30 luglio 2014

Gli indignati della privacy

La Rete si è mobilitata dopo la decisione di Facebook. Siamo tornati al solito anatema contro i «persuasori occulti»
di Pierluigi Battista
I giganti del web accusati di modificare gli algoritmi per influenzare emozioni e bisogni degli utenti. Sciocchezze: tutto è manipolazione, anche l’amore
Negli anni ruggenti del consumismo, e nel pieno rigoglio della «società del benessere» (bei tempi!), molti pauperisti, tradizionalisti, reazionari, antagonisti, anticapitalisti, e con loro una corona di tantissimi intellettuali chic, non si stancavano di denunciare con fervore militante le oscure mene dei «persuasori occulti» descritti allora da Vance Packard. Ne svelavano i turpi disegni di «manipolazione» dell’umanità per trasformare i cittadini in docili strumenti nelle mani dell’industria, cera molle da plasmare e deportare sotto ipnosi pubblicitaria nei templi del consumo dove si sarebbero gonfiati profitti e ricchezze smisurate. La pubblicità veniva indicata come un’arma del demonio, tecnica sofisticatissima per plagiare gli inermi consumatori e manovrata dai dominatori del mondo che avevano fatto del consumo una nuova forma di schiavitù.
Tempi lontani, quelli dei «persuasori occulti» e di Packard. Più di cinquant’anni fa. Acqua passata, un’epoca chiusa, l’ultimo grido di dolore dei sacerdoti del vecchio ordine prima del definitivo trionfo della modernità consumistica. O no?
No. Proprio in questi giorni si è infatti accesa, ricalcando sin nei minimi dettagli l’anatema contro i «persuasori occulti» di tanti anni fa, una tambureggiante campagna contro i mastodontici artefici di un nuovo, repellente «mercato delle emozioni». Sotto accusa è in primo luogo la spericolata azione degli zelanti colonnelli di Zuckerberg che nell’oscurità hanno dolosamente modificato un po’ di profili Facebook per capire come influenzare gli umori degli utenti ignari di tanto oltraggioso attentato alla loro privacy (proprio la privacy di chi si iscrive volontariamente a Facebook, cioé il regno dell’antiprivacy? Quella). Ma sull’onda dell’indignazione è poi partita una furiosa lotta contro i «manipolatori» dei sentimenti, i nuovi prepotenti oligarchi che imperano sullo spirito pubblico. E che avrebbero fatto di così criminoso questi colossi di Google e di Yahoo!, di Microsoft e di Twitter e di Amazon da meritarsi tanta risentita deplorazione? Avrebbero ideato, coadiuvati dai tecnomaghi degli algoritmi che per farci del male non esitano a setacciare la nostra personalità spiando i nostri comportamenti sul web e sui social network, un modo per manipolare la popolazione del mondo e riprogrammarla come una gigantesca ed eterodiretta folla di consumatori compulsivi.
Sono inorriditi perché in questa azione di spionaggio una volta Google ha osato testare — che vergogna — le preferenze inconsapevoli dei suoi innumerevoli ospiti, variando con «41 sfumature di blu» lo sfondo delle sue pagine web: addirittura. Sono scandalizzati perché i colossi che sfornano in batteria i migliori «persuasori occulti» in circolazione cercano di «migliorare i loro prodotti», di essere più attraenti, più belli, in grado, nientemeno, di stabilire un «contagio emotivo» con i propri clienti, come ha scritto «Business Insider»: arrivando a mutare, perfidamente, la «composizione del messaggio » nelle campagne pubblicitarie, «il posizionamento delle immagini», «le immagini associate».
Tutto questo non sembra una grande novità, la «composizione del messaggio» è da sempre il cuore della retorica pubblicitaria. Ma per gli indignati siamo al colmo delle nefandezze dei «persuasori», impegnati a manipolare il «mercato delle emozioni» a grande vantaggio dei «fatturati». E che mettono a punto con i loro algoritmi tecniche sofisticatissime di identificazione di target mirati. Così, onnipotenti e incontrollati, questi colossi prendono nota delle nostre predilezioni, delle nostre conversazioni, delle foto e dei selfie delle nostre vacanze, delle nostre relazioni, per colpirci nei nostri punti deboli, infilarsi nel nostro inconscio, orientare subliminalmente i nostri consumi, fare arricchire l’industria usando gli espedienti più loschi. E poi ci si lamenta per la diffusione delle paranoie complottiste. Prendiamo in giro il deputato grillino che denuncia i microchip che la Cia avrebbe provveduto a impiantare nei cervelli di milioni di esseri umani.
Ma siamo sicuri che con l’indignata riprovazione contro gli algoritmi che «manipolano le nostre emozioni» per farne sordido mercato non stiamo già costeggiando quei lidi della nevrosi cospirazionista?
