12 ottobre 2014

Colpa delle stelle: affrontare la morte per fregarla, da Omero a oggi

di Alessandro D'Avenia
In prima superiore ho chiesto di portare i libri letti durante l’estate. Sul banco di una studentessa c’era “Colpa delle stelle”, uno dei libri che ha infuocato le classifiche di libri e i cuori di molti ragazzi, anche grazie al film adesso nelle sale: una storia in cui due sedicenni per vivere il loro amore devono chiedere permesso alla morte. Dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei: è la scorciatoia per iniziare a leggere la segnaletica dell’inedito che ogni ragazzo è e che, a 14 anni, non si manifesta scopertamente, ma attraverso scelte (musica, libri, film, serie tv…) che troppo spesso bolliamo come “adolescenziali”, come se da adolescenti si potesse essere altro che adolescenti o l’adolescenza fosse una colpa e non una tappa necessaria a far fiorire la vita.
Ma perché per sentirsi raccontare l’amore i ragazzi scelgono di passare per il crogiolo del dolore? Vivono immersi in una cultura che nasconde il dolore e la morte (se non come spettacolo che è un modo di occultarli). Esaurite le grandi narrazioni religiose e politiche, si trovano privi di codici simbolici capaci di dar senso alla realtà limite. L’uomo è un essere narrativo e simbolico, interpretiamo e stiamo nella realtà attraverso le storie: qualunque azione umana cerchiamo di comprenderla alla luce di una narrazione (Chi è? Da dove viene? Dove va?). Alla Musa si chiedeva di raccontare dell’uomo multiforme, perché quell’uomo era narrativamente la sintesi di ciò che ad un uomo accade nella vita, persino di dare un’occhiata all’aldilà per farsi raccontare come finisce la storia nell’aldiqua. Per poter vivere la vita in anticipo l’uomo si è arrangiato con le storie: gli scrittori sanno che i loro personaggi sono io sperimentali per saggiare la realtà. La società di Omero aveva inventato un modo per superare la morte (il grande tema su cui ogni cultura è costretta a fondare se stessa): socializzarla attraverso la tomba e i racconti epici. La pietra e l’esametro epico (il verso dell’Iliade e dell’Odissea) garantiscono immortalità a un effimero che precipiterebbe nell’oblio, che è peggio della morte.
Le cose non sono cambiate. Ieri come oggi abbiamo bisogno di segni che codifichino e decodifichino la morte, permettendoci di guardarla senza rimanerne pietrificati: abbiamo bisogno, come Perseo, dello specchio dei racconti, dei simboli, per affrontare Medusa. Non si può guardare Medusa direttamente, va affrontata con lo scudo-specchio dell’invenzione culturale. Oggi la Musa canta in serie televisive, musica, libri ... narrazioni che con coerenza gravitano attorno a temi evanescenti nell’educazione simbolica della nuova generazione. A differenza della società omerica che scongiurava la morte con la memoria perenne, oggi è l’amore che sembra avere le credenziali per sconfiggerla. Ma come può se non è per sempre? Gli adolescenti sanno che non si dichiara il proprio amore specificando la data di scadenza come lo yogurt, ma dicendo “ti amerò per sempre”. Per questo cercano storie che (as-)saggino la verità di questa formula: “per sempre” è un’illusione linguistica o la necessaria conseguenza dell’essenza amorosa? Quando lavoravo al film tratto da Bianca come il latte rossa come il sangue, uno sponsor propose di cambiare il titolo, perché la parola sangue poteva spaventare il pubblico. Mi feci una risata: proprio quella parola doveva rimanere, era come togliere il lupo dalla fiaba di Cappuccetto Rosso. I ragazzi di oggi leggono sui volti, ora stanchi ora cinici, della generazione che li cresce la caduta di ogni sogno, sostituito dal morbido o liquido pragmatismo consumistico, e temono che la vita sia una promessa non mantenuta. Ma sentono nel cuore e nella carne che la vita può essere grande e non è fatta per essere riempita di oggetti e botox, ma per essere spesa fino al sangue. Ma per chi o cosa? E come?
Così mi spiego il successo di saghe come quelle di Tolkien, Lewis, Rowling, Martin… L’epica, scacciata dalla porta del nostro cuore rimpicciolito, rientra dalla finestra dei desideri trasfigurati dalla fantasia. Le ragazze (soprattutto) leggono e guardano Colpa delle stelle (mentre i maschi ammirano gli eroi post-omerici del calcio) perché vogliono sapere come si fa ad amare ed essere amate con il coraggio che sfida la morte. Vogliono mettere la testa dove il cuore ha già intuito la verità, e la morte rimane narrativamente (cioè esistenzialmente) il modo più vero per chiamare le cose alla vita. Raymond Carver, scrittore e poeta minacciato – come i protagonisti del libro – dal cancro, volle che sulla sua lapide fossero scolpiti i suoi ultimi versi: “E hai ottenuto quello che/volevi da questa vita, nonostante tutto?/Sì./E cos’è che volevi?/Potermi dire amato, sentirmi/amato sulla terra”. Quando morì aveva solo 50 anni e le parole che un adolescente spesso non riesce a trovare. Ma sa cercare.
«La Stampa» del 18 settembre 2014

La lezione francese sull'utero in affitto

Bioetica, l’Italia rifletta sulla svolta della Gauche
di Francesco D'Agostino
I francesi ci stanno dando una lezione: le grandi tematiche della bioetica attuale (la procreazione eterologa, l’utero in affitto, l’omoparentalità per via artificiale o adottiva, la trascrizione automatica di atti di nascita eterologa avvenuta all’estero) sono da diversi mesi oggetto di un vigoroso dibattito pubblico, attivato da diversi movimenti, ma al quale – archiviata la fase supponente e dirigista anche in queste materie che così cara è costata al Partito socialista e al presidente Hollande – sta contribuendo non poco lo stesso Governo della Gauche, sia nominando commissioni di studio particolarmente qualificate (prive della timidezza che ormai contrassegna il nostro Comitato nazionale di Bioetica), sia attraverso interventi espliciti da parte di uomini politici di primo livello. Come quello dello stesso primo ministro Manuel Valls. In un’intervista a 'La Croix' (di cui 'Avvenire', in solitudine qui in Italia, ha dato ampia notizia sabato 4 ottobre), Valls ha affermato che il no alla maternità surrogata è una «scelta inflessibile» non solo del governo, ma dello stesso presidente Hollande e che la Francia pensa di contrastare la maternità surrogata anche a livello internazionale, attraverso opportune azioni diplomatiche, per indurre i Paesi dove l’utero in affitto è legale a vietarne il ricorso a cittadini stranieri, per stroncare in tal modo ogni tentazione di «turismo procreativo». Non c’è male, se consideriamo che in Italia il governo ha evitato di pronunciarsi su questioni bioetiche assai serie, ma purtroppo ora meno scottanti (come la regolamentazione dei centri di procreazione assistita pronti, dopo l’infausta sentenza della Corte costituzionale, a praticare l’eterologa), e ha rimandato ogni decisione in merito direttamente al Parlamento.
Come andranno le cose Oltralpe è difficile a prevedersi: non a caso il coordinatore della Manif pour tous, cioè del movimento che ha tenuto instancabilmente viva la polemica contro ogni manipolazione della vita, è tutt’altro che tranquillo. Non ha affatto torto, se si considera con quanta arroganza i fautori di una bioetica 'liberale' (come Irène Théry), invece di entrare nel merito delle questioni, continuano a smussarle, insistendo nel dire che il riconoscimento legale di nuove forme di famiglia e di procreazione sarebbe solo questione di tempo e di «maturazione» della pubblica opinione: come se il dibattito (per esempio in merito al diritto alla procreazione artificiale a carico di una coppia di donne) fosse riducibile al contrasto tra 'conservatori' e 'progressisti' (e quindi tra 'cattolici' e 'laici') o, per usare vecchie, ma efficaci espressioni di Umberto Eco, tra 'apocalittici' (terrorizzati dalle nuove tecnologie) e 'integrati' (coloro che invece ne sarebbero entusiasti). Non è così, come dimostra la petizione contro l’utero in affitto, nuova forma di servaggio femminile, pubblicata da 'Libération' (e di cui, ancora una volta, solo 'Avvenire' si è per ora incaricato di informare i lettori italiani) e firmata da numerose personalità di area laico-socialista. Dovrebbe essere chiaro, per chi riesca a togliersi gli occhiali dell’ideologia, che la questione non ha in prima battuta uno spessore religioso, ma antropologico e che la lotta contro la mercificazione del corpo femminile e delle nascite dovrebbe essere percepita come dovere di tutti e non solo dei credenti.
Eppure, incredibilmente, molti continuano a non capirlo, a partire dallo stesso presidente della nostra Corte Costituzionale, che in un’infelice intervista volta a giustificare la nota sentenza con cui la stessa Corte ha fatto cadere il divieto della procreazione eterologa, ha voluto sottolineare (da, ha detto, «cattolico»!) come egli abbia ritenuto un diritto umano fondamentale quello di poter aver comunque un figlio, quindi anche attraverso gameti 'donati'. Che purtroppo tali 'donazioni' siano assai spesso un rozzo trucco, che nasconde cospicue remunerazioni, che il diritto all’identità del nascituro da eterologa venga in tal modo pesantemente leso, che attraverso questi artifici si apra la porta a pratiche indirette, ma non perciò meno gravi, di eugenetica, che con la liberalizzazione della procreazione eterologa si stia creando, anzi già si sia creato, un mercato procreativo, tanto più sconcio quanto più nasconde profitti, interessi e svariate forme di sfruttamento, manipolando perfino le espressioni linguistiche più elementari (la più clamorosa delle quali è quella di «donatore/donatrice di gameti a pagamento»!), di tutto questo il governo socialista francese sembra che cominci ad accorgersene, manifestando una forte intenzione di reagire. In Italia è arrivato il momento di riconoscere, per onestà intellettuale, quanto anche la Francia laica e socialista – dopo la lacerazione al suo stesso interno a causa della introduzione di forza del matrimonio gay – stia facendo i conti con le grandi questioni di bioetica e ci stia sopravanzando su temi cruciali. Dovrebbe essere occasione per noi tutti, e soprattutto per politici e intellettuali, di severi esami di coscienza.
«Avvenire» del 7 ottobre 2014

