27 agosto 2015

Sparatoria in Virginia, le due telecamere e il tabù infranto

I media: la ferocia social
di Aldo Grasso
Ovunque censurata e dissimulata, la morte sembra risorgere in tv nelle vesti dell’imprevisto o come offerta sull’altare delle emozioni
Si fa presto a dire la morte in diretta, ma una scena così atroce non si era mai vista. Un killer uccide a colpi di pistola la giornalista televisiva Alison Parker, 24 anni, di una rete locale della Cbs e il cameraman Adam Ward, 27 anni, mentre stanno effettuando un’intervista. Sono immagini terrificanti: il volto della giornalista, che vede l’assassino avanzare e sparare, esprime l’orrore più grande che si possa immaginare. Seguiamo i suoi ultimi disperati tentativi di sfuggire la morte: la giovane si gira urlando, cerca di nascondersi, grida «oh mio Dio», prima che la telecamera del cameraman cada a terra. Cascando, la telecamera riesce a inquadrare per un attimo il volto dell’assassino. Dallo studio, la regia taglia la diretta: la conduttrice è sotto choc, senza parole. Riprende poi fiato: «Non siamo sicuri di cosa sia successo lì. Cercheremo di capire cosa fossero quei suoni». Poi arriva l’annuncio della morte della reporter e del collega.
Ma non basta: l’incubo più grande deve ancora arrivare. Vester Lee Flanigan, un afroamericano che aveva lavorato per quel network utilizzando il nome Bryce Williams, posta sui social il filmato del delitto visto dalla sua prospettiva, quella dell’omicida (come fanno i tagliagole dell’Isis). Nel video, girato con il telefonino, si vede spuntare una pistola in primo piano, prima che inizi l’assurda resa dei conti.
Per la prima volta la morte in diretta ha due punti di vista, quello delle vittime e quello dell’assassino. Come se un tetro gioco di specchi raddoppiasse la tragedia. Il nesso tra la morte e la sua rappresentazione in diretta è uno dei temi cruciali che attraversano le riflessioni sui media, uno di quei temi cui il cinema ha dedicato attenzione, a partire da L’asso nella manica di Billy Wilder a La morte in diretta di Bernard Tavernier, da Dentro la notizia di James L. Brooks ai cosiddetti «snuff movie», filmati amatoriali in cui vengono esibite torture con conseguente, inevitabile epilogo. Da tempo, per i media la morte non è più un tabù: dev’essere raccontata, mostrata, esibita quasi per la paura che una tragedia non vista resti invisibile, cioè inesistente. Ma i media siamo noi, sempre più pornograficamente addestrati a pedinare la morte in diretta. Inutile dare la colpa ai social network, alla mania narcisistica di dover certificare la nostra giornata con foto, video, messaggi.
Da tempo (per noi italiani, almeno dalla tragedia di Vermicino) qualcosa si è spezzato per sempre, la morte si è fatta spettacolo, il nostro occhio si è indurito. Il catalogo delle atrocità è così sterminato che le domande legittime rattrappiscono sul nascere: un «accrescimento senza progresso», diceva Musil, che si risolve nella tranquilla connivenza della tragedia e del suo contrario.
Il dramma di Moneta, in Virginia, ci dice soltanto che un nuovo tabù è stato abbattuto, che un nuovo limite è stato infranto. Ovunque censurata e dissimulata, la morte sembra risorgere in tv nelle vesti dell’imprevisto o come offerta sull’altare delle emozioni. Le immagini condivise sui social dall’assassino sono tanto più terribili quanto più svuotate di qualsiasi sostanza etica: le atrocità crescono, ma nessuno vuol rinunciare a fornire il proprio contributo al patrimonio della ferocia umana.
Non è lo spettacolo che «deve» andare avanti, è la vita. Da molti anni, molta parte della nostra vita si svolge con l’apporto attivo della tv e dei social network. I media sono i nostri nuovi ambienti di socializzazione, «luoghi» in cui impariamo a comportarci, a divertirci, a soffrire. Persino a filmare il duplice delitto che stiamo per commettere.
«Corriere della sera» del 27 agosto 2015

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