Anche perché è proprio l’assunto che non funziona. Anzi, sono gli stessi criteri di giudizio, o di pregiudizio, che andrebbero rovesciati. Cominciando ad esempio con l’osservare che la «manipolazione emotiva» così enfaticamente temuta non è poi questa cosa tremenda che viene descritta dai nuovi allarmisti. In ogni relazione umana c’è un tasso ineliminabile e nemmeno tanto sgradevole di più o meno consapevole vis manipolatoria: è proprio un male? Anche la seduzione è manipolazione: manipolazione allo stato puro. Nella relazione sessuale non ne parliamo neanche: dalla manipolazione al soggiogamento emotivo il passo è brevissimo. Nel corteggiamento amoroso cerchiamo di dare il meglio di noi stessi, veri professionisti della manipolazione, per condizionare con le nostre manovre tattiche e strategiche le scelte di una persona che peraltro ci ha già stregato, manipolando senza permesso la nostra struttura emotiva.
Anche la scrittura e la lettura, l’arte e la visione, sono attività che modificano la psicologia degli esseri umani, ne orientano i desideri, danno voce alle loro pulsioni più profonde, elaborano forme di dominio, di conflitto, di identificazione mimetica tra gli esseri umani, tra chi scrive e chi legge, tra chi dipinge e chi guarda. Secondo René Girard attraverso l’arte e la letteratura si finisce per desiderare ciò che desiderano gli altri, ci si conforma agli altrui stili di vita e l’imitazione culturale diventa una seconda natura, che della natura sembra ricalcare l’autenticità, l’istintività, l’immediatezza ma è invece il prodotto di una inconscia, eppure imperativa, opera di «manipolazione».
Molti secoli prima dell’invenzione degli algoritmi, la scienza della retorica aveva già definito la «persuasione» come l’arma più potente della comunicazione umana grazie all’ordine in cui disporre il discorso, all’uso sapiente delle figure retoriche, all’eloquenza, all’arte oratoria: molto più potente della pura consequenzialità logico- razionale degli argomenti, proprio perché capace di parlare alle emozioni, di «manipolarle» a puntino. E il teatro, la forza dell’attore, la potenza della recitazione a chi parlano, quali effetti vogliono produrre sull’uditorio, se non un effetto di trascinamento e di incantamento? Anche la politica, nella sfera simbolica, crea consenso e suscita passioni che smuovono e manipolano l’emotività. In una campagna elettorale c’è tantissima «manipolazione ». La politica mobilita gli animi per un vessillo, un ideale, un inno, un’immagine, una parola, persino per un colore (la bandiera rossa; l’azzurro di Berlusconi). E forse non è mai esistito al mondo un elettore che abbia deciso di optare per un partito perché convinto dalla lettura del punto 19, comma 14, paragrafo 7 del capitolo 86 di un dettagliato programma di governo. Infatti chi denunciava i «persuasori occulti» della pubblicità non poteva che coinvolgere nella sua scomunica anche la politica moderna. E pure l’immagine di JFK, così seducente, così affascinante, così «manipolatoria», venne sottoposta al severo giudizio dei tradizionalisti stupiti che un’icona giovane potesse essere tanto trascinante e idolatrata.
Anche il giornalismo lavora sulla retorica. La prima cosa che ti insegnano è l’«attacco» di un pezzo, che deve essere forte per catturare l’attenzione del lettore e trascinarlo fino alla fine di un articolo con una prosa avvincente (nel racconto dei fatti e delle notizie). E basta chiedere a un editore quanta cultura ci vuole per scegliere la copertina giusta di un libro, il suo disegno, i suoi colori, il suo «manipolare» i desideri di chi entra in una libreria e sceglie proprio quel volume, bello da vedere prima ancora che da leggere.
La pubblicità ha qualcosa di geniale perché è un’arte che lavora sul punto di incrocio tra psicologia ed estetica. Chi ha inventato la forma della bottiglietta della Coca- Cola o la mela morsicata della Apple ha capito molte più cose dell’animo umano di quanto non siano capaci i paladini di un presunto umanesimo pre-industriale. E forse non c’era bisogno di Andy Warhol per capire quanta forza mitica e artistica di una merce sia concentrata nelle scatolette stilizzate della Campbell’s: una zuppa che diventa il simbolo della nostra vita.
Intercettando i desideri più potenti dell’umanità, le merci sin dal loro apparire hanno imposto l’invenzione di appositi palcoscenici in cui potessero esibire tutta la loro forza magnetica: le scintillanti vetrine dei negozi, senza le quali non comprenderemmo quanti investimenti emotivi siano racchiusi nella moderna mania dello shopping. Karl Marx, che alla modernità borghese sciolse commoventi inni, parlava ammirato della «fantasmagoria delle merci». I manifesti pubblicitari che nel primo Novecento impegnarono i nostri migliori illustratori e disegnatori come Gino Boccasile sono una pietra miliare della nostra storia dell’arte. Gabriele d’Annunzio diede il nome ampolloso di Rinascente al nuovo santuario delle merci a basso prezzo fabbricate in serie. I migliori registi accoglievano entusiasti, e non solo per ragioni economiche, l’invito a dirigere le straordinarie microstorie con cui Carosello ha costruito la sua leggenda. E la storia della grafica pubblicitaria fa tutt’uno con quella dell’arte.
