14 agosto 2015

Chomsky: ecco il salto dell'uomo nel linguaggio

Parla lo studioso che sarà al Meeting di Rimini
di Andrea Galli
Da quando uscì nell’ormai lontano 1957 la sua prima opera di rilievo, Syntactic Structures, il nome di Noam Chomsky resta uno di quelli con cui chi si occupi di linguistica deve, volente o nolente, fare i conti. La sua idea di una grammatica profonda e 'universale' – l’insieme delle proprietà innate e comuni a ogni uomo su cui si svilupperebbero le grammatiche particolari delle differenti lingue – ha posto da allora un’obiezione radicale al linguaggio visto come frutto di apprendimento su una tabula rasa. Nella sua critica alla corrente del “comportamentismo” nella psicologia del 900 e ai suoi derivati, ha rimarcato l’unicità in natura del linguaggio umano. Giunto a 87 primavere, ma ancora in prima linea nel dibattito scientifico, Chomsky, statunitense, professore emerito di linguistica al Mit di Boston, sarà uno degli ospiti del prossimo Meeting di Rimini (martedì 25 agosto), dove interverrà insieme al neurolinguista Andrea Moro – introdotti entrambi dall’astrofisico Marco Bersanelli – sul tema Stupirsi di fatti semplici: il linguaggio dell’uomo e i limiti della comprensione

Professor Chomsky, dopo decenni di ricerche, cosa la impressiona di più del mistero del linguaggio?
«Proprio di questo parlerò a Rimini. Penso che il mistero più grande sia quello che possiamo definire classico, il problema che portò Descartes a postulare la res cogitans come una proprietà che distingue gli esseri umani da qualsiasi altro “animale- macchina”. La proprietà è il cosiddetto “aspetto creativo dell’uso del linguaggio”, l’abilità di ogni uomo di produrre nuove frasi, senza limite, per esprimere i propri pensieri in modi appropriati alle situazioni, ma non determinati da esse – “indotti” ma non “costretti” secondo i seguaci di Descartes – e di evocare in altri pensieri che loro stessi, come riconoscono, avrebbero potuto formulare».
Pensa ancora, come ha sostenuto anche nel recente passato, che sia difficile conciliare la nascita del linguaggio con l’attuale biologia evoluzionistica?
«È difficile in primo luogo per i problemi insiti nello studio dell’evoluzione delle capacità cognitive, in generale. Le evidenze sono estremamente sottili e l’attuale metodologia di indagine della biologia evoluzionistica non ci porta molto lontano. I problemi di fondo sono affrontati in un importante articolo scritto da un biologo evoluzionista di fama, Richard Lewontin, contenuto nell’opera enciclopedia del Massachusetts Institute of Technology Invito alle scienze cognitive.
Sono problemi di particolare rilievo per quanto riguarda il linguaggio perché si tratta di una facoltà così “isolata”, senza analogie significative in altre specie, che il lavoro comparativo ci dice assai poco. Tuttavia non mancano alcuni contributi degni di nota. Forse il più importante è quello di Eric Lenneberg apparso nel suo lavoro del 1967 Fondamenti biologici del linguaggio, che ha posto le basi per il moderno studio della biologia del linguaggio. Penso che le scoperte sul linguaggio negli ultimi anni ci permettano di portare avanti questi studi in modalità che io e altri abbiamo discusso».

Lei è d’accordo con chi sostiene che il linguaggio è il principale segno di una differenza ontologica tra uomo e animale?
«È la visione tradizionale: di Descartes, Darwin e molti altri, inclusi i principali studiosi contemporanei delle origini dell’uomo come Ian Tattersall. Penso sia una posizione di considerevole valore».

La ricerca sui traduttori automatici continua, con grandi investimenti: è un vicolo cieco o possiamo aspettarci in futuro un software in grado di fornirci una traduzione da una lingua stranier« affidabile e utile, benché mai perfetta?
«Le posso citare un aneddoto personale. Il mio primo incarico accademico 60 anni fa includeva il lavoro part-time a un progetto per una macchina in grado di tradurre. Spiegai subito che non vi avrei lavorato perché non esisteva da alcuna parte un approccio al problema, a livello scientifico, che partisse da principi riconosciuti e al momento ci saremmo dovuti accontentare di sforzi ingegneristici di basso livello, abbastanza rozzi. Molti anni dopo la Ibm e altri giunsero alle stesse conclusioni. I programmi oggi disponibili hanno una certa utilità, il che va bene, ma hanno poco valore intellettuale o scientifico. Non dovrebbe essere una sorpresa. È relativamente da poco che le scienze più avanzate hanno potuto dare un contributo significativo al potenziamento di capacità tecniche, siano esse ingegneristiche o mediche. E anche campi di gran lunga più semplici del linguaggio umano – per esempio la rimarchevole capacità di orientamento degli insetti o i loro sistemi di comunicazione – si situano ai limiti della ricerca scientifica. La comprensione scientifica è cosa ardua. La scienza esplora all’interno dei confini di ciò che è compreso e si concentra, tipicamente, su sistemi artificialmente astratti dai complessi fenomeni dell’esperienza. Ed è il motivo per cui, dopo tutto, gli esperimenti degli scienziati sono astrazioni e idealizzazioni di alto livello. Tradurre implica una serie di abilità e si fonda su delle risorse intellettive che vanno ben al di là del linguaggio stesso».
«Avvenire» del 6 agosto 2015

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