ridicola, fin dai film sui cosiddetti “Nerd”: lo scienziato pazzo in erba, la ragazza che studia e basta e non si concede svaghi. Invece sono soltanto ragazzi, come tutti da stimolare. Da pungolare. Nella scuola italiana si rinuncia quasi sempre a farlo. Eppure appena esci da quelle mura, ad esempio, nelle attività sportive, trovi allenatori che ti fanno sputare sangue e pretendono l’impossibile».

La scuola non aiuta i talenti?
«L’idea che l’ingegno si sviluppi da solo è falsa. Le passioni, nei ragazzi di 12, 13 anni, vanno coltivate. Adesso. Se nessuno se ne accorge, si perderanno nel campo incolto. Rischiano di non incontrare mai la loro vera vocazione. Invece quando si manifesta un interesse va sviluppato, perseguito subito, senza aspettare la fine di un ciclo scolastico o l’università o chissà quando. Certi ragazzi tendono a nascondere il talento: chi ama la matematica (magari è un giovane Tartaglia) non lo manifesta per il timore di essere preso come zimbello. A quanti grandi ricercatori sarà successo?».

Una vita da studente disadattato, per poi scoprire…
«Esatto. Chiamiamolo allora “elogio del disadattato di talento”. Una definizione ancora più calzante…».

La scuola pensa invece all’italiano “medio”. Il suo è un dito puntato contro gli insegnanti?
«Nessun dito puntato. È un compito erculeo, che una singola persona fa fatica a reggere sulle sue spalle. Mi rendo conto che a volte è una necessità mirare al centro, ma dovremmo cercare di lavorare di più sulle ali, su quelli che non ce la fanno e su quelli che ce la farebbero molto meglio. Il mio è un appello diretto agli insegnanti. Penso che molti di loro lo facciano già. E i migliori docenti soffrono per non riuscire a fare di più».

I primi della classe possono essere a loro volta uno stimolo per gli altri?
«È l’aspetto centrale: se il primo della classe cresce, anche gli altri ne trarranno beneficio. Il lavoro fatto per i più bravi e soprattutto dai più bravi, ricadrà sull’intera classe. Questo a condizione che ci sia una responsabilizzazione nei confronti degli altri. Il calciatore più bravo non è quello che fa tutto da solo, ma il fuoriclasse che trascina la squadra».

Mentre discutiamo di talenti, migliaia di cervelli vanno via dall’Italia…
«Non mi interessa dove abiti il talento. Ci sono movimenti epocali così grandi che non possiamo controllare e se ci sono aree del mondo più attrattive è solo una cosa di cui prendere onestamente atto. Amen. Mi spiace, certo, che questo non avvenga in Italia e nella mia città. C’è, fra l’altro, una tradizione tipicamente italiana di lavorare all’estero, per lo straniero. Pensiamo ai grandi artisti del passato: geni internazionali, quasi apolidi, in fondo. E questo è un aspetto in fondo positivo. Non ho alcuna soluzione per invertire la rotta della “fuga”. Quello che possiamo fare, e sarebbe già tanto, è permettere ai nostri talenti di venire fuori, di esprimersi, e impedire che restino nascosti. Il vero problema è la “depressione” dei cervelli che avviene nelle aule scolastiche. Non mi preoccupa chi si specializza e lavora all’estero nel migliore istituto di matematica o biologia. Mi preoccupa che nell’ora di italiano o di scienze il tredicenne perda tempo e si annoi al punto di odiare la scuola, o peggio, di disprezzarla, come il luogo dove non riuscirà mai a conoscere se stesso».

La scuola è perennemente oggetto di riforme. Adesso siamo alla «buona scuola». Senza entrare in questioni politiche e tecniche, qual è per lei la buona scuola?
«Il vero nemico della scuola è la noia».

Quindi una scuola che non annoi?
«Esattamente. No, forse questo è impossibile. Diciamo allora: dove ci si annoi il meno possibile… Una scuola dove si stia il minimo indispensabile, ma che sia intensa. Dove il succo, il midollo, vengano spremuti durante le ore di lezione e non dopo, a casa, studiando sui libri. La lezione deve essere il momento in cui devono succedere fatti nuovi, esperienze mai vissute prima. Non una routine».

Lei lavora con i detenuti di Rebibbia. Cosa le ha insegnato questa esperienza?
«La differenza fra fatti e parole. Fra le persone come sono e ciò che le persone dicono. Dai detenuti ho imparato a diffidare dalle chiacchiere e avere fiducia nella parola letteraria. Mi sono accorto che persino nella galera, fra i reietti, la parola letteraria, quando è forte, arriva. Così se insegnare Dante o Machiavelli funziona lì, vuol dire che sono dei grandi e che li si può insegnare a tutti. Il valore della letteratura e il valore dell’insegnamento. La galera mi dà la prova provata che questo si può e si deve fare».

E quanto conta il primo della classe in carcere?
«Beh, lì è decisivo. Ne bastano uno o due all’inizio per tirarsi dietro la classe. Senza di loro, finisce tutto prima ancora di aver iniziato».

FESTIVAL
A SARZANA SI LIBERA LA MENTE
Le vittime dell’attuale sistema scolastico non sono solo gli studenti più scarsi, ma anche quelli più brillanti e capaci, che spesso si trovano a dover lottare da un lato con i professori che a loro poco pensano e dall’altro con il giudizio implacabile dei coetanei, giudizio che puntualmente si abbatte su coloro i quali sembrano reagire all’imperante omologazione differenziandosi dalla massa. Temi (anticipati nell’intervista sopra) che lo scrittore Edoardo Albinati affronterà nell’incontro “Elogio del primo della classe”, sabato 5 settembre alle ore 16, nell’ambito del Festival della Mente.
Primo festival in Europa dedicato alla creatività e ai processi creativi, con la direzione scientifica di Gustavo Pietropolli Charmet e la direzione artistica di Benedetta Marietti, si terrà a Sarzana dal 4 al 6 settembre. Sono 38 gli incontri, tra workshop, spettacoli e conferenze, che animeranno le tre giornate del Festival, aperto con la lezione inaugurale di Luciano Canfora. Info e programma completo sul sito www.festivaldellamente.it
«Avvenire» del 1° settembre 2015