Tutta orrenda «manipolazione»? Manipolazione, certo. Orrenda, è tutto da discutere. L’idea di un grande complotto delle multinazionali che vogliono influenzare la nostra psicologia non è solo ideologicamente rozza, ma si fonda anche su un’antropologia elementare e quasi caricaturale, come se la vita delle società umane non fosse permanentemente esposta al gioco incrociato delle influenze, ai venti della «manipolazione», alle relazioni private e pubbliche che modificano la psicologia dei gruppi e dei singoli individui. Come se il valore emozionale della personalità fosse lo specchio di una creatura semplice, mentre chi cerca di orientare i valori e le emozioni è descritto come un mostro che vuole vampirizzare le sue povere vittime. Ma no, i mostri multinazionali invadano pure i nostri profili nei social network. Saremmo felici di consumare le loro merci seducenti e fantasmagoriche. E auguri di buon lavoro ai nuovi «persuasori occulti».
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» del 27 luglio 2014

Matera, il "Vangelo" di Pasolini 50 anni dopo

di Maurizio Cecchetti
Se quasi quarant’anni dopo Pasolini, Mel Gibson trovò ancora a Matera, e proprio negli stessi angoli, il luogo ideale per girare alcune scene di The Passion, questo forse sta a indicare che non c’è un set “naturale” che più di Matera sia capace di rievocare il volto di Gerusalemme. Ma è proprio in questa analogia, probabilmente, che si pone anche la grande differenza tra Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini e la Passione di Mel Gibson: Pasolini voleva ricreare l’atmosfera “umile” che contrassegna il messaggio di Cristo, mentre Gibson si aggrappa alla fascinosa scenografia dei Sassi per rendere con verosimiglianza quasi archeologica lo sfondo dove si svolge il sacrificio. E infatti ambienta una parte delle scene del suo film anche in un altro luogo del Materano, Craco, paesino fantasma, che si svuotò negli anni Sessanta divenendo un rudere arroccato, che per la sua fatiscenza eroica rende una certa idea del passato lontanissimo; Pasolini, invece, cercava altro, inseguiva il respiro arcaico dei Sassi. La loro forma vitale, avrebbe detto Warburg, consegnata a una povertà di forme e di stili di vita.
In una sequenza dei Sopralluoghi in Palestina, film sul viaggio in Terrasanta con don Andrea Carraro e Lucio Caruso alla ricerca d’ispirazione per il suo film, Pasolini parla di Gerusalemme e conclude: «C’è qualcosa di sublime». Non sta dicendo, come potrebbe fare un regista hollywoodiano, di una esperienza grandiosa, quanto piuttosto di una sensazione commovente, dove l’umano tende al divino e in questa ricerca ritrova il tragico delle origini. La ferita che c’è all’origine del mondo e della storia.
Matera ha deciso che questa eredità non può essere dimenticata e dilapidata. Sì, è vero, dopo Pasolini sono stati girati altri film a Matera; prima di Gibson, ci fu il King David con Richard Gere (1985), prima ancora Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi (1975); e molti altri registi, fino ai nostri anni, hanno subito il fascino di quella città scolpita nella pietra tufacea. Ma l’anima di Matera sembra identificarsi per sempre col Vangelo di Pasolini. Così la cittadina lucana che aspira a essere Capitale europea della cultura nel 2019, gioca una delle sue carte più importanti ora con la mostra Pasolini a Matera. Il Vangelo secondo Matteo 50 anni dopo (a cura di Marta Ragozzino e Giuseppe Appella con Ermanno Taviani), organizzata a Palazzo Lanfranchi dalla Soprintendenza e con l’appoggio dell’Arcidiocesi di Matera-Irsina. La mostra è suddivisa in sei sezioni e presenta una miriade di materiali: fotografie, documenti e lettere, disegni (8 sono dello stesso Pasolini) e dipinti, abiti di scena, filmati e video dove alcuni esperti rileggono da punti di vista diversi l’importanza di quel film nella storia del cinema, ma anche come documento che fotografa una quantità di questioni tuttora aperte dell’identità italiana.
Goffredo Fofi, per esempio, ricorda che quando uscì il film polemizzò con Pasolini, perché, dice, il regista-scrittore attribuiva ai contadini il ruolo di soggetto rivoluzionario, «mentre per noi più giovani erano gli operai». Quel film, del resto, suscitò malumore proprio nella compagine marxista dell’epoca, che sospettava una “conversione” del regista. Pasolini era l’intellettuale contro, che aveva criticato la piccola borghesia ed era, come ribadirà lui stesso in una intervista a Carlo di Carlo nel 1967, «contro lo stato» (quello politico, precisa, ma soprattutto lo stato delle cose). Il fatto è che, sottolinea Fofi, Pasolini era fuori dal coro, come Petri o Fellini, registi che fanno emergere nei loro film una «soggettività importante». Una soggettività che riflette, come in Bianciardi e Mastronardi, il disagio verso la civiltà industriale. «Il cinema, dice Fofi, recepisce tutte le tensioni sociali nell’aria che si respira nel nostro Paese uscito dalla grande miseria del dopoguerra e proiettato nel miracolo economico».
