05 luglio 2014

I talenti in fuga giovano ai talenti che restano

Capitale umano
di Giuseppe Remuzzi
Gli scienziati che lasciano il proprio Paese per affermarsi negli Stati Uniti sono una risorsa: creano legami con gli atenei d’origine, chiamano a sé i migliori giovani, disseminano conoscenza
Prima del nazismo la Germania era il Paese più forte del mondo per la scienza, medica e non. Hitler distrusse tutto. Il primato passò agli Stati Uniti che lo conservano ancora, anche se India e Cina stanno facendo passi da gigante (hanno ventuno università nelle prime cento del mondo). Ci sono voluti più di cinquant’anni perché i tedeschi potessero risalire la china e non sarebbe mai successo senza l’aiuto di chi, dopo aver lasciato la Germania, in tutti questi anni ha continuato ad aiutare il suo Paese da fuori. Ed è stato così anche in America Latina; i dittatori di Brasile, Cile, Argentina, Uruguay, Paraguay hanno fatto scappare i migliori scienziati che sono finiti negli Stati Uniti: là hanno organizzato la loro vita e, passato il periodo delle dittature, non avevano nessuna ragione per tornare in Sudamerica.
E non è che non ce ne fossero di «grandissimi», in America Latina. Ricordate Bernardo Houssay, che dirigeva l’Istituto di Fisiologia di Buenos Aires? Ebbe il premio Nobel per la Medicina nel 1947, ma il governo lo costrinse a lasciare la sua università: lui lo fece in nome della democrazia. Poi c’è stato Luis Leloir, un allievo di Houssay, che ha ricevuto il premio Nobel per la Chimica. Houssay e Leloir non sono stati i soli, basta pensare all’immunologo venezuelano Baruj Benacerraf, a sua volta premio Nobel nel 1980, o a Cesar Milstein, che lo ha avuto per la Medicina nel 1984. Ma le cose stanno cambiando, basta pensare che il numero della rivista «Nature» uscito il 12 giugno dedica 25 pagine agli «architetti della scienza sudamericana» . Quelli, insomma, che vorrebbero che l’America Latina tornasse ai fasti del passato, almeno nella scienza.
Pew Charitable Trusts, per esempio, è una fondazione privata che sta facendo di tutto per aiutare gli scienziati dell’America Latina. Come? Favorendo quella che noi chiamiamo la fuga di cervelli e lo fa con un programma — Pew Latin American Fellows Program — che ogni anno finanzia dieci fra i migliori studenti sudamericani per un periodo di formazione di almeno due anni nei migliori laboratori di grandi tradizioni di ricerca dell’America del Nord.
È scontato che qualcuno dopo qualche anno passato a Washington o a San Francisco resti là; non importa. Quelli che raggiungono posizioni apicali in università di prestigio degli Stati Uniti stabiliscono collaborazioni con le loro terre d’origine (Brasile, Cile, Argentina, Perù), ospitano a loro volta giovani studenti quasi sempre sudamericani e compensano così le carenze delle loro università. Tantissimi però di coloro che partono per gli Stati Uniti — almeno il 70 per cento — tornano in America Latina nonostante le difficoltà a trovare le condizioni giuste per mettere in pratica tutto quello che hanno imparato. E fanno carriera; ormai sono le «star» della scienza sudamericana, pubblicano sulle migliori riviste, dirigono gruppi all’avanguardia nell’agricoltura, nella biologia molecolare, nelle nanotecnologie. «Al contrario dei soldi, che quando lasciano un Paese quasi mai tornano indietro, il capitale intellettuale prima o poi ritorna. Con gli interessi. Meglio uno che va via, insomma, di uno che resta, persino per l’economia del nostro Paese»: così ha dichiarato Lino Barañao, ministro della Scienza e della tecnologia in Argentina.
I cervelli, poi, non fuggono: vanno e vengono. Certo, si dovrebbe fare in modo che alla fine il bilancio sia positivo, come sta succedendo almeno un po’ in Sudamerica. Dario Zamboni è uno dei migliori scienziati al mondo sotto i quarant’anni, secondo la rivista «Cell». Ha avuto una borsa di studio del programma Pew, è stato per tre anni nel laboratorio di Craig Roy a Yale negli Stati Uniti dove ha studiato le proprietà funzionali di certi batteri incluso il Coxiella burnetii che è trasmesso dalle zecche ed è responsabile della febbre Q, un problema per molte popolazioni del mondo. Adesso Zamboni dirige il laboratorio di Immunologia e microbiologia di San Paolo in Brasile. Si occupa del morbo di Chagas, una terribile malattia dovuta a un parassita diffuso nelle aree rurali e più povere del Sudamerica. Dario poteva benissimo restare negli Stati Uniti, avrebbe avuto una vita più facile. Invece ha preferito tornare per aiutare altri giovani ad essere scienziati.
Sono persone come Dario Zamboni che in Brasile — ma anche in Argentina, Messico e Cile — poi selezionano i migliori studenti perché possano accedere al programma Pew Charitable Trusts. Quelli che passano le selezioni locali poi vanno negli Stati Uniti per un esame, di fatto un’ulteriore selezione per trovare i ragazzi più colti e più motivati da proporre a grandi laboratori del Nord America. Molti di questi giovani, per quanto bravissimi, nei loro Paesi non avrebbero alcuna possibilità di emergere.
E cosa dire dei nostri che vanno via e che sono almeno 30 mila ogni anno? Che la scienza non ha confini e che la fuga di cervelli va incoraggiata. È un bene che i nostri ragazzi frequentino le grandi scuole di medicina dell’Europa e degli Stati Uniti ed è anche l’unico modo per entrare nel giro dei più bravi scienziati e dei più bravi medici del mondo. Meglio allora parlare di mobilità, come fa «Nature » con un articolo (Turning brain drain into brain circulation, cioè «Trasformare la fuga di cervelli in circolazione di cervelli»), senza la connotazione negativa che si attribuisce, appunto, alla fuga di cervelli. Che invece serve, come documenta Tito Boeri in un bellissimo libro pubblicato due anni fa da Oxford University Press.
L’Italia, con pochi ricercatori, con pochissimi fondi per la ricerca e senza scuole di biologia e medicina all’altezza delle prime del mondo, ha comunque gruppi di ricerca che competono a tutti i livelli con i migliori al mondo. Il segreto? La fuga di cervelli. Sì, perché scienziati italiani in posizioni di prestigio negli istituti americani sono una grande risorsa per la nostra ricerca. Chiedere loro di tornare quasi certamente è sbagliato. Quello che nel frattempo noi dovremmo fare perché il bilancio alla fine non sia negativo è potenziare i nostri migliori centri di ricerca, quelli che già sanno competere con i migliori del mondo. In questo modo attireremo in Italia ricercatori dagli altri Paesi d’Europa, ma anche dagli Stati Uniti, Giappone, Australia.
Qualche anno fa il «Lancet» ha tracciato un profilo della medicina in Italia: non c’è nessun campo in cui l’Italia non abbia competenze pari alle migliori del mondo e i nostri ricercatori pubblicano comunque di più e meglio degli altri. «Lancet» proponeva di fare un inventario di questi gruppi, organizzarli a lavorare insieme e dar loro la possibilità e le risorse per formare le nuove generazioni di ricercatori.
E quelli che hanno lasciato l’Italia? Torneranno?
Dipende da che cosa potremo offrire loro. Bisogna che il governo abbia un piano per la ricerca e l’innovazione (l’innovazione, inclusa Silicon Valley, si è sempre fatta con i soldi pubblici: Il mercato non basta. Senza Stato non c’è innovazione, come spiegava Maria Antonietta Calabrò su «la Lettura» del 22 giugno, intervistando l’economista Mariana Mazzucato). Insomma, bisogna dar loro abbastanza soldi per poter lavorare, devono essere lasciati liberi di impiegarli come vogliono, senza la burocrazia estenuante dei rapporti e rendiconti: il tempo dei ricercatori è prezioso. Certo, ci si deve assicurare che li spendano bene. Ma per questo basta vedere che cosa pubblicano.
Se si facesse così, forse un giorno il bilancio tra chi va via dall’Italia e chi viene da noi da altre parti del mondo sarà in pari: Turning brain drain into brain circulation, appunto.
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» del giugno 2014

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