Lo choc di una foto in pagina e il dovere di restare umani

Le mille ragioni di una scelta tormentata
di Umberto Folena
Una delle sintesi più felici di quanto accaduto mercoledì sera nelle redazioni di tutto il mondo, sperando che apprezziate la sottile arte del paradosso, è racchiusa in questo titolo del quotidiano on line Il Post, diretto da Luca Sofri: «Non la mostriamo, perché è terribile; tanto terribile che forse andrebbe mostrata». La foto, Il Post, la mostra. Ma spesso l’altra sera le cose sono andate proprio così. L’immagine di Aylan, il bambino siriano prono sulla spiaggia turca di Bodrum, è terribile. La morte va mostrata o corriamo il rischio di spettacolarizzarla? E se il morto è un bambino, come la mettiamo con la Carta di Treviso che detta le norme di comportamento dei media riguardo i minori? La morte può essere mostrata senza banalizzarla, o è sempre meglio soltanto evocarla? Quella foto aggiunge o toglie qualcosa alla tragedia di chi scappa dalla guerra e muore mentre cerca di salvarsi la vita? Se la mostriamo, possiamo apparire insensibili; se non la mostriamo, reticenti. E ancora: questa foto è un fatto, è destinata a diventare un’icona e quindi è impossibile ignorarla; ma perché non ispirarci al teatro greco, in cui gli atti violenti non avvenivano mai sul palcoscenico ma erano sempre e soltanto evocati, sia pure con crudezza estrema?
C'è chi ha cambiato idea, l’altro ieri. E non solo Mario Calabresi, che pure ha sentito il bisogno di spiegare come sia arrivato alla sua decisione: «Si può pubblicare la foto di un bambino morto – scrive il direttore della Stampa – sulla prima pagina di un giornale? Di un bambino che sembra dormire, come uno dei nostri figli o nipoti? Fino a ieri ho sempre pensato di no». Ma in questo caso mi sarebbe sembrato di girare la testa dall’altra parte: «Così ho cambiato idea. Il rispetto per questo bambino pretende che tutti sappiano». Gli scatti a disposizione delle redazioni erano tre. Avvenire ne ha usati due, ma in modo diverso: in prima pagina sul giornale di carta e sull’on line il poliziotto che tiene delicatamente in braccio il corpicino di Aylan; a pagina 4 il bambino riverso sulla battigia. Foto diverse, dal diverso impatto emotivo. La buona comunicazione tiene conto del mezzo e dei destinatari: il lettore fedele (abbonamento o edicola), che accede alle pagine interne, sappiamo chi sia e pensiamo di potergli proporre l’immagine più forte; chi guarda la copertina, in edicola o nelle rassegne stampa televisive, e chi accede al sito non possiamo sapere chi sia, ignoriamo la sua sensibilità, meglio quindi essere prudenti, ed ecco il poliziotto con il bimbo in braccio. Ogni scelta è discutibile e tutti ne sono consapevoli. Nessuna arroganza, va detto, nel modo in cui i media di tutto il mondo spiegano la propria scelta: se pubblicare o no le foto, e quali pubblicare delle tre.
Il Manifesto, maestro nell’arte del calembour, mostra il bambino prono: «Senza asilo», un titolo che vale un editoriale. Anche La Stampa sceglie l’immagine più forte. Corriere della sera, Messaggero e Fatto Quotidiano scelgono quella con il bimbo in braccio al poliziotto.
Il Giornale non ha nulla in prima e il poliziotto in 3, con una didascalia francamente imbarazzante in cui si spiega che il bambino «è vestito come potrebbe essere uno europeo». Libero ignora del tutto la foto senza fornire spiegazioni. L’agenzia Ansa, nel suo sito, mostra solo la foto del poliziotto perché le altre «potrebbero urtare la sensibilità dei lettori». All’estero quasi tutti la mostrano e con motivazioni simili tra loro. Jérôme Fenoglio, direttore di Le Monde, fa eco a The Independent: «Forse servirà, questa foto, affinché l’Europa apra gli occhi». La Libre Belgique racconta di una lunga discussione in redazione, del principio di non esibire mai la morte e della decisione di fare un’eccezione per «mostrare l’insopportabile». L’olandese De Volkskrant è sicuro, «questa foto nuda e cruda ha rotto gli argini, ha cambiato il corso della storia». Anche The New York Times la pubblica e il direttore, Dean Baquet, ammette: «Ne abbiamo discusso». Tra i grandi quotidiani, soltanto il tedesco Süddeutsche Zeitung opta per il no, ammettendo: «Nessuna risposta è propriamente giusta». Non una semplice foto dunque ma, secondo molti, un’icona che passerà alla storia, come il bambino ebreo che alza le mani davanti al soldato tedesco, come la bambina vietnamita che scappa urlando dal suo villaggio, devastata dalle ustioni.
Come poterla ignorare, sia pure con tutti i dubbi del caso? Una decisione comunque difficile. Persone che lavorano con gli stessi bambini e con la stessa passione giungono a conclusioni opposte. Andrea Iacomini (Unicef) ammette: «Non si può tacere». Ma Ernesto Caffo (Telefono Azzurro) è sempre e comunque contrario a ogni forma di «spettacolarizzazione della morte, in particolar modo se si tratta di un bambino». Peter Bouckaert di Human Rights Watch è a favore ma aggiunge: «Non è una decisione facile». Flavio Lotti della Tavola della pace invece non ha dubbi: «Guardiamole! Anche se strazianti». Un’ultima sintesi può essere affidata a Daniele Biella di Vita. La foto «urta la coscienza ma, a questo punto, serve come ultimo allarme e baluardo per restare umani e soprattutto obbligare i decisori politici europei ad agire». Restare umani, questo è il problema.
«Avvenire» del 4 settembre 2015

Il corpo degli altri

di Ezio Mauro
Come in guerra, contano solo i corpi. I corpi, l'acqua che li porta e la terra: come se fosse da difendere o da riconquistare, adesso che i corpi la attraversano. Naturalmente ci sono i numeri, che danno la dimensione del fenomeno che chiamiamo migrazione, e le sue proiezioni politiche. Ma parlano il linguaggio della razionalità, dunque contano poco, di fronte alla forza simbolica dei corpi e alle paure che suscitano. I corpi degli altri, naturalmente. Noi siamo un insieme, una collettività, una società, una serie di appartenenze e di identità di gruppo che consentono di agire attraverso i nostri rappresentanti, senza spingere i corpi in prima linea. Loro - gli altri - non sono nulla di tutto questo. Non persona, non individuo, non cittadino, senza qualcuno che li rappresenti e spieghi i loro diritti o anche soltanto le loro ragioni: né un partito, né uno Stato, né un sistema d'informazione. Così per forza i corpi agiscono e insieme spiegano se stessi.
Corpi disarmati, nudi, senza nient'altro che una pretesa ostinata e incontenibile di sopravvivere, aprendosi uno spazio nella porzione di terra che consideriamo nostra, dopo essere scampati al mare.
Mentre guardiamo quei corpi azzerando per loro ogni valenza umanitaria, giuridica, civile, cioè eliminando l'universalità dei diritti dell'uomo e la soggettività del cittadino, noi azzeriamo senza accorgercene la politica, la mettiamo fuorigioco. Se non ha a che fare con persone, individui, cittadini ma con cose - strumenti scomodi d'ingombro - la politica infatti è impotente, anzi inutile. Così i corpi possono mostrarsi in tutta la loro evidenza: neri, diversi, straccioni, disperati, affamati, disposti a tutto. Senza la mediazione della politica agiscono in proprio come messaggio d'allarme per la popolazione indigena che siamo noi. Soprattutto la parte più fragile, sola e indifesa, anziani che vivono nei piccoli centri e magari non sono mai usciti dal Paese, e oggi trovano gli " altri" sulle panchine delle aiuole sotto casa. Una fascia di cittadini che si sente minacciata dalla contiguità della diversità, teme confusamente per la sicurezza, per le infiltrazioni jihadiste, per il lavoro, in realtà per la perdita di uniformità, nella paura che venga meno la coesione di esperienze condivise, di fili biografici intrecciati in una unità di luogo, di storia, di esperienza e di tradizione. Come perdere la memoria, e con la memoria il futuro.
Senza la politica in gioco, una sua sottospecie domina intanto il campo. Sono i piazzisti della paura, che non vogliono rispondere a queste inquietudini diffuse ma coltivarle, per trarne un grasso quanto ignobile reddito elettorale. Dunque non propongono soluzioni, ma immagini fantasmatiche, come le ruspe, slogan che non reggerebbero ad una prova di governo ma sono perfetti per raggiungere la solitudine delle paure domestiche dallo schermo tivù. Sono commercianti di corpi, ne hanno bisogno per trasformarli in ideologia nel senso più classico: l'impostura di un blocco sociale che costruisce il dominio attraverso un sistema di credenze erronee e di pregiudizi. Ma la debolezza culturale della sinistra, che non ha saputo elaborare un pensiero autonomo sulle migrazioni, sugli ultimi, capace di rassicurare la parte più debole ed esposta dei cittadini - i penultimi - e di ricordare nello stesso tempo i doveri di una democrazia occidentale, fa sì che quell'ideologia sia diventata dominante, e costituisca il substrato di ogni ragionamento politico corrente, senza più distinzioni. Ciò significa che la posta in gioco delle future elezioni - tutte, dalle comunali alle politiche - è già fin d'ora fissata sulla paura e sulla sicurezza, dunque sull'uso di quei corpi più che sul destino di quelle persone, che sembra non interessare a nessuno. È un problema politico, ma può diventare un problema della democrazia, chiamata a dare una doppia risposta, con una contraddizione evidente: deve rispondere al sentimento diffuso d'insicurezza dei suoi cittadini, e non può non rispondere alla domanda di disperazione e di libertà che viene dai migranti. Può la democrazia restare insensibile ad uno di questi suoi doveri contrapposti e rimanere intatta, o almeno innocente, dunque credibile?
Quando tutto ritorna agli elementi primordiali - il mare, la terra, i corpi, l'acqua, i muri, il commercio di uomini, il filo spinato - la democrazia entra in difficoltà, come se fosse soltanto un'infrastruttura della modernità, incapace di governare questa regressione a condizioni estreme non previste dal sistema politico, istituzionale, culturale che ci siamo faticosamente costruiti nel dopoguerra per garantire noi e gli altri, e per proteggerci nel nostro tentativo di vivere insieme. Valori che abbiamo sempre professato come universali alla prima grandiosa prova dei fatti - un'emergenza demografica, politica, umanitaria - ripiegano su se stessi e rattrappiscono, perché sembrano riservati solo a noi. Le garanzie per i garantiti: che non le vogliono spartire, hanno paura di condividerle, e ne svalutano il valore globale nell'uso privato e parziale.
Quei corpi segnalano infatti prima di tutto la differenza e la difficoltà (che ne deriva) di condividere il concetto di libertà, la sua traduzione pratica. Camminando in Occidente, se fossero accolti, i corpi riscoprirebbero di avere dei diritti, di poter diventare cittadini attraverso il rispetto delle costituzioni e delle leggi, di poter crescere nell'autonomia attraverso il lavoro: di ritornare uomini. Ma quando arrivano in Europa cercano molto meno, pretendono soltanto libertà, una sponda sicura dove appoggiare il futuro dei loro figli. Anzi, quando sbarcano sul nostro suolo inseguono qualcosa di ancora più primitivo e disperato, la sopravvivenza. Perché spogliati della cittadinanza, della soggettività dei diritti, di ogni condizione giuridica se non quella di clandestino, come spiega Giorgio Agamben sono "nuda vita di fronte al potere sovrano". Vita che vuole vivere, nient'altro. C'è qualcosa di evidentemente sacro in questa interpellanza che ci giunge da una condizione così radicale ed estrema. E c'è dunque qualcosa di sacrilego nel considerare ciò che è una riduzione violentemente elementare dell'individuo-cittadino alla nuda vita, soltanto come un corpo. Corpi che possono essere marchiati fisicamente, numerati e catalogati nella loro estraneità da bandire, perché portatori della forma nuovissima e definitivamente incancellabile del peccato originale: il peccato d'origine.
Nel momento in cui accettiamo di fissare fisicamente questa differenza come discrimine nell'utilizzo della libertà, reso parziale, e dei diritti, non più universali, noi non ci accorgiamo che simmetricamente questa operazione sta agendo anche su di noi. E sta agendo con modalità diverse ma sulla stessa scala primordiale che applichiamo agli altri, dunque interviene anche per noi sulla fisicità, addirittura sul nostro corpo, se solo sapessimo vederlo. Tutte le nostre reazioni e le nostre separazioni dal fenomeno migranti, l'affermazione della nostra diversità fissa silenziosamente anche noi in un'identità bio-politica come quella che attribuiamo agli altri, soltanto rovesciata: risveglia infatti il fantasma dell'uomo bianco, qualcosa che l'Italia non aveva ancora vissuto nelle sue mille convulsioni e anche nelle sue tentazioni xenofobe. Non ci chiediamo infatti mai che cosa significano quei muri (di filo spinato o d'indifferenza) per chi giunge fin qui dalla disperazione e ci guarda da fuori, respinto. Testimoniano paura, privilegio, egoismo, parzialità nell'esercizio dei diritti. Quel muro tiene fuori i corpi altrui. Ma nello stesso tempo recinta i nostri, li perimetra e li rinchiude, riducendo la nostra identità a quella fisica del bianco indigeno, ciò che certamente noi siamo - la maggioranza di noi - ma che non ci accontentiamo di essere, perché abbiamo rivestito quel carattere originario di sovrastrutture culturali, storiche, politiche che hanno dato forma ad una figura articolata e in movimento, aperta, autonoma e complessa.
L'uomo bianco, nella regressione identitaria delle paure, viene dopo l'uomo occidentale ed europeo, è una sua riduzione unidimensionale, dunque una sconfitta. Rinasce come figura biopolitica quando neghiamo i valori dell'Occidente, i doveri dell'Europa: garantire sicurezza, ordine e governo a chi lo chiede (soprattutto se è un cittadino disorientato e spaventato), ricostruire la proporzione dei fenomeni tra le cause e l'effetto, rispondere a quella domanda biblica ma anche politica di libertà e di umanità che arriva dalle migliaia di vite nude ammassate sui barconi, in fila davanti a un recinto, accampati in una stazione in attesa di un treno europeo. In nome di una fiducia ostinata, contro la storia contemporanea, nell'universalità della democrazia dei diritti, della democrazia delle istituzioni. Una democrazia che, mentre tiene fuori i dannati credendo di difendere se stessa, rischia di perdere l'anima occidentale dell'Europa, riducendosi a un corpo di leggi inutili e di principi ipocriti: anch'essa un corpo vuoto.
«la Repubblica» del 5 settembre 2015