Benson, apologia da romanzo

Cento anni fa moriva l'autore del «Padrone del mondo». Figlio del primate anglicano, divenne cattolico e prete
di Lorenzo Fazzini
Negli
Pochi anni di vita (solo 43: nato nel 1871, morì un secolo fa, il 19 ottobre 1914), ancor meno quelli da scrittore (10, dal 1904 alla prematura scomparsa), 15 romanzi; un vero, grande capolavoro, Il padrone del mondo (disponibile in due edizioni italiane, quella 'storica' di Jaca Book e quella di Fede & Cultura, che ne sta riproponendo diversi titoli).
Robert Hugh Benson oggi non è in cima alle classifiche, ma a suo tempo furoreggiava come autore di bestseller: «I miei libri stanno vendendo bene, gli editori mi stanno offrendo termini sempre più vantaggiosi» confidava a un amico sul finire della vita. Qualche cifra? La luce invisibile, scritto sulla soglia del passaggio al cattolicesimo, aveva già venduto 5 mila copie (siamo agli inizi del Novecento) quando Con quale autorità?, romanzo storico sullo scontro tra cattolici e anglicani nel ’500, raggiunse la IV edizione e Vieni ruota! Vieni forca! la settima, come certifica il suo (primo) biografo in italiano, il giovane anglista Luca Fumagalli.
Una biografia molto documentata, che inserisce la vicenda esistenziale e culturale di Benson nel quadro più ampio del Regno Unito del tempo, ovvero gli spinosi ma anche fecondi rapporti tra anglicani e cattolici. Fumagalli si sofferma sulla genesi e il retroterra di quei libri apologetici, tutti romanzi storici, che Benson vergava sulla spinta dell’adesione alla fede cattolica, lui ultimo figlio dell’arcivescovo di Canterbury, primate anglicano.
Sono numerose le scoperte sull’autore amato dagli ultimi due pontefici: sia Ratzinger (da cardinale) che Bergoglio (da arcivescovo e pure da papa) hanno dichiarato di aver letto in maniera appassionata Il padrone del mondo. Un libro – molto lodato per il suo tratto profetico anche dal filosofo Augusto Del Noce – che fece esplodere la notorietà dell’autore: Benson fu protagonista di 3 viaggi negli Stati Uniti per conferenze dove brillava come sagace oratore. In Italia i suoi testi, tradotti in almeno 10 lingue, arrivarono già negli anni Venti. «Quasi ogni famiglia cattolica in Inghilterra aveva almeno un libro di Benson» annota Fumagalli.
Nel saggio vengono messi in evidenza diversi legami culturali di Benson, che per un certo tempo fu amico e collaboratore letterario dello scrittore Frederick Rolfe, famoso per il suo Adriano VII (di recente ristampato da Neri Pozza). Benson collaborò con Rolfe per un libro su Tommaso Becket, progetto che però fece venire a galla la diversità incolmabile tra i due: tanto rigoroso e ricco di dirittura morale Benson, soprattutto dopo il sacerdozio ricevuto a Roma nel 1903 (il suo ingresso nel cattolicesimo risaliva al 1902), quanto bohémien e polemico Rolfe.
Ma sono numerosi gli incontri intellettuali di prestigio che Benson intesse nella sua breve vita. Il suo cammino verso il cattolicesimo riceve un impulso decisivo dagli scambi epistolari con padre Vincent McNabb, domenicano irlandese che predicava ogni domenica nei giardini londinesi di Hyde Park (Chesterton lo definì «il più grande uomo in assoluto nell’Inghilterra del nostro tempo»); McNabb aiutò Benson a chiarire il valore dell’infallibilità papale, principale scoglio di incomprensione tra cattolici e anglicani. Anche uno scrittore come Hilaire Belloc spese parole di estrema stima per Benson: «Mi è incredibilmente piaciuto. Ho trovato il suo lavoro di storico davvero unico».
Nel 1904 a Roma ecco poi due incontri quanto mai diversi: il 24 giugno l’udienza privata con Pio X, con un aneddoto curioso: «Il Papa si tolse lo zucchetto, prese quello di Hugh, e li scambiò. Hugh si abbassò per la benedizione, il copricapo cadde, entrambi tentarono di raccoglierlo e sbatterono le teste»... Sempre nella Capitale Benson ebbe un faccia a faccia pure con Romolo Murri, il sacerdote-politico marchigiano che sarà poi sospeso a divinis; i due si incontrano «a tarda notte, nascosti da grandi cappelli e lunghi mantelli, per non dare nell’occhio e non suscitare eccessivi mormorii nel mondo dell’intransigentismo romano».
«Avvenire» del 10 ottobre 2014

Zamagni: Alle radici del pensiero unico

Intervista
di Edoardo Castagna
Da formula di cortesia – o d’amore, o di piaggeria – quel «ogni tuo desiderio è un ordine» è diventato principio giuridico. Non c’è gruppo di attivisti che non reclami il riconoscimento per legge dei propri desiderata, elevati a “diritti”. E guai a contestare queste pretese, magari nel nome di valori che guardano appena un po’ più in là dei gusti personali: scatta immediatamente il “politicamente corretto”, che censura chiunque osi porre un argine tra desiderio e diritto. Una reazione da “totalitarismo culturale”, da “pensiero unico”: «Un’espressione – illustra l’economista Stefano Zamagni – relativamente recente e collegata al concetto sviluppato dal politologo inglese Irving Janis fin dal titolo del suo saggio del 1972 Victims of groupthink (“Vittime del pensiero di gruppo”). Nel pensiero di gruppo, gli individui che lo compongono credono, senza alcuna costrizione, alla verità di quanto elaborato da loro stessi o da chi riconoscono come autorità di riferimento».

Come ci si arriva?
«L’idea, nata studiando le sette religiose, si è poi estesa anche ad altri ambiti. Oggi per esempio i jihadisti sono espressione di un pensiero di gruppo: sono veramente convinti di combattere per la giusta causa, e lo fanno non perché minacciati o retribuiti, ma per seguire l’indicazione del califfo. Ebbene, tra gli anni ’80 e i ’90 questo concetto ha trovato spazio anche in economia, con l’affermazione del modello teorico neoliberista. Inizialmente le cose andavano talmente bene che c’erano economisti (anche premi Nobel) che ritenevano concluso il loro compito, giacché ormai avevano trovato un modello capace di diffondere ovunque il benessere e la stabilità dei mercati».