Il Sud diventa la «terrasanta» dell’intellettuale che mentre gira il Vangelo deve affrontare un processo per vilipendio alla religione a causa dell’episodio La ricotta nel film RoGoPag (accusa da cui verrà prosciolto nel 1964). Il Sud, da “terra del rimorso” di Ernesto De Martino, diventa terra di riscatto dove ancorare, come afferma Pasolini durante i sopralluoghi fra Israele e Palestina, un film che vuole essere anche un «fatto pubblico e politico», ma questo, precisa, «sarà detto implicitamente attraverso il fatto stilistico», ovvero una «estrema asciutezza». Ecco, il “cinema di poesia” che Pasolini ricerca in quel momento non è disimpegnato, e proprio per questo il regista non amò mai l’avanguardia del Gruppo 63: troppo disincanto e formalismo, troppo piccolo borghese verrebbe da dire.
E dunque i Sassi. Pasolini viaggia al Sud: Puglia, Basilicata, Calabria, e il Vangelo alla fine è il distillato di questa peregrinazione per reperire luoghi che, come i suoi attori presi tra la gente comune, «fossero analoghi» – non finti, non archeologicamente fedeli, ma analoghi: una categoria che è anche l’unica praticabile per non annacquare l’antico e il moderno in una falsa declinazione dell’uno o dell’altro. Il neorealismo era già tramontato da un decennio quando Pasolini gira il suo film. Ma è probabile che nella ricerca dello stile “essenziale” Pasolini avesse ancora in mente il documentarismo di Rossellini: e non era certo il «cinema del pedinamento», come scrisse Longanesi negli anni 30, che doveva sorprendere la realtà fornendoci un «documentario sulla vita degli anonimi».
Pasolini è oltre, e l’atmosfera “senza tempo” dei Sassi non ha la funzione nel Vangelo di una desistenza dal presente, anche se potrebbe essere una risposta alla categoria dell’engagement sartriano; è forse più prossima alla difesa polemica di quell’epopea del mondo contadino che Pasolini vedeva morire negli ingranaggi della produzione-consumo su cui si regge il sistema capitalistico. Così i viaggi al Sud di Pasolini trovano il loro contrappunto nei viaggi al Sud di Ernesto De Martino e nella etnologica documentazione fotografica restituitaci da Zavattini, Gilardi, Pinna. In mostra avvertiamo un’atmosfera simile nelle foto di Matera e del set realizzate da Angelo Novi e Rosario Genovese.
In una lettera a Caruso, Pasolini scrive di aver riletto il Vangelo «come un romanzo», e di avere avuto «l’idea di farne un film». La gestazione, dirà poi il regista, fu la sua «notte dell’Illuminato». Nel video di padre Virgilio Fantuzzi, che gli era amico, ci s’interroga sulla “conversione” dello scrittore. Sono cose che appartengono al segreto del cuore di ogni uomo, e nemmeno un’opera come Il Vangelo secondo Matteo offre una certezza definitiva (tantopiù considerando gli sviluppi della vicenda pasoliniana e la tragica scomparsa).
È degno di nota quanto scrive un cardinale all’epoca considerato tra i conservatori, l’arcivescovo di Genova Siri, in una lettera del 22 febbraio 1963 a don Giovanni Rossi, il fondatore della Pro Civitate Christiana che incoraggiò Pasolini a fare il film: «Per portare avanti la conquista della cultura a Dio, qualcosa bisogna pur rischiare... La prudenza in taluni casi consiglia l’audacia. Esclude solo la temerarietà».
Saggia considerazione, mezzo secolo dopo si può dire che la fiducia fu ben riposta. Tanto che il film vinse il premio francese dell’autorevole Office Catholique International du Cinema, e recentemente l’“Osservatore Romano” si è spinto a dire che Il Vangelo secondo Matteo sia il film su Cristo più importante mai fatto.
«Avvenire» del 30 luglio 2014

Noi all’inferno senza morire

Amori, affanni, attesa per il ritorno. E l’Italia in armi imparò a scrivere
di Paolo Di Stefano
Guerra (ed emigrazione) spinsero una generazione analfabeta a prendere carta e penna. Quasi 4 miliardi le lettere e le cartoline scambiate
Il censimento del 1911 registrava in Italia un tasso di analfabetismo medio del 37,6 per cento, nettamente più alto di quello delle maggiori nazioni europee. Furono l’emigrazione e la guerra a spingere gli illetterati verso la scrittura: una scrittura di necessità, alquanto sgrammaticata, ma non per questo priva di capacità comunicativa, anzi. Lo storico Antonio Gibelli definisce la Prima guerra mondiale «smisurata ed estrema in ogni suo aspetto»: e smisurata lo fu anche per la quantità enorme di scambi epistolari. All’indomani del conflitto, nell’ottobre 1919, «La Lettura», il mensile del «Corriere della Sera», attestò una movimentazione di quasi 4 miliardi di lettere e cartoline postali (messe a disposizione della Croce Rossa) tra quelle inviate dal fronte, quelle spedite dai civili ai militari impegnati in guerra e quelle scambiate tra commilitoni dislocati in diverse parti del fronte. Alla sterminata mole di epistolari bisogna aggiungere i diari e i taccuini privati, scritti a conflitto in corso o a posteriori.
Fabio Caffarena, studioso di scritture popolari che ha dedicato un saggio alle Lettere dalla Grande guerra (Edizioni Unicopli), sottolinea come sia possibile, attraverso gli epistolari, «mettere in luce le sfumature della guerra, evidenziare lo scarto che si determina tra il succedersi degli episodi bellici collettivi e i percorsi individuali all’interno dell’evento». L’epidemia della scrittura, aggiunge, contaminò tutti i combattenti, colti e incolti, con peculiarità linguistiche ed emotive del tutto singolari, rappresentando spesso una sorta di acculturazione indotta dalle urgenze pratiche e psicologiche.
Certo, la «guerra narrata», come segnala un capitolo del volume di Gibelli L’officina della guerra (Bollati Boringhieri), non è priva di cerimoniali rigidi, formule fisse, moduli stereotipati. È quanto ebbe a osservare con malcelata delusione il critico e filologo viennese Leo Spitzer che, da ex addetto alla censura austriaca, nel 1921 riunì e studiò i documenti epistolari dei prigionieri italiani. Va pur detto che alla rozzezza sintattica e morfologica dei testi — spesso improvvisati nei momenti di pausa e redatti su fogli precari magari appoggiati sulle ginocchia — non corrisponde affatto una piattezza espressiva né una banalità di contenuti. «Scrivere significava essere ancora vivi», annota Caffarena. E d’altra parte le missive di familiari e amici rappresentavano, per i soldati al fronte, la certezza di non essere stati abbandonati dai loro cari».
Il repertorio tematico, come si può immaginare, è molto ampio e dipende da vari fattori contingenti e personali. Ma alcuni motivi ricorrenti sono già stati individuati da Spitzer in altrettanti paragrafi del suo studio. Vediamoli con qualche breve estratto. Le rassicurazioni sulla salute e sull’umore: «Io dico che voglio stare alegro e mifacio sempre coraggio». Le scuse per la cattiva scrittura: «Rosa perdona della mia schifosa calligrafia». L’ansia di avere notizie e la gioia di ottenerle: «Sono con il cuore in mano per ricevere qualche tuo scritto». Il tormento della lontananza: «Och Cuor mio Quanti dolori och quanti pensieri (…) apensare La nostra distanza, la lontananza fra noi miserri e disgraziati». La fedeltà del sentimento: «La vita mi è di peso ma solo a pensare al tuo ritorno mi rianimo». L’attesa speranzosa della pace: «Addio tesor mio, soltanto mi auguro che presto tuonerà il cannone della pace e della vittoria». E poi: il racconto di un sogno premonitore o di un incubo; la richiesta di una fotografia o il commento di un’immagine. Il grande capitolo dei richiami alla vita familiare in corso: «Il nostro piccolo A. diventa tutti i giorni più grande e grasso ma la cattiveria supera la sua grandezza, egli vorrebbe sempre essere in strada oppure in stalla colle bestie».
Le implorazioni d’amore, come questa rivolta da un istriano alla sua sposa: «I vostri cari ochi dicono che non potete eser versa di chi vi ama crudele (…) che un amante piu fido di me non potete trovare, dite se avete qualche altro amante sesiete impegnata». Le parole di conforto e la condivisione con i compagni di sventura. Il senso di rassegnazione e/o di coraggio: «Nelluomo allegro cè laiuto. sun sun corda. ame»; le espressioni di una religiosità popolare, spesso ingenua o rituale. E il versante frequentatissimo che riguarda le domande di denaro e di generi alimentari: «Se potete mandatemi due fugase cote soto il fuoco che ame sono tanto oro», implora un soldato padovano da una zona di retrovia; la fame (un argomento su cui Spitzer ha scritto un importante saggio mai tradotto in italiano) e i disagi del cibo: «Caro padre — scrive, alla vigilia di Natale, un soldato in Boemia al genitore genovese — questo anno non si pesta il bacala oggi la vigilia abbiamo mangiato patate con sale perché qua non se ne conosce oglio e per non cundire colo lardo abbiamo mangiato questo»; le richieste di incarichi e di informazioni pratiche da parte di padri e mariti preoccupati del destino delle terre o dell’officina al paese.
Altri esempi? Una bellissima lettera citata da Caffarena e inviata da Gorizia il 17 febbraio 1917 al fratello da Salvatore, un soldato calabrese, testimonia bene la ricchezza dei motivi e dei toni schietti, a tratti incandescenti, concitati, autocommiserativi, involontariamente tragicomici: siete corrivo verso di me io non ti do’ torto, però la colpa non è mia se da Catanzaro non ti ho avertito. La colpa è di quel cornuto del tenenti che l’ultimo giorno che dovevamo partire ci fece uscire dopo le sette (…)». Si accenna all’invio di un «pacco con i calzetti di lana», aggiungendo che «adesso ne ho quattro paia e le tengo nascoste per paura che me li rubano perché qui vi è pure la nera». Viene descritta la condizione bellica precaria: «Si va male, le cannonate piovono tutti i momenti di giorno e di notte. Siamo vicini dei nemici. Le Cannonate, tanto delle nostre quanto di quelle austriache passano friscando sopra la nostra testa». Si racconta un «duello» tra aeroplani, uno dei quali «forse ha caduto nelle trincei».