Le pensioni dei sindacalisti? «Vantaggi doppi rispetto agli altri»

Inps: «Possono cumulare la contribuzione figurativa del lavoro in aspettativa a quella dell’impegno nel sindacato». In più i contributi da sindacalisti vengono valorizzati ancora con il metodo contributivo
di Redazione Economia
Le pensioni dei sindacalisti sono, a parità di regole per il calcolo della pensione, in media più vantaggiose di quelle dei lavoratori dipendenti. Emerge dall’indagine “Porte aperte” dell’Inps che ricorda come per uno stesso periodo i sindacalisti possono cumulare la contribuzione figurativa del lavoro in aspettativa a quella dell’impegno nel sindacato. I sindacalisti in aspettativa non retribuita o in distacco sindacale (aspettativa retribuita utilizzata nel settore pubblico) hanno diritto nel periodo di assenza dal lavoro all’accreditamento dei contributi figurativi ma spesso hanno per lo stesso periodo versati anche contributi dal sindacato che, per i dipendenti del settore pubblico, vengono ancora valorizzati applicando le regole precedenti al 1993 che prevedono il calcolo della pensione sull’ultima retribuzione percepita.
I sindacalisti - spiega l’Inps - «hanno regole contributive e previdenziali diverse dagli altri lavoratori perché possono vedersi ugualmente versati i contributi (o addirittura lo stipendio) da enti terzi rispetto al sindacato presso cui prestano effettivamente il proprio lavoro e perché possono, prima di andare in pensione, farsi pagare dalle organizzazioni sindacali incrementi delle proprie pensioni a condizioni molto vantaggiose». Secondo le banche dati dell’istituto, i lavoratori in aspettativa non retribuita nel settore privato sono stati 2.773 nel 2013 mentre è molto rara in questo settore l’aspettativa retribuita. Viceversa, è frequente nel settore pubblico. Le banche dati dell’Inps evidenziano che nel 2013, i lavoratori del settore pubblico in distacco sindacale erano 1.045 mentre i dipendenti in aspettativa sindacale erano 748. «Per compensi per attività sindacale non superiori alla retribuzione figurativa del lavoratore - sottolinea l’Inps - l’organizzazione sindacale non paga mai alcun contributo. I contributi sulla retribuzione figurativa del lavoratore sono a carico della gestione previdenziale di appartenenza , quindi della collettività dei lavoratori «contribuenti» della gestione».
«Corriere della sera» del 4 settembre 2015

