10 luglio 2014

Brague-Testart: contro il superuomo

Faccia a faccia
s. i. a.
La questione capitale della dignità della vita umana di fronte alle sfide etiche e tecnologiche di oggi si è ritrovata negli anni sempre più al centro della riflessione di due personalità francesi di diversa sensibilità: l’«ateo di sinistra» Jacques Testart, il biologo che negli anni Ottanta fu padre scientifico (poi pentito) della prima fecondazione in vitro transalpina (recente autore di Faire des enfants demain, uscito da Seuil), e il filosofo cattolico Rémi Brague, che nel suo ultimo saggio Modérément moderne (Flammarion) sviluppa una critica costruttiva delle derive moderniste. Dal confronto dei loro punti di vista emergono decisive convergenze di fondo fra gli argomenti del mondo laico e la ragione irrorata dalla fede, all’insegna del senso di responsabilità verso le generazioni future.

Cosa temete di più, nella fase attuale?
Jacques Testart:

«Procreare, ovvero l’obiettivo di avere figli, è ormai una pratica consumistica. Il figlio è un prodotto a cui si ha diritto. Presto si vorrà averne di qualità, in uno spirito manifatturiero. Temo un nuovo modo generale di concepire i neonati, grazie alla biomedicina. Oggi con la fecondazione in vitro si possono selezionare gli embrioni in base a fattori di rischio di malattie molto gravi di cui i genitori sono portatori. Ma si riscontrano già derive. Presto, con dei prelievi di pelle, si potranno fabbricare ovuli che diventeranno embrioni, assicurandosi così bambini di qualità. Tutto ciò è incoraggiato dall’apparato statale, ma realizzato su richiesta e senza dolore. Ciò potrebbe sfociare, grosso modo, nella scelta di un medesimo neonato standard. Nessuno vorrebbe un figlio diabetico o con una predisposizione al cancro del seno. Certo, criteri estetici e sesso potranno variare, o almeno bisogna sperarlo. Ma con una restrizione della diversità si va verso l’annientamento della specie».
Rémi Brague:
«Dato che questi problemi sono nuovi, disponiamo di poche armi per affrontarli. Testart scorge giustamente il pericolo che questo genere di pratiche pone per la democrazia. Mi chiedo: le nostre società hanno qualcosa più di una semplice 'vernice democratica'? Temo una sorta di rinnovato elitismo. Procederemmo così verso un’umanità a due velocità: da una parte gli uomini migliorati da varie tecniche, dall’altra quelli rimasti sul ciglio della strada. Che relazioni sarebbero possibili fra queste due categorie? Non necessariamente pacifiche, temo…».

Non si possono prevedere paletti in nome del bene comune? La questione dei limiti è esclusa? Oppure le sfide sono semplicemente troppo grandi?
Brague:

«Considerata finora come ovvia, l’esistenza dell’umanità diventa ormai problematica. La sua scomparsa rientra fra le possibilità reali. Fra le cause possibili, gli armamenti atomici e nanotecnologici, i problemi ambientali. Senza dimenticare un crollo demografico, considerato da alcuni forse irreversibile. E poi, ormai, una quarta possibilità: l’umanità sostituita da una sedicente specie superiore, o almeno migliorata. Ma quegli uomini sarebbero ancora umani?».
Testart:
«Questo 'transumanismo' è forse un miraggio, pur essendo già finanziato da più parti. Ma questo rischio mi pare minore rispetto allo scenario di una selezione tranquilla dell’umanità, senza violenza, silenziosa e su richiesta, senza prodigi tecnologici, rinnovata da una generazione all’altra».

La società si legherebbe dunque le mani da sola, nell’indifferenza generale? Perché i pericoli in vista non suscitano preoccupazione?
Testart:

«Ci sono due etiche: quella di gruppo e quella del singolo. Noto che ognuno si considera come un’eccezione che merita un trattamento particolare: se lo faccio solo io, il mondo non ne risentirà. Così, anche se collettivamente la gente è piuttosto ostile alla generalizzazione delle fecondazioni in vitro, singolarmente le esige. Dal 25 al 30% di coloro che chiedono la fecondazione in provetta non sono affetti davvero da sterilità, ma sono accettati dall’apparato biomedico solo perché lo chiedono. C’è pure chi non vuole relazioni sessuali con l’altro sesso e allora dice: abbiamo diritto a un figlio. Quest’ultimo diventa un oggetto di consumo come un altro. C’è l’idea che la tecnica possa far meglio della natura, il che è un’utopia».
Brague:
«Trovo terrificante l’assenza di controlli in tutto questo campo. C’è un’inflazione della nozione piuttosto recente di 'diritto al figlio', accanto agli altri 'diritti a'. E se c’è un diritto a qualcosa, esiste da qualche parte qualcuno o un’istituzione qualsiasi con il dovere di offrirmi ciò a cui avrei diritto. Il diritto al lavoro resta comprensibile. Ma nella maggioranza dei casi, manca l’entità che ha un dovere nei miei confronti. Si pensi al 'diritto alla felicità': chi ha il dovere di rendermi felice? La Natura? Dio? La Scienza? Il Progresso? La Società? Quante maiuscole abusive... Nel caso del diritto al figlio, non funziona, perché quest’'oggetto' a cui avremmo diritto è invece un essere intelligente e libero, non una cosa».

Ma la domanda viene posta in genere in altro modo: perché rifiutarmelo?
Brague:

«Questo ribaltamento è interessantissimo. In effetti, sempre più spesso, la gente usa questo 'perché no?' al posto di 'perché?' Per ricavarne cosa? A quale scopo? Si suppone così una sorta di bacino infinito di desideri che nessuno avrebbe il diritto di frenare o canalizzare».

