15 luglio 2014

Ma negli Usa il passato non si cancella

di Federico Rampini
Il problema della "memoria che non scompare", è al centro della recente sentenza della Corte di giustizia europea (13 maggio 2014). Una sentenza per molti versi storica. Accolta con reazioni contrastanti, da una parte e dall'altra dell'Atlantico. "Inattesa, potenzialmente rivoluzionaria", l'ha definita il Financial Times. "Sbagliata, pericolosa per la libertà d'informazione", secondo un editoriale del New York Times. Al centro della sentenza, come spiega il giurista di Harvard Jonathan Zittrain, "c'è una questione di grande importanza, cioè la capacità di Internet di preservare per sempre qualsiasi informazione su di te, anche la più sgradevole o fuorviante".
Cos'ha stabilito la Corte di giustizia? Che abbiamo un "diritto all'oblìo, a essere dimenticati", e che Google in particolare deve rispettarlo. La sentenza si applica a Google in particolare, perché nasce dal ricorso di un cittadino spagnolo che chiese la cancellazione di un link. Quel link, dal motore di ricerca Google portava ad una condanna di bancarotta da lui subìta molti anni fa. L'importanza del pronunciamento dei giudici costituzionali è erga omnes: si applica a tutti, sul territorio dell'Unione europea. La Corte ha stabilito che se un cittadino lo chiede, Google deve togliere dal suo motore di ricerca dei contenuti dannosi o lesivi della sua reputazione. Potenzialmente una sentenza di questo genere andrà applicata anche dai social media come Facebook e Twitter.
Per l'industria tecnologica è inaccettabile e le reazioni sono stata durissime. "Si apre la porta a una censura privata su vasta scala", ha dichiarato un rappresentante a Bruxelles dell'associazione di imprese digitali. "Questa è una forma di censura, come tale sarebbe considerata incostituzionale qui negli Stati Uniti", secondo Zittrain. La distanza tra Europa e Stati Uniti, in termini di cultura giuridica, diventa sempre più ampia dopo questa sentenza. Non c'è dubbio che il principio europeo si presta ad abusi nella sua applicazione. Uno scrittore potrebbe chiedere la cancellazione dei link che rinviano alle recensioni negative sui suoi libri, per esempio. Un affarista più volte condannato per bancarotta fraudolenta potrebbe costringere Google a far sparire i link che portano al suo casellario giudiziale, in modo che i futuri clienti caschino nella trappola ignari del suo passato. Tanti politici potrebbero esigere che spariscano i link con notizie su processi per corruzione, anche se nel caso di "personalità pubbliche" Google avrebbe la possibilità di fare ricorso e l'ultima parola spetterebbe ai tribunali nazionali (il diritto di cronaca sui politici e altre celebrità è tutelato in modi diversi a seconda dei paesi, anche all'interno dell'Unione europea).
In America nulla di tutto ciò è possibile. Il Primo Emendamento della Costituzione protegge la libertà di espressione in un'accezione così estesa che non ha probabilmente eguali al mondo. E tuttavia anche gli americani si pongono il problema delle conseguenze sulla privacy, nell'era della Rete. In base alla normativa Usa risulta difficile, se non impossibile, cancellare perfino dei video che riprendono rapporti sessuali filmati clandestinamente da un partner o ex-partner. Interi siti creati da molestatori digitali (cyber-stalker) con evidenti scopi di persecuzione, sono protetti come altrettante manifestazioni della libertà di pensiero.
Giovani donne che sono state vittime di uno stupro, lo hanno denunciato, e hanno ottenuto giustizia, non possono togliere dalla Rete le tracce della notizia, e quella violenza continua a perseguitarle come un evento di dominio pubblico. I motori di ricerca su Internet, osserva un editoriale del Washington Post, "rendendo ogni tipo d'informazione accessibile dai siti dei giornali o da qualsiasi altra fonte, sono diventati una sorta di coscienza collettiva dell'umanità". Una coscienza che non perdona mai, e può trasformarsi in un incubo. La psicologa Kelly Caine della Clemson University osserva che "questo è un cambiamento epocale, non avevamo mai avuto nulla di simile. Non sappiamo quali ne saranno i costi, il rischio è di non potersi mai liberare del proprio passato, di non poter ricominciare da capo, e scrivere una pagina nuova della propria vita".
Un'obiezione sensata alla sentenza europea è questa: la Corte non ha veramente sancito la cancellazione del nostro passato, ha solo reso più difficile ritrovarlo. Le informazioni su di noi continueranno a esistere, quello che sparisce è il link che dal motore di ricerca Google (o Bing-Microsoft o Yahoo) facilita l'accesso a quelle informazioni. In questo senso, più che proteggere la privacy o il diritto all'oblìo del proprio passato, si rende più costosa la ricerca. Prima di comprare un appartamento o un'auto usata da un privato, anziché cliccare il nome del venditore su Google mi toccherà rivolgermi a un'agenzia specializzata nelle indagini, che mi presenterà una fattura salata. Si tornerebbe all'era pre-Internet, quando ovviamente esistevano gli investigatori privati per scavare nel passato o nel presente di chiunque? Un'altra obiezione è di tipo pragmatico: poiché la Corte di giustizia può regolare solo ciò che accade nell'Unione europea, i cittadini europei che vorranno continuare ad avere un accesso illimitato alle informazioni personali, troveranno il sistema per collegarsi all'Internet "americano". Un po' come accade già oggi per quei cinesi che vogliono aggirare la censura online del proprio governo, e trovano un sistema per collegarsi con la Rete così com'è accessibile da Hong Kong (lì la censura di Pechino non si applica).
Ma quest'ultima prospettiva già ci dice quanto i tempi stiano cambiando velocemente. Da una Rete globale e universale, prevalentemente concepita dagli americani in base al proprio sistema di valori, ci stiamo evolvendo verso una balcanizzazione di Internet. Da una Rete senza frontiere, ad una con posti di blocco, controlli doganali, filtri di accesso.
«la Repubblica» del 7 luglio 2014

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