La forza della lentezza nel cuore dell’Europa

La marcia dei migranti
di Pierluigi Battista
La marcia ha un impatto simbolico fortissimo, più di un banale corteo, o del solito comizio. I reietti, i dannati della terra, i profughi in fuga da fanatici e tiranni e che non vogliono rinunciare a percorrere quei 250 km che li separano dalla libertà, scendono dai treni e si mettono in marcia da Budapest. Usano la forza lenta e inesorabile delle loro gambe per trasmettere un messaggio travolgente. La marcia resta sempre qualcosa di memorabile. Questa che si snoda con le lacrime agli occhi di chi non si piega all’ultimo diktat, ancora di più. Le bandiera dell’Europa sventolata con un pathos che nessun europeo ha mai provato ci commuove e ci emoziona. Un popolo in marcia. Sembra il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. Impossibile girarsi dall’altra parte e far finta di niente.
Una marcia può servire una buona causa o può servire finalità abiette. Può dare forza a un sogno, come quella che invase Washington sotto la guida di Martin Luther King contro lo scandalo della segregazione razziale («I have a dream»). O può essere uno stru-mento formidabile di ricatto e di pressione, come quella dell’ottobre del ‘22 condotta dalle camicie nere e che terrorizzò il Re e il fragile palazzo romano.
Questa marcia dà invece una forza irresistibile a chi usa l’unica risorsa di cui dispone, la disperata energia delle proprie gambe, per raggiungere una meta, per lasciarsi definitivamente alle spalle l’incubo atroce della guerra e della persecuzione, vittime incolpevoli di uno scontro immane tra chi non tiene in nessun conto il valore della vita, e figurarsi della libertà. Una determinazione possente di chi si mette in marcia e non vuole accettare l’ultima sconfitta dopo aver lasciato per terra e per mare i bambini che non ce l’hanno fatta, le persone tradite e maltrattate da mercanti d’umanità senza scrupoli. Sono lì, a un po’ di decine di chilometri da un traguardo sognato, e qualcuno può pensare che si vogliano fermare proprio adesso, che non sono capaci di portare a compimento la loro anabasi, di non saper replicare l’epopea dei contadini di Faulkner e di Steinbeck, la marcia verso l’Ovest di chi sui miseri carri non aveva nient’altro che la propria miseria da trascinare per ricominciare daccapo, per raggiungere una meta?
La forza di una marcia come questa è più poderosa di un treno che non vuole partire dalla stazione di Budapest, dove hanno soppresso i convogli «destinazione Ovest». La marcia è faticosa, massacrante, selettiva. Ma è una lezione che si imprime nella memoria. Che mette a tacere gli indifferenti e i paurosi. Che ci interroga sulla nostra passività, sulla nostra acquiescenza di fronte alle atrocità compiute non lontano da qui e il cui peso, anche militare ed economico, siamo incapaci di sostenere. Senza capire da cosa scappano questi nostri fratelli in marcia, cosa chiedono, cosa non possono più sopportare mentre in Europa, la cui bandiera viene sventolata dai profughi, domina l’immobilismo e l’ipocrisia. Ecco il messaggio di chi marcia, la forza dei loro passi. E la vergogna di chi è costretto, finalmente, a guardare in faccia la realtà.
«Corriere della sera» del 5 settembre 2015

04 settembre 2015

La spiaggia su cui muore l’Europa

Mentre la polizia ceca “marchia” i migranti, Italia, Francia e Germania chiedono all’Ue di rivedere le norme sull’asilo. Una foto scuote il mondo
di Mario Calabresi

Aylan, 3 anni, è morto annegato mentre, con altri migranti, da Bodrum cercava di raggiungere Kos (Nilufer Demir/DHA/Reuters)



 
Si può pubblicare la foto di un bambino morto sulla prima pagina di un giornale? Di un bambino che sembra dormire, come uno dei nostri figli o nipoti? Fino a ieri sera ho sempre pensato di no. Questo giornale ha fatto battaglie perché nella cronaca ci fosse un limite chiaro e invalicabile, dettato dal rispetto degli esseri umani. La mia risposta anche ieri è stata la stessa: «Non la possiamo pubblicare».
Ma per la prima volta non mi sono sentito sollevato, ho sentito invece che nascondervi questa immagine significava girare la testa dall’altra parte, far finta di niente, che qualunque altra scelta era come prenderci in giro, serviva solo a garantirci un altro giorno di tranquilla inconsapevolezza.
Così ho cambiato idea: il rispetto per questo bambino, che scappava con i suoi fratelli e i suoi genitori da una guerra che si svolge alle porte di casa nostra, pretende che tutti sappiano. Pretende che ognuno di noi si fermi un momento e sia cosciente di cosa sta accadendo sulle spiagge del mare in cui siamo andati in vacanza. Poi potrete riprendere la vostra vita, magari indignati da questa scelta, ma consapevoli.
Li ho incontrati questi bambini siriani, figli di una borghesia che abbandona tutto – case, negozi, terreni - per salvare l’unica cosa che conta. Li ho visti per mano ai loro genitori, che come tutti i papà e le mamme del mondo hanno la preoccupazione di difenderli dalla paura e gli comprano un pupazzo, un cappellino o un pallone prima di salire sul gommone, dopo avergli promesso che non ci saranno più incubi e esplosioni nelle loro notti.
Non si può più balbettare, fare le acrobazie tra le nostre paure e i nostri slanci, questa foto farà la Storia come è accaduto ad una bambina vietnamita con la pelle bruciata dal napalm o a un bambino con le braccia alzate nel ghetto di Varsavia. E’ l’ultima occasione per vedere se i governanti europei saranno all’altezza della Storia. E l’occasione per ognuno di noi di fare i conti con il senso ultimo dell’esistenza.
«La Stampa» del 3 settembre 2015