Occorre difendere la ragione dai suoi demoni?
Brague:

«Soffriamo di una rinuncia all’uso della ragione. Trincerandoci nel fortino di scienze più o meno rigide, rischiamo di consegnare all’irrazionalità la pratica del vivere e le regole che dobbiamo sempre escogitare per convivere senza calpestarci. Smettendo di pensare, diventiamo semplici consumatori e produttori, rinunciando alla nostra umanità. Jacques Testart denuncia giustamente questa mercificazione generalizzata. Fragile com’è, dato che gli occorre riprodursi, l’uomo è minacciato dal mercato e dallo Stato, le cui logiche convergono nel tentativo di ridurre l’umanità ad una collezione atomizzata di singoli capaci solo di consumare e pagare le tasse. Senza più preoccupazioni reciproche degli uni per gli altri, non solo nella convivenza civile, ma pure in vista della continuità della specie, senza la quale non supereremmo un secolo d’esistenza'.

Come ritrovare un vero radicamento democratico, oggi?
Testart:

«A livello ecologico, stiamo prendendo coscienza dei diritti dell’umanità. A livello bioetico, invece, restiamo in alto mare. Per difendere l’avvenire dell’umanità, occorre porre limiti
alle azioni dei singoli. Certo, deve esserci un contributo dei legislatori, che si basano essenzialmente sui lavori degli esperti. Ma mi schiero a favore di 'conferenze civiche' capaci di far riflettere gente presa a caso, che non abbia interessi da difendere e il più possibile rappresentativa dell’umanità. Dopo aver ricevuto una formazione completa e pluralista, questi cittadini potrebbero dialogare ed esprimere pareri in base a regole rigorose. I politici potrebbero così usufruire di un’opinione più ricca rispetto a quella di gran parte degli esperti ormai schierati per il cosiddetto progresso, ovvero lo strafare illimitato».

Professor Brague, in questo tipo di riflessione lei sottolinea la necessità di un «punto d’appoggio trascendente».
Brague:

«Mi chiedo: avremo sempre diritto di far figli? Come dev’essere il mondo affinché il proseguimento dell’avventura umana sia legittimo? Quali moventi possono spingere la gente, onesta e informata quanto si voglia, a prendere decisioni che implicano forse dei sacrifici per la nostra generazione, in modo da assicurare un’esistenza migliore a generazioni che non conosceremo? È una domanda per la democrazia, il miglior modo conosciuto per organizzare la convivenza di chi c’è già, il 'club dei presenti'. La domanda è sempre valida, come lo era per le generazioni passate e lo sarà per quelle la cui esistenza dipenderà da noi. Abbiamo bisogno di trascendenza per affermare la legittimità della specie umana in modo responsabile. Poiché l’uomo non può giudicarsi da solo. Non si giudica nessuno a partire dall’immagine che ha di se stesso».
Testart:
«La parola 'trascendenza' non figura nel mio vocabolario. Ma in una 'conferenza civica' emerge una sorta di alchimia fra persone qualunque, di estrazione sociale ed educazione diverse, riunite per esprimere un parere che influenzerà l’umanità, i loro figli. Assieme le persone diventano altruiste e intelligenti, in una sorta di movimento che trascende gli interessi specifici del singolo. Chiamo ciò 'umanitudine'».

Come inserire la trascendenza nella democrazia?
Brague:

«Penso occorra invece fare l’opposto: ancorare la democrazia a una trascendenza. Secondo Rousseau, la coscienza dev’essere considerata come un 'istinto divino, voce immortale e celeste'.
Vox populi, vox Dei va inteso alla lettera, spingendosi fino a considerare che le nostre democrazie, per quanto imperfette, presuppongono una concezione dell’uomo secondo cui quest’ultimo, che si tratti dello sciocco del villaggio o di un premio Nobel, accede alla Verità con la maiuscola, e al Bene, sempre con la maiuscola. Se ciò crolla, dovremo chiederci perché dare la stessa voce allo sciocco e al Nobel. È l’eterna obiezione aristocratica e oligarchica contro la democrazia. Penso dunque che le nostre democrazie laiche, secolari, implichino una concezione dell’uomo che non è secolare».
Testart:
«Se una quindicina di persone, riunite in giurì civico, sono capaci di maggiore intelligenza, altruismo e creatività di quanto credano, perché non approfittarne? La trascendenza mi pare proprio questa: l’uomo può rivelarsi, in certe situazioni, al di sopra di quanto immagina e di quanto la stessa democrazia crede che sia».

Nasce qui l’autentico senso del bene comune?
Testart:

«È il mio solo motivo d’ottimismo, che ciascuno si riveli davvero
homo sapiens. Ciò che chiamo 'umanitudine', una facoltà umana ignorata ma largamente condivisa».
Brague:
«Per alimentare il pensiero, non occorre una trascendenza generica. Occorre un essere trascendente, che fra civili si chiama Dio, per fondare la legittimità dell’umano. Fichte, discepolo di Kant, diceva: 'Non val la pena di credere in Dio dato che abbiamo in noi la legge morale'. Poi proseguiva: 'In compenso ci occorre credere nell’uomo, nella sua capacità di seguire questa legge morale, nonostante la Storia possa convincerci del contrario'. Facciamo allora un passo in avanti: chi ha diritto di credere nell’uomo? E rispondo: di certo non l’uomo stesso, poiché la fede in se stessi è una spia di paranoia totale o la caratteristica dei dittatori più spietati. A mio parere, solo Dio ha il diritto
di credere nell’uomo».
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«Sono evidentemente d’accordo, salvo sul ruolo di Dio. Ma per il futuro occorre mettere la gente in grado di assumere quanto lei definisce trascendenza e io umanitudine. Si potrebbe permettere all’uomo di esprimersi al meglio di se stesso».
«Avvenire» del 9 luglio 2014

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