Erano gli anni in cui Francis Fukuyama teorizzava la «fine della storia» dopo il trionfo dell’Occidente capitalista sul comunismo...
«Sì, ma non solo: il pensiero unico neoliberista aveva dalla sua anche altre due armi di seduzione. La prima era l’eleganza dello strumento matematico. La matematica ha un forte potere persuasivo: quando un teorema “è dimostrato”, l’uomo della strada finisce per crederci, dimenticando che – come ricordano i matematici seri – ogni teorema è valido solo sotto determinate assunzioni di partenza. In ambito finanziario il “modello di Black-Scholes-Merton” è raffinatissimo dal punto di vista matematico e “dimostrava” come i mercati fossero in grado di auto-correggersi tendendo alla stabilità».

E l’altra “arma”?
«Il successo immediato: grazie a quel modello fino al 2007 si sono fatti soldi a palate. La supposta solidità teorica sembrava confermata dai fatti, e la conferma dei fatti contribuiva a diffondere il modello. Naturalmente oggi sappiamo che conteneva errori».

Quali?
«Il principale fu assumere che il rischio finanziario sia sempre esogeno, che cioè provenga sempre dal fattori esterni al sistema: lo rendo tanto più piccolo, quanto più aumento il volume delle transazioni finanziarie. È così che è nata la bolla speculativa dei derivati, sulla quale siamo franati perché invece il rischio era endogeno e quindi aumentava via via che aumentava lo spazio della finanza. I derivati sono stati creati in obbedienza al pensiero unico: per aumentare il numero delle transazioni».

E adesso a che punto siamo?
«Il re è nudo: quella teoria non è più in grado di suggerire linee d’azione. Ci troviamo in un limbo, ma io sono ottimista: la storia del pensiero economico insegna che dall’incertezza entro poco nasce un nuovo pensiero. Fu così nel ’700, quando dopo il mercantilismo si affermarono l’economia civile in Italia (Genovesi, Filangieri, Dragonetti) e l’economia politica in Scozia (Smith); fu così dopo la crisi del 1929, quando emerse Keynes. Oggi anche ex difensori del pensiero unico – come i Nobel Stiglitz, Phelps e Krugman – hanno cambiato direzione, per non parlare di Amartya Sen, che ha cominciato a criticarlo fin dagli anni ’70... Si sta preparando una nuova rivoluzione scientifica».

Ma se il politico continua a delegare al tecnico le proprie decisioni, non c’è il rischio di cadere subito negli stessi errori?
«L’economia deve essere autonoma, ma non separata dall’etica e dalla politica. Occorre ribaltare il principio del “Noma” (Non-overlapping magisteria) teorizzato fin dal 1829 da Richard Whateley, che sostiene che “i magisteri non si sovrappongono”, che per essere scienza l’economia non deve mescolarsi all’etica e alla politica. Business is business. Per evitare di riprodurre il pensiero unico bisogna garantire il pluralismo, invece negli ultimi decenni i fondi di ricerca, le cattedre universitarie, gli spazi di pubblicazione andavano solo agli “allineati”. Questa è dittatura del pensiero».

Una dittatura che non si limita al campo economico...
«Vale per l’economia come per le scienze sociali, il diritto, la bioetica. L’individualismo libertario tende a far credere che le preferenze degli individui abbiano lo stesso statuto dei loro diritti: se preferisco diventare donna e generare un figlio devo poterlo fare, se preferisco scegliere come dev’essere fatto il mio bambino devo poterlo fare... Eppure non c’è solo il “diritto” dell’adulto che decide: c’è anche, per esempio, quello del nascituro. Che non viene mai riconosciuto, perché non c’è nessuno che possa “negoziare” in vece di chi non ha voce».

Ma questa è la teoria liberale classica: mediazione tra diritti che confliggono…
«I vecchi liberali erano persone serie... John Stuart Mill diceva che le preferenze devono avere sfogo fino a quando compatibili con i diritti di tutti. Era lo spirito della prima rivoluzione dell’individualismo, quella illuminista di fine ’700. A fine ’900 invece la seconda rivoluzione ha imposto il pensiero unico di un individualismo non più liberale ma libertario – per il quale le preferenze dell’individuo hanno lo stesso statuto dei diritti. Ed è reso ancor più pericoloso dal fatto che oggi la tecnologia consente di ottenere quello che un tempo non si poteva nemmeno immaginare».
«Avvenire» dell'8 ottobre 2014

08 ottobre 2014

È confermato: la vita va oltre la morte

Studio inglese
di Emanuela Di Pasqua
L’Università di Southampton ha condotto una ricerca su 2mila pazienti colpiti da arresto cardiaco per indagare il livello di consapevolezza delle persone clinicamente decedute
La possibilità che la vita si estenda oltre l’ultimo respiro è una materia che è stata trattata ampiamente, spesso giudicata con aperto scetticismo. Le esperienze riportate dalle persone così fortunate da poterle raccontare sono state generalmente spiegate come allucinazioni dovute alla grave condizione psicofisica. È di questi giorni però la pubblicazione di un interessante studio inglese che comproverebbe il mantenimento di un certo grado di coscienza da parte di persone in arresto cardiaco.

Esperienze coscienti a cuore fermo
Per quattro anni i ricercatori della Southampton University hanno esaminato i casi di 2.060 persone, tutte vittime di arresto cardiaco, in 15 ospedali sparsi tra la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’Austria. Secondo i dati in possesso degli studiosi inglesi, circa il 40 per cento dei sopravvissuti ha descritto esperienze coscienti provate mentre il loro cuore aveva smesso di battere. In cifre, dei 330 scampati alla morte 140 hanno raccontato di essere rimasti parzialmente coscienti durante la rianimazione.

Uscire dal corpo e guardarsi
Singolare il caso di un assistente sociale cinquantasettenne di Southampton che ha raccontato di avere lasciato il proprio corpo e di avere assistito alle procedure di rianimazione dello staff medico da un angolo della stanza nella quale era ricoverato. L’uomo, benché il suo cuore si fosse fermato per tre minuti, ha raccontato nei dettagli le azioni dei medici e degli infermieri e ha ricordato anche i suoni delle apparecchiature mediche. Il particolare che ha attirato l’attenzione dei ricercatori è stato che l’uomo ricordava i beep emessi da un particolare apparecchio, programmato per emettere segnali sonori ogni tre minuti. «Quell’uomo ha descritto tutto quello che è avvenuto in quella stanza - ha dichiarato Sam Parnia, direttore della ricerca -, ma la cosa più importante è che si è ricordato di aver udito due beep. Questo ci permette di comprendere quanto è durata la sua esperienza».

Senso di pace e luce abbagliante
Le altre testimonianze tendono a essere piuttosto uniformi nel loro contenuto. Un paziente su cinque ha sperimentato un inusuale senso di pace e circa un terzo dei 330 sopravvissuti ha assistito a un rallentamento o a una accelerazione del tempo. Alcuni hanno rammentato una forte luce simile a un flash o a un sole splendente, mentre altri hanno raccontato di una sensazione di paura di affogare e venire trascinati in acque profonde. Infine, il 13 per cento di coloro che sono stati rianimati ha ricordato delle esperienze extracorporee e un aumento delle percezioni sensoriali.

Ai confini della morte
Sam Parnia è uno specialista in anestesia e rianimazione, attualmente primario del reparto di Terapia intensiva e direttore del dipartimento di ricerca sulla Rianimazione presso la Scuola di Medicina della Stony Brook University di New York. È considerato uno dei massimi esperti mondiali nel campo della morte, del rapporto mente-cervello e delle esperienze ai confini della morte. Dal 2008 Parnia fa parte del progetto AWARE, uno studio internazionale promosso da Human Consciousness Project al quale hanno aderito venticinque ospedali tra Europa e Nord America. Lo scopo del progetto è quello di verificare se le percezioni riportate da pazienti che hanno superato un arresto cardiaco possono essere provate.
«Corriere della sera» dell'8 ottobre 2014