30 luglio 2014

Matera, il "Vangelo" di Pasolini 50 anni dopo

di Maurizio Cecchetti
Se quasi quarant’anni dopo Pasolini, Mel Gibson trovò ancora a Matera, e proprio negli stessi angoli, il luogo ideale per girare alcune scene di The Passion, questo forse sta a indicare che non c’è un set “naturale” che più di Matera sia capace di rievocare il volto di Gerusalemme. Ma è proprio in questa analogia, probabilmente, che si pone anche la grande differenza tra Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini e la Passione di Mel Gibson: Pasolini voleva ricreare l’atmosfera “umile” che contrassegna il messaggio di Cristo, mentre Gibson si aggrappa alla fascinosa scenografia dei Sassi per rendere con verosimiglianza quasi archeologica lo sfondo dove si svolge il sacrificio. E infatti ambienta una parte delle scene del suo film anche in un altro luogo del Materano, Craco, paesino fantasma, che si svuotò negli anni Sessanta divenendo un rudere arroccato, che per la sua fatiscenza eroica rende una certa idea del passato lontanissimo; Pasolini, invece, cercava altro, inseguiva il respiro arcaico dei Sassi. La loro forma vitale, avrebbe detto Warburg, consegnata a una povertà di forme e di stili di vita.
In una sequenza dei Sopralluoghi in Palestina, film sul viaggio in Terrasanta con don Andrea Carraro e Lucio Caruso alla ricerca d’ispirazione per il suo film, Pasolini parla di Gerusalemme e conclude: «C’è qualcosa di sublime». Non sta dicendo, come potrebbe fare un regista hollywoodiano, di una esperienza grandiosa, quanto piuttosto di una sensazione commovente, dove l’umano tende al divino e in questa ricerca ritrova il tragico delle origini. La ferita che c’è all’origine del mondo e della storia.
Matera ha deciso che questa eredità non può essere dimenticata e dilapidata. Sì, è vero, dopo Pasolini sono stati girati altri film a Matera; prima di Gibson, ci fu il King David con Richard Gere (1985), prima ancora Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi (1975); e molti altri registi, fino ai nostri anni, hanno subito il fascino di quella città scolpita nella pietra tufacea. Ma l’anima di Matera sembra identificarsi per sempre col Vangelo di Pasolini. Così la cittadina lucana che aspira a essere Capitale europea della cultura nel 2019, gioca una delle sue carte più importanti ora con la mostra Pasolini a Matera. Il Vangelo secondo Matteo 50 anni dopo (a cura di Marta Ragozzino e Giuseppe Appella con Ermanno Taviani), organizzata a Palazzo Lanfranchi dalla Soprintendenza e con l’appoggio dell’Arcidiocesi di Matera-Irsina. La mostra è suddivisa in sei sezioni e presenta una miriade di materiali: fotografie, documenti e lettere, disegni (8 sono dello stesso Pasolini) e dipinti, abiti di scena, filmati e video dove alcuni esperti rileggono da punti di vista diversi l’importanza di quel film nella storia del cinema, ma anche come documento che fotografa una quantità di questioni tuttora aperte dell’identità italiana.
Goffredo Fofi, per esempio, ricorda che quando uscì il film polemizzò con Pasolini, perché, dice, il regista-scrittore attribuiva ai contadini il ruolo di soggetto rivoluzionario, «mentre per noi più giovani erano gli operai». Quel film, del resto, suscitò malumore proprio nella compagine marxista dell’epoca, che sospettava una “conversione” del regista. Pasolini era l’intellettuale contro, che aveva criticato la piccola borghesia ed era, come ribadirà lui stesso in una intervista a Carlo di Carlo nel 1967, «contro lo stato» (quello politico, precisa, ma soprattutto lo stato delle cose). Il fatto è che, sottolinea Fofi, Pasolini era fuori dal coro, come Petri o Fellini, registi che fanno emergere nei loro film una «soggettività importante». Una soggettività che riflette, come in Bianciardi e Mastronardi, il disagio verso la civiltà industriale. «Il cinema, dice Fofi, recepisce tutte le tensioni sociali nell’aria che si respira nel nostro Paese uscito dalla grande miseria del dopoguerra e proiettato nel miracolo economico».
Il Sud diventa la «terrasanta» dell’intellettuale che mentre gira il Vangelo deve affrontare un processo per vilipendio alla religione a causa dell’episodio La ricotta nel film RoGoPag (accusa da cui verrà prosciolto nel 1964). Il Sud, da “terra del rimorso” di Ernesto De Martino, diventa terra di riscatto dove ancorare, come afferma Pasolini durante i sopralluoghi fra Israele e Palestina, un film che vuole essere anche un «fatto pubblico e politico», ma questo, precisa, «sarà detto implicitamente attraverso il fatto stilistico», ovvero una «estrema asciutezza». Ecco, il “cinema di poesia” che Pasolini ricerca in quel momento non è disimpegnato, e proprio per questo il regista non amò mai l’avanguardia del Gruppo 63: troppo disincanto e formalismo, troppo piccolo borghese verrebbe da dire.
E dunque i Sassi. Pasolini viaggia al Sud: Puglia, Basilicata, Calabria, e il Vangelo alla fine è il distillato di questa peregrinazione per reperire luoghi che, come i suoi attori presi tra la gente comune, «fossero analoghi» – non finti, non archeologicamente fedeli, ma analoghi: una categoria che è anche l’unica praticabile per non annacquare l’antico e il moderno in una falsa declinazione dell’uno o dell’altro. Il neorealismo era già tramontato da un decennio quando Pasolini gira il suo film. Ma è probabile che nella ricerca dello stile “essenziale” Pasolini avesse ancora in mente il documentarismo di Rossellini: e non era certo il «cinema del pedinamento», come scrisse Longanesi negli anni 30, che doveva sorprendere la realtà fornendoci un «documentario sulla vita degli anonimi».
Pasolini è oltre, e l’atmosfera “senza tempo” dei Sassi non ha la funzione nel Vangelo di una desistenza dal presente, anche se potrebbe essere una risposta alla categoria dell’engagement sartriano; è forse più prossima alla difesa polemica di quell’epopea del mondo contadino che Pasolini vedeva morire negli ingranaggi della produzione-consumo su cui si regge il sistema capitalistico. Così i viaggi al Sud di Pasolini trovano il loro contrappunto nei viaggi al Sud di Ernesto De Martino e nella etnologica documentazione fotografica restituitaci da Zavattini, Gilardi, Pinna. In mostra avvertiamo un’atmosfera simile nelle foto di Matera e del set realizzate da Angelo Novi e Rosario Genovese.
In una lettera a Caruso, Pasolini scrive di aver riletto il Vangelo «come un romanzo», e di avere avuto «l’idea di farne un film». La gestazione, dirà poi il regista, fu la sua «notte dell’Illuminato». Nel video di padre Virgilio Fantuzzi, che gli era amico, ci s’interroga sulla “conversione” dello scrittore. Sono cose che appartengono al segreto del cuore di ogni uomo, e nemmeno un’opera come Il Vangelo secondo Matteo offre una certezza definitiva (tantopiù considerando gli sviluppi della vicenda pasoliniana e la tragica scomparsa).
È degno di nota quanto scrive un cardinale all’epoca considerato tra i conservatori, l’arcivescovo di Genova Siri, in una lettera del 22 febbraio 1963 a don Giovanni Rossi, il fondatore della Pro Civitate Christiana che incoraggiò Pasolini a fare il film: «Per portare avanti la conquista della cultura a Dio, qualcosa bisogna pur rischiare... La prudenza in taluni casi consiglia l’audacia. Esclude solo la temerarietà».
Saggia considerazione, mezzo secolo dopo si può dire che la fiducia fu ben riposta. Tanto che il film vinse il premio francese dell’autorevole Office Catholique International du Cinema, e recentemente l’“Osservatore Romano” si è spinto a dire che Il Vangelo secondo Matteo sia il film su Cristo più importante mai fatto.
«Avvenire» del 30 luglio 2014

Nessun commento: