23 luglio 2014

America 1964, un paese per tutti

Diritti civili
di Umberto Gentiloni
Con il Civil Rights Act finiva 50 anni fa la discriminazione razziale. Così la battaglia di Martin Luther King, fatta propria da Kennedy e conclusa da Johnson, ha portato fino alla presidenza di Obama
Mezzo secolo fa il presidente Lyndon Johnson firmava il Civil Rights Act per porre fine alla discriminazione razziale negli Stati Uniti. Un gesto che chiude un’epoca in un paese segnato dalle norme «Jim Crow» (da un genere di canzone che alla fine dell’Ottocento prendeva in giro i colored) sulla segregazione razziale emanate dagli Stati del Sud tra il 1876 e il 1964.
il punto centrale di questo impianto si può riassumere nello slogan «separati ma uguali», sotto il quale venivano proposte forme di discriminazione manifesta o indiretta. Basti il richiamo ai cartelli per le «donne di colore» o le «signore bianche» o le indicazioni nei locali per i servizi o gli ingressi utilizzabili dagli afro-americani. Una distinzione lessicale che scava nel profondo delle coscienze, accompagnata a una ostentata separatezza volta a escludere o discriminare «nelle strutture private aperte al pubblico alcune categorie di persone sulla base del colore della pelle».
Su questo delicato confine interviene il legislatore: definire comportamenti e regole anche all’interno di quelle strutture private non direttamente soggette alle leggi dello Stato federale. Si trattava di frantumare muri e barriere, mettere in discussione le forme di presunta superiorità che avevano portato fino alla pubblicazione di una guida per luoghi e spazi per i cittadini di colore (The negro motorist green book di Victor H. Green). Una sfida difficile con resistenze diffuse. Il Civil Rights Act venne accusato di favorire la centralizzazione attorno a uno strapotere del governo federale o ancora di aprire la strada alla possibile penetrazione di idee socialisteggianti.
Dopo la contrapposizione sui principi si passò alla strategia dell’attesa: diluire le scelte per costruire un contesto in grado di recepirle senza traumi. Fu la voce di Martin Luther King, nel 1963, dalla prigione di Birmingham in Alabama dove era recluso insieme con altri attivisti, a spedire al mittente ogni ipotesi di rinvio: «Se uno sente che la lingua s’inceppa e le parole escono in un balbettio perché bisogna cercare di spiegare alla figlia di sei anni perché non può andare al parco divertimenti […]; se uno, quando fa un viaggio in macchina, si trova costretto una notte dopo l’altra a dormire scomodamente in un angolo dell’automobile, perché non lo accettano in nessun motel; se il fatto di essere un nero lo tormenta di giorno e l’ossessiona di notte, lo costringe a vivere sempre in punta di piedi […]; se uno non può mai smettere di lottare contro la corrosiva sensazione di non essere nessuno; se tutte queste cose accadessero a voi, capireste perché per noi è difficile aspettare».
Un tempo lontano: agli afro-americani venivano riservate le ultime file negli autobus, erano esclusi da scuole e ospedali per bianchi, potevano entrare nei musei in giorni stabiliti, erano chiusi in un perimetro riservato nei tribunali e avevano una Bibbia distinta per il giuramento in aula. E ancora, in un elenco di esempi che potrebbe essere molto più lungo: non potevano provare i vestiti prima di un acquisto, né pubblicare annunci o inserzioni sui quotidiani. Negli elenchi telefonici il suffisso «col» (colored) marcava i cittadini di colore dal resto della comunità.
L’equilibrio precario si ruppe quando la protesta cominciò a interessare luoghi di divertimento, pub o ristoranti: strutture aperte al pubblico per servizi o generi di prima necessità. La forma del sit-in anche per alcune settimane mostrò il volto di un’America pronta a lottare per diritti e riconoscimenti. John Kennedy, inizialmente titubante, venne letteralmente trasportato dalle dinamiche della mobilitazione. In un celebre discorso alla tv (11 giugno 1963) condannò apertamente le forme di segregazione fino all’annuncio dell’impiego della guardia nazionale per intervenire nelle scuole e nelle università: «I soldati americani che sono in Vietnam o a Berlino Ovest non sono solo bianchi. Per questo, gli studenti americani di qualsiasi colore devono avere accesso a tutte le istruzioni pubbliche, senza dover richiedere la protezione dell’esercito».
Un punto di non ritorno che diede vita a un progetto di legge fondato sul diritto di voto, sull’istruzione e sull’accesso al mondo del lavoro. L’omicidio di Dallas sembrò interrompere il cammino, ma le origini sudiste di Johnson, la sua esperienza politica e il suo pragmatismo lo fecero arrivare dove Jfk non era ancora giunto. La legge passò dopo 80 giorni di confronto e il più lungo ostruzionismo della storia del Senato; il passo più importante recita: «Tutti gli individui avranno pieno e pari diritto di accesso a qualsiasi struttura aperta al pubblico, come definita in questa sezione, senza nessuna discriminazione». Un simbolo che ebbe un’enorme importanza, ben al di là dei contenuti della legge. «Rappresentò la realizzazione della promessa e dell’impegno di Lyndon Johnson», ha dichiarato Obama parlando alla Johnson’s Presidential Library di Austin in Texas lo scorso aprile. «Grazie ai suoi sforzi tutti hanno avuto nuove opportunità e nuove possibilità di accesso all’istruzione. Si sono aperte nuove porte, per voi e per me».
«La Stampa» del 23 luglio 2014

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