Salvatore si sofferma anche sul suo lavoro in un’«officina elettrica», ma precisa che «ci anno fatto pure l’istruzione di lancia bombe ed un giorno abbiamo dovuto sparare due bombe di sopra il ponte dell’Isonzo. Mi anno dato pure la maschera contro i Gas asfissianti. Spero iddio che mi aiuta ma come vedo le cose si stanno complicando». Viene agitato il solito spettro della fame: «A noi per Economia ci danno sempre riso imbrodo (…). Qui alle soldati non basta la pagnotta e pane non se ne trova con i danari». Il denaro non basta: una cipolla costa 4 soldi, 3 soldi un’arancia, 26 soldi la pasta. «Io ho trovato il modo di mangiarmi due gavette perché ce uno amico mio che è cucinieri».
Qualcuno è più fortunato di Salvatore, come il contadino di Scicli Adriano Arrabito, che un Natale — lo racconta nel suo diario — si vede recapitare al fronte dalla famiglia un pacco pieno di dolci, aranciata, «citrata ben lavorata», fichidindia «di ottima qualità», condividendo tutto con i commilitoni. Adriano è uno spirito notevolmente più ottimista di Salvatore, che non risparmia al fratello le proprie ansie. Il giovane Arrabito, finito in una trincea della val d’Assa, preferisce affidarsi all’afflato religioso (protestante) e all’amore cieco per i suoi genitori (a cui invia 20 delle 43 lire mensili che riceve): «Il mio pensiero era sempre rivolto verso la mia cara famiglia che tanto amavo di vero cuore»; si lascia catturare dalla bellezza del paesaggio, «alberi di pini, cime di diversi montagni, cielo e terra»; apprezza i lamponi e «le funghe porcine». Aspetta un cenno di consenso a proposito di un agognato fidanzamento a distanza con Maria e quando riceve la lieta novella, gioisce: «A tale notizia il mio cuore provò tanta gioia perché il mio proponimento avviava verso il mio desiderio d’amore».
Linguaggi poveri, ma ad alta temperatura espressiva. Rare (certo, anche per lo spauracchio della censura) le esplicite condanne del conflitto o le invettive antipatriottiche, anche se, d’altro canto, la guerra non viene generalmente sentita come un ideale cui aderire con ardore: consapevolezza, piuttosto, realismo, un atteggiamento ben lontano da certe manipolazioni monumentalizzanti ufficiali. O qualche rimpianto per la vita civile lasciata al paese, come si intuisce leggendo la prosa decisamente malferma del contadino roveretano Massimiliano Sega, che pensa e ripensa al bestiame e ai terreni di casa: «Io stava bene zenza reztarhge un ssoldo a nenssuni in fatti dormiva trancuillo, e desso ssono un poveretto redutto zenza niente».
Spesso e volentieri, i disagi e i pericoli vengono invece taciuti a beneficio della tranquillità dei familiari, i quali però a volte riescono a cogliere l’inquietudine tra le righe. È il caso di Angela Gottero, la quale il 19 dicembre 1915 da Bibiana (Val Pellice) scrive al marito Luigi, fante contadino che in una lettera precedente aveva alluso a dieci giorni di combattimenti: «Si vede proprio che non mi vuoi spaventare perché non mi parli di niente di come ai passato quei 10 giorni beati ma il mio cuore mi dice che abbi volontà di dirmi tantissime cose ma che non abbi il coraggio». Probabilmente Angela ha ragione. In altri casi, la reticenza non riesce a trattenere la potenza tracimante dell’angoscia: «Non posso racontarti tante cose ti dico solo che sono caduto nell’inferno sensa morire», scrive un prigioniero da Feldbach a Candiolo (Torino). E se c’è viceversa chi esibisce baldanzosamente la propria crudeltà («Statemi a sentire come ebbi la bella sorte di poter sparare a un zuccone e vederlo nella propria trincea cadere a terra»), altri ammettono il trauma e la dolorosa responsabilità. Come quel tale Molinari che racconta alla moglie di aver dovuto fucilare, con altri sei soldati, un commilitone sospettato di voler fuggire: «Poverino si vede che non aveva proprio coraggio, e per cuesto a avuto la fucilazione al petto; lanno fatto sedere su di una pietra e la è bisognato spararci per forsa perché dietro di noi cera la mitragliatrice, e poi siè comandati non bisogna rifiutarsi, ma per questo io son molto dispiaciuto ben che ne ò visti tanti di morti, ma così mi ha fatto senso a letà di 34 anni… bisogna anche esere asasini».
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» dell'11 maggio 2014

Salvare i disabili dalla solitudine

A dirigenti, docenti e famiglie serve un approccio pragmatico, non miracolistico
di Fulvio Ervas
Ci sono 100 mila insegnanti di sostegno per oltre 200 mila studenti con disabilità. Più di un terzo però sono precari e questo crea forte spaesamento. La continuità è necessaria
Novecento e più teste, il doppio di occhi e il quadruplo di mani e piedi sciamano, all’intervallo, dalle aule e inondano l’istituto. Se osservate con un po’ di attenzione vedrete, nel flusso, una carrozzella, un ragazzino che sfreccia come un’antilope nei giorni di festa, un altro che lancia mille volte nell’aria una palla rosso vivo, una ragazza che avanza come danzando su strane melodie. Hanno tutti un nome. E un vissuto speciale: disabilità. I dati del Miur (il ministero dell’Istruzione) indicano, per l’anno scolastico 2012-13, 222.917 studenti con disabilità: 205.096 frequentano istituti statali e 17.821 istituti non statali. Il rapporto percentuale ci dice che nelle strutture statali ci sono 2,7 alunni con disabilità ogni cento alunni e 1,5 nelle strutture non statali. Nel conteggio totale degli alunni con disabilità sono compresi 24.139 stranieri (22.854 nelle scuole statali e 1.285 in quelle non statali).