03 settembre 2015

Il nonno comandamento

di Massimo Gramellini
Gentile signor Furfaro, autista della linea 1 di Genova, a nome dell’associazione «Tengo famiglia» vorrei congratularmi per il premio Menefreghista dell’Anno da lei vinto con pieno merito. Ricorderò i fatti che hanno portato la giuria ad assegnarle il prestigioso riconoscimento. Saranno state le tre e mezza di notte sul suo autobus fermo al capolinea, quando dei bulli, aizzati dalla ragazza del capo, hanno ridotto in fin di vita a suon di sprangate un passeggero che avevano preso per gay.
Durante l’aggressione, lei è sceso a mangiare un panino. Tornando sull’autobus lo ha trovato sporco di sangue, ma ha pensato fosse birra: immagino birra rossa, irlandese. Interpellato dalla questura sulle ragioni del suo distacco dalle miserie terrene, ha spiegato di avere seguito l’aureo consiglio del nonno, quello di farsi sempre i fatti propri.
Forse lo ignora, ma il suo disinteresse assoluto per i destini di qualsiasi comunità diversa dalla «famigghia» di appartenenza si inserisce in una luminosa tradizione che percorre i secoli e i racconti di mafia, attraversa gli osti dei «Promessi Sposi» e passando da suo nonno e dal senatore Razzi arriva fino a lei. Se avesse affrontato la banda a mani nude sarebbe stato un eroe e a nessuno francamente si può chiedere tanto. Ma se avesse fatto una telefonata al 113, magari mentre aspettava che le farcissero il sandwich, sarebbe stato un cittadino. Troppa fatica.
«La Stampa» del 5 agosto 2015

Gli effetti sull’uomo? Dipende dalla narrazione

L'intelligenza artificiale dominerà solo se non saremo responsabili delle scelte umane
di Luca De Biase
Algoritmi che comprano e vendono titoli sui mercati finanziari, automobili che si guidano da sole, robot da compagnia, traduttori automatici, articoli per i giornali sportivi scritti interamente dal software. Watson, l’intelligenza artificiale dell’Ibm, batte gli umani a Jeopardy, il quiz televisivo americano. Vital, un algoritmo, è cooptato come membro del consiglio di amministrazione di una società di venture capital di Hong Kong, la Deep Knowledge Ventures. Un bot chiamato Random Darknet Shopper viaggia in rete in cerca di merci illegali da acquistare in bitcoin: fa parte di un’installazione artistica ma compra droga vera, riporta Fusion.
Di fronte alla crescente complessità dell’organizzazione della vita sul pianeta, il ricorso all’intelligenza artificiale, ai Big Data, alla robotica e tutto il resto, appare come una grande opportunità. Ma le visioni critiche non mancano, le preoccupazioni montano, si diffonde persino un inutile allarmismo. L’intelligenza artificiale aumenterà l’ineguaglianza ed eliminerà posti di lavoro – anche ad alto valore aggiunto – come sembrano suggerire le analisi di Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee in «The second machine age»? I droni impareranno a fare la guerra con un elevato grado di autonomia? I sistemi di sorveglianza e manipolazione dell’informazione online riusciranno a influenzare le decisioni collettive? L’Italian Association for Artificial Intelligence ha dedicato al tema della sostituzione tra macchine e lavoro un convegno importante a Pisa. Il Future of Life Institute ha raccolto migliaia di firme di scienziati e intellettuali intorno a un documento che invita a prendere consapevolezza delle domande di fondo che pone lo sviluppo dell’intelligenza artificiale.
Come rispondere a queste sollecitazioni? Se si considera il progresso tecnologico come un processo ineluttabile e nello stesso tempo si immaginano le sue conseguenze sociali ci si trova nella condizione di chi batte la testa contro il muro. Forse prima di trovare le risposte si deve stabilire qual è il metodo che serve a rispondere.
McAfee non si tira indietro dal dibattito sulla sostituzione delle macchine ai lavoratori e sull’ineguaglianza. Ma sostiene che una migliore e più diffusa informazione sull’intelligenza artificiale e le tecnologie connesse è la strada principale per consentire alla società di prendere le contromisure. E questo è un punto di partenza.
Il secondo caposaldo è una visione distaccata rispetto alla fiction. La migliore fantascienza ha avuto grande importanza nella generazione dei miti fondativi di nuove società declinate al futuro con tecnologie indipendenti dagli umani. «2001 Odissea nello spazio» e «Blade Runner». Isaac Asimov e Philip Dick. La rivoluzione contro il potere delle macchine di «Matrix» e l’accettazione della seduzione del software di «Lei», esempio recente, hanno abituato l’immaginario collettivo alla possibilità dell’alterità della macchina dal suo creatore umano. Non mancano anche forme di fiction che sconfinano nella saggistica, dallo studio della singularity – che si domanda che cosa succede quando l’intelligenza delle macchine supera quella degli umani – all’estremismo evoluzionistico che si domanda come emergerà una nuova specie post-umana.
L’importanza delle grandi narrazioni è sottovalutata nell’interpretazione dello sviluppo tecnologico e delle sue conseguenze sociali. Le narrazioni hanno la capacità di costruire una prospettiva all’interno della quale si operano le scelte. La tecnologia è malleabile e il suo risultato prende la forma della visione del mondo che guida chi la progetta e realizza. Il terzo elemento dell’approccio al problema dell’intelligenza artificiale è una visione critica e consapevole delle conseguenze progettuali dei quadri narrativi.
Una grande narrazione come quella che vede nel mercato il meccanismo che alloca le risorse nel miglior modo possibile disegna il quadro organizzativo nel quale la tecnologia si sviluppa attraverso i sistemi incentivanti, la cultura degli obiettivi quantitativi, l’esclusione delle esternalità negative dall’azione degli agenti economici. Una narrazione integrativa, come quella che nasce dalla cultura ecologica, senza voler sostituire il mercato, sottolinea piuttosto un quadro interpretativo più ampio e contemporaneo, nel quale le scelte tengono conto della sostenibilità ambientale, culturale e sociale. Quale sarà la narrazione prevalente? Un fatto è certo: il futuro è la conseguenza delle scelte operate nel presente. E le scelte non sono automatiche: sono una responsabilità umana. È il senso del lavoro di Edge. Tutto da leggere.
«Il Sole 24 Ore - suppl. Nòva» del 19 gennaio 2015

02 settembre 2015

Come stai?

di Massimo Gramellini
Cosa farei se vedessi un uomo sul cornicione di un ponte con i piedi pronti al grande balzo? Jamie Harrington, dublinese di sedici anni, è salito sul ponte, si è seduto accanto all’aspirante suicida e gli ha gettato al collo solamente due parole: «Stai bene?». Per tutta risposta l’uomo si è messo a piangere. In tre quarti d’ora di monologo ha concentrato le miserie di una vita.
La sensazione di essere invisibile, inutile, inadeguato. Jamie gli ha lasciato finire il racconto e poi ha detto: «Stanotte non riuscirei a dormire se ti sapessi in giro da solo per la città. Chiamerò un’ambulanza perché ti porti in ospedale». L’uomo alla deriva si è lasciato trarre in salvo: più per non deludere il nuovo amico che per altro. Si sono scambiati i numeri di telefono. A tre mesi da quella notte lo smartphone di Jamie ha suonato e lui ha subito riconosciuto la voce: «Stai bene? Sono state quelle due parole a salvarmi». «Com’è possibile che ti siano bastate due parole?», gli ha chiesto Jamie. «Immagina se per tutta la vita non te le avesse rivolte mai nessuno».
Stai bene. Nel comunicare col prossimo, persino con le persone amate, si preferisce usarne altre più intrusive. «Come è andata?», «Con chi sei stato?». E quando si chiede a qualcuno come sta è solo per recitare una formula di cortesia che spesso non prevede di prestare attenzione alla risposta. Eppure, se pronunciate a cuore aperto, quelle due parole pare facciano miracoli. L’uomo che voleva togliersi la vita ne ha appena creata una nuova, con la collaborazione decisiva di sua moglie. Dice che aspettano un maschio e che lo chiameranno Jamie.
«La stampa» del 7 agosto 2015

I segreti del successo dei Minions

Cinema
di Gigio Rancilio
Se sapete chi è Kevin, quale strumento suona Stuart e di quanti colori ha gli occhi Bob, probabilmente fate parte di quel milione di italiani che ha già visto il film dei Minions.
Se non lo sapete, forse, vi può essere utile conoscere qualcosa di più di questo autentico fenomeno cinematografico e non solo (siamo già sommersi dai gadget legati ai Minions) che nel mondo ha già incassato più di un 1 miliardo di dollari
Il debutto di questi buffi personaggi gialli, che sembrano una via di mezzo tra fagioli e pillole, risale al 2010, nel film Cattivissimo Me. Nati come figure di contorno, gli “scagnozzi” (questo significa minions) del “cattivissimo” Gru hanno da subito raccolto un tale successo da essere diventati delle autentiche star. Da qui l’idea di fare un film tutto dedicato a loro.

Premessa importante
Il mondo dei Minions è sempre paradossale, a partire dall’idea che il loro obiettivo principale della vita sia quello di trovare un supercattivo da servire, anche se i nostri protagonisti non sono mai violenti ma quasi sempre pasticcioni e ridicoli. Gente buffa che parla una propria lingua composta da un insieme di vocaboli veri presi da diversi idiomi del mondo e parole del tutto inventate.

La trama è presto detta
La storia dei Minions comincia dalla notte dei tempi. Partendo da un organismo giallo unicellulare, i Minions si evolvono attraverso i secoli, costantemente al servizio del più cattivo di turno. Dopo aver accidentalmente distrutto tutti i loro padroni – da un dinosauro a Napoleone – i Minions si ritrovano senza nessuno da servire e cadono in depressione. Ma un Minion di nome Kevin ha un piano e – in compagnia del giovane ribelle Stuart e del piccolo Bob – si avventura nel mondo per trovare un nuovo cattivissimo padrone. Il trio comincia così un viaggio che li condurrà a scoprire il prossimo potenziale padrone, Scarlet Overkill, il primo supercriminale donna del mondo. Partendo dalla desolata Antartide, attraverso la New York degli anni ’60, finiranno a Londra, dove dovranno affrontare la sfida più difficile: salvare tutta la razza dei Minions dall’annientamento.

Perché funzionano
Il film è godibilissimo. Con gag comprensibili anche dai più piccoli e rimandi (come quello dei Minions che sbucano da un tombino a Londra, esattamente in Abbey Road, mentre i Beatles stanno attraversando le strisce pedonali per il celebre servizio fotografico legato all’album Abbey Road) che faranno divertire anche gli adulti. Un’ora e mezza di sorrisi e pura evasione. Senza obiettivi alti ma anche senza eccessive cadute di gusto. Unico avvertimento: è molto, molto difficile rimanere immuni al fascino dei Minions. Dal coraggioso Kevin, al “ribelle” Stuart fino al piccolo e tenero Bob (con tanto di orsacchiotto e amico topolino e per questo amatissimo da tutti i bambini più piccoli), ognuno troverà il Minion che più gli piace. E magari uscirà dal cinema urlando “banaaanaaaaa”.

Unico neo
Se la colonna sonora, quasi tutta con canzoni anni 60 e 70, è di grandissimo effetto e molto curata, così non si può dire del doppiaggio italiano dei personaggi. Se Alberto Angela e Selvaggia Lucarelli hanno una parte così piccola da essere quasi invisibile, la cattiva Scarlet doppiata dal Luciana Littizzetto e suo marito Herb doppiato da Fabio Fazio sono incolori.
«Avvenire» del 31 agosto 2015

01 settembre 2015

La solitudine del sindacato

di Ilvo Diamanti
Ma a cosa, e a chi, serve ancora il sindacato? Il dubbio si giustifica leggendo le cronache degli ultimi mesi. Delle ultime settimane. Degli ultimi giorni. Dove i sindacati (confederali) ricorrono, con frequenza, come bersaglio polemico. Da ultimo, il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi alla festa del Pd, a Milano. Dove ha sostenuto: "Il sindacato in Italia è stato mediamente un fattore di ritardo" che ha ostacolato "l'efficienza e la competitività complessiva del Paese". Motivo della critica: la vicenda dell'Electrolux, dove i dipendenti hanno lavorato a Ferragosto, accogliendo la richiesta dell'azienda, nonostante il rifiuto dei rappresentanti di categoria. Squinzi è il capo degli industriali. La sua polemica con il sindacato è nella logica del gioco (delle parti. La sua, in particolare). Ma arriva dopo altri leader, più "rappresentativi" di lui. Per primo, Matteo Renzi. Il quale, lo scorso autunno, in conflitto con la Fiom, ha dichiarato che "il posto fisso non esiste più". E, implicitamente, hanno poco senso anche le organizzazioni sindacali. Ma le occasioni di polemica hanno, spesso, origine tutta interna al sindacato. Come dimenticare le perplessità (per non dir di peggio) sollevate dalla pensione percepita dal precedente segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni? Oltre 8 mila euro lordi al mese.
Conseguenti a uno stipendio salito, negli ultimi anni (non per caso), da 118mila a 336mila euro. Ma anche le retribuzioni di altri dirigenti nazionali della Cisl sembrano (un poco...) "esagerate". Il segretario nazionale dei pensionati, per esempio, incassa più di 200mila euro lordi l'anno. Tutto regolare, sicuramente. Ma parecchio, se pensiamo a questi tempi "magri" per i lavoratori. E i pensionati. Unico a pagare, in questa vicenda penosa: Fausto Scandola, il sindacalista veronese "colpevole" di aver denunciato i (mis)fatti. Espulso per aver leso - lui, non i dirigenti ultra pagati - la reputazione della Cisl. Così si spiega la reazione di Gigi Manza, vicentino, dirigente della Cisl Scuola, oggi in pensione. Il quale, dopo oltre 50 anni di militanza, comunica, pubblicamente: "Ho deciso con amarezza di ritirare la mia adesione alla Cisl, sperando di ritornarvi quando rinascerà il sindacato dei lavoratori che ho conosciuto, perché ce n'è bisogno". Non credo, peraltro, che si tratti di un caso isolato.
Il clima nella Cgil appare meno teso. Ma le tensioni non mancano. La segretaria nazionale, Susanna Camusso, di recente, ha preso apertamente le distanze dalla Coalizione Sociale promossa da Landini, ove divenisse un nuovo soggetto politico. Anche se, almeno per ora, Maurizio Landini appare piuttosto un soggetto "mediatico". Di successo.
Tuttavia, la questione del sindacato va oltre le polemiche e le divisioni che scuotono il gruppo dirigente e i suoi rapporti con gli iscritti. Riflette e riproduce, anzitutto, il declino di credibilità e fiducia che coinvolge tutte le sigle maggiori. Dal 2009 al 2015, infatti, la quota di popolazione che esprime (molta o moltissima) fiducia nella Cgil è scesa di circa 13 punti. (Da qui in poi: dati di sondaggi Demos-Coop). Dal 37% al 24%. Mentre la Cisl è passata dal 28% al 20%. È interessante osservare, inoltre come il clima d'opinione peggiori proprio nella base naturale del sindacato. Gli operai. Fra i quali il grado di fiducia verso la Cgil è ridotto al 21,3%. Verso la Cisl e Uil: al 18,7%.
D'altra parte è da anni che il sindacato sta perdendo adesioni. Soprattutto nell'impiego privato. Per contro, "rappresenta", sempre di più, i pensionati: circa metà degli iscritti. Mentre è cresciuto nel pubblico impiego. D'altronde, le adesioni sindacali nell'impiego privato non sono facilmente verificabili.
Tuttavia, ciò non dipende solo dall'incapacità del sindacato e del suo gruppo dirigente. Rispecchia, invece, il cambiamento della società. Sempre più vecchia. Dove i posti di lavoro sono sempre meno e sempre più frammentati. Circa il 60% della popolazione definisce il proprio lavoro: precario, temporaneo, flessibile. Insomma, non c'è più "un" tipo di lavoro a cui fare riferimento. Semmai, lavori e lavoratori "atipici". E "atopici". Senza un "posto" fisso. Presso i quali il sindacato "attecchisce" a fatica. Per difficoltà ambientali. Ma anche culturali. Proprie. Perché sembra aver perduto il ruolo sociale che, ancora pochi anni fa, occupava. Nel 2004, il 30% della popolazione lo indicava come il primo elemento di difesa dei lavoratori. Oggi appena più della metà: il 16%. Mentre, parallelamente, è cresciuto, anche su questo piano, il ruolo della famiglia: dal 10% al 36%.
Il fatto è che tra i cittadini e i lavoratori si è fatta largo la convinzione che il sindacato serva soprattutto a chi ci opera. Ai sindacalisti. In primo luogo: ai gruppi dirigenti.
Tuttavia, non credo vi sia di che rallegrarsi.
Perché il sindacato è "servito" a tutelare gli ultimi e i penultimi. Quelli che da soli non ce la possono fare. E, per difendersi, hanno bisogno di unirsi agli altri, che condividono la loro condizione. Ormai non è più così. Il sindacato rappresenta i garantiti. Mentre la questione dei "diritti", posta da un grande leader sindacale come Bruno Trentin, - ha osservato Bruno Manghi - è "brandita per la difesa della rivendicazione specifica, mai per quelle altrui".
Ma a quel punto "i diritti" perdono valore. E ciò costituisce un problema. Per i lavoratori, per gli "esclusi", ma anche per il sindacato.
Tuttavia, non hanno di che rallegrarsi nemmeno Squinzi e Confindustria. Il "sindacato degli imprenditori" ha perduto a sua volta credito. Dal 32,9% nel 2009 al 25,2% registrato alcuni mesi fa. (E quando si utilizza esplicitamente la denominazione "Confindustria" i valori scendono ulteriormente.) Le polemiche e le tensioni, comunque, si sono allargate anche all'interno. Molte imprese - soprattutto le più grandi - si "tutelano" e si rappresentano sempre più da sole. A partire dalla Fiat di Sergio Marchionne. "Il tempo è scaduto anche per Confindustria", ha affermato Alessandro Barilla due anni fa.
Neppure questa, però, è una buona notizia. Per nessuno.
Perché, nell'epoca dei partiti personali e personalizzati, al tempo dei partiti senza società, dove avanzano leader "soli" e da "soli": la burocratizzazione del sindacato e delle organizzazioni imprenditoriali, lascia i cittadini ancora più "soli". Più lontani dalla politica e dalle istituzioni.
Così, senza mediazione e mediatori, la democrazia rappresentativa diventa sempre più incolore.
Una parola insignificante.
«la Repubblica» del 31 agosto 2015