I dati (che sembrano non avere odore) raccontano che la disabilità scolastica è una questione pubblica. La contabilità non è secondaria. Il numero di insegnanti di sostegno, per esempio: 62.016 a tempo indeterminato e 39.249 a tempo determinato (in questo ambito la precarietà, dove si era creata una buona relazione con lo studente, è fonte di grande spaesamento). Quindi un docente di sostegno ogni due ragazzi con disabilità. Circa.
Segnali di miglioramento nell’ultimo decennio, secondo il giudizio del Miur. Sembrerebbe l’auspicabile direzione di un grande percorso, prima che scolastico, civile. E però, con oltre 100 mila posti di lavoro in gioco, si potrebbe, malevolmente, sostenere che la disabilità sia una «risorsa» prima di tutto per l’occupazione scolastica. No, qui, non stiamo parlando di stipendi, ma di indicatori di civiltà. La qualità della condizione di studente, per questi nostri cittadini, è l’ago che può pungere, e sgonfiare, molte delle nostre presunzioni di progresso. Per questo, ogni operatore che abbia contribuito a livellare ostacoli e a far vivere la scuola come un’esperienza positiva per i ragazzi con disabilità, ha aggiunto un chilo di cemento nella costruzione dell’impalcatura civile della società.
Tutto bene? No, i lamenti non mancano. Le insoddisfazioni nemmeno. La percezione, pur diversissima da un’area regionale all’altra, sia dell’utenza, sia degli operatori scolastici, non è positivamente omogenea. Alle volte è negativa: copertura del sostegno incompleta, rotazione eccessiva dei docenti, aspettative astronomiche delle famiglie e, va detto, anche mancata formazione specifica per le diverse disabilità. Si attorcigliano aspettative personali (e contingenti) con le dinamiche dei sistemi «a grandi numeri»: le due velocità spesso sono spaiate. Qualcuno, prima o poi, vedrà il sol dell’avvenir. Qualcuno, qui e ora, patisce.
Ho fatto, sto facendo, esperienza di insegnamento con studenti «speciali», in un liceo, il Luigi Stefanini di Venezia Mestre, che tradizionalmente accoglie il maggior numero di questi alunni rispetto all’intera provincia di Venezia. L’utenza iscrive i propri figli in questo istituto attratta da un passaparola positivo tra le famiglie. L’istituto, in molti anni, è diventato un campo di forze che modella l’ambiente scolastico, in senso ecologico, discretamente favorevole all’adattamento di questi studenti. Molti hanno potuto avere, per davvero, un’esperienza umana evolutiva e soddisfacente. Si sono sentiti accettati, inclusi, non in occasione della giornata del volontariato, ma per sei giorni alla settimana, per nove mesi, per cinque anni, gite scolastiche incluse. Questi ragazzi pativano le vacanze natalizie ed estive come una condanna. Per affrontare la quotidianità con questi alunni reali si devono combinare alcune grandezze: un bravo dirigente, insegnanti di sostegno formati e motivati, consigli di classe non disattenti, famiglie che abbiano macinato la rabbia o la rassegnazione (tutte umanamente comprensibili ma inefficaci), alunni emotivamente distanti dal supermachismo.
Strategica è la presenza di un dirigente capace, possibilmente refrattario a facili ipocrisie: eviterà di millantare roboanti interventi, avrà coscienza che per certe disabilità (soprattutto importanti deficit intellettivi) la scuola può ottenere poco, pur agendo con costanza e onestà. Un bravo dirigente conosce la validità del proprio nucleo di docenti di sostegno e sa quale efficacia possa avere il loro intervento; conosce i consigli di classe e sa dove il lavoro di inclusione si avvii spontaneamente e dove bisognerà vigilare «armati»; dialoga con le famiglie, ne monitora i bisogni e le aspettative e segue la realizzazione degli obiettivi concretamente ottenibili in quello specifico istituto.
È un formidabile aiuto l’atteggiamento delle famiglie dei ragazzi con disabilità, che va, in ogni caso, considerato con tutto il rispetto possibile. La sinergia migliore si ottiene quando la famiglia non viva la scuola come una sorta di Lourdes laica, il luogo dei miracoli, dove l’impegno dell’istituzione debba (e possa) effettivamente compensare tutte le carenze manifeste nel figlio. I genitori con buona capacità di giudizio comprendono che la scuola offre dosi, non proprio omeopatiche, contro la solitudine dei figli, che li mantiene dentro a un mondo di relazioni, di stimoli, che offre un sostegno didattico, alle volte migliorabile, certo, ma non privo di possibilità di allenamento intellettuale: offre un confronto con molte figure adulte, una organizzazione parziale del tempo, un percorso di conoscenze. Anche un sorriso. Anche una rampogna, alle volte.
Come si arriva a far funzionare decentemente le cose? Aspettando direttive e risorse dall’alto? Ponendo infiniti quesiti al Miur su Disturbi Specifici di Apprendimento e, in aggiunta da quest’anno, sui Bisogni Educativi Speciali? Compilando meravigliosi e, poi, disattesi Piani Educativi Individualizzati e Piani Didattici Personalizzati? Perché no? In sincronia con un Paese che ama categorizzare e che considera già realizzato ciò che è stato, appena, scarabocchiato. Tuttavia la precondizione, decisiva, è che si parta individualmente dalla convinzione che nella scuola, come nella sanità, ovunque vi sia una funzione di servizio verso il cittadino, è vitale essere dei buoni insegnanti, non vergognandosi di mirare all’eccellenza. Senza una «massa critica» di capacità, dal basso, resteranno solo manciate di sigle. E cittadini infuriati. Se le cose funzionano, quando non prevale l’unità di misura del miracolo o dell’indifferenza, si costruisce un terreno non conflittuale, dove accade, addirittura, di dirsi grazie. «Grazie per quello che avete fatto per mio figlio in questi anni» è la mail di una madre che vale cinquecento aumenti di stipendio offerti, con spritz e noccioline, dal Miur.

P.S.: D’accordo, la tassonomia delle disabilità sarà necessaria. Però, a me, piace chiamarli per nome ...
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» dell'11 maggio 2014

Distanze grandi, disciplina feroce. Leoni in battaglia agli ordini di asini

Milioni di caduti e generali spesso crudeli, incapaci e ignari della modernità
di Paolo Rastelli
L’esercito britannico nella Prima guerra mondiale? «Leoni guidati da asini», secondo lo storico Alan Kenneth Clark. E Lloyd George, primo ministro di Sua maestà nella seconda parte del conflitto e fino alla vittoria finale, disprezzava i generali e i loro «cervelli pieni di inutili cianfrusaglie». Più o meno le stesse cose sono state scritte anche in Francia e in Germania. Per non parlare dell’Italia, che, anche per reazione alla santificazione delle trincee operata in epoca fascista, in un secondo tempo ha potuto aggiungere senza sforzo alle critiche e alla sfiducia nei confronti dei comandanti della Grande guerra i disastri avvenuti nel Secondo conflitto mondiale coinvolgendo nel disprezzo tutte le gerarchie militari.
A favore di questo modo di pensare milita prima di tutto la lugubre contabilità dei caduti: le cifre più accreditate danno 5,14 milioni di morti per le potenze dell’Intesa (su un totale di 22,2 milioni di perdite conteggiando anche feriti, prigionieri e dispersi), 3,38 milioni per gli Imperi centrali (su 15,4 milioni). In Italia il dato più certo è quello dell’Albo d’oro dei caduti realizzato negli anni Venti, ora digitalizzato e riorganizzato nell’ambito dei grandi progetti di recupero della memoria storica del conflitto ad opera del Centro studi storico militari sulla Grande guerra «Piero Pieri» (presieduto dal colonnello Lorenzo Cadeddu) e dell’Associazione WW1 – Dentro la Grande guerra. Furono 529.025 i soldati, marinai e aviatori caduti su un totale di 4.872.213 combattenti che presero parte al conflitto. Ma lo stesso Centro studi «Piero Pieri» stima che un 15-20% di caduti non sia stato riportato nell’Albo d’oro. Una carneficina che impoverì a tal punto le Forze armate da costringere al richiamo di quasi un milione di riformati.
La cattiva fama dei capi militari nacque anche dalla pubblicistica pacifista negli anni tra le due guerre, dai poeti della «generazione perduta» come Siegfried Sassoon ai romanzieri come Erich Maria Remarque, che raccontano di comandanti ciechi a ogni pietà e di soldati spinti come pecore al macello e sottoposti a una disciplina inumana. Infine c’è stata un’intera generazione di storici, militari e non (il caposcuola fu Basil Liddell Hart), che ha descritto i generali come bruti selvaggi che con tenaglie sempre più grosse cercano di estrarre da una tavola di legno una vite, senza capire che basterebbe girarla. Negli ultimi anni, però, si assiste a un certo revisionismo, almeno in campo militare (di cui è un buon esempio il libro Mud, Blood and Poppycock, «Fango, sangue e scemenze», di Gordon Corrigan). È vero, tentare di sfondare le trincee tedesche e austriache scatenando loro addosso bombardamenti sempre più pesanti e soldati sempre più numerosi (le famose tenaglie) sembra tuttora un esercizio futile e sanguinoso.
Ma che alternative avevano i comandanti dell’epoca? La possibilità di superare i difensori senza perdere slancio e quindi ottenere uno sfondamento definitivo che rimettesse in movimento i fronti congelati alla fine del 1914 era al di là delle capacità dell’epoca: niente carri armati (i primi, rudimentali, apparvero nel 1916) per sfondare, niente paracadutisti ed elicotteri per un aggiramento verticale. E soprattutto nessuna capacità di controllo del campo di battaglia. Banalmente i progressi della tecnologia militare, la capacità di uccidere delle armi, la quantità di uomini che si potevano trasportare, nutrire e rifornire sul campo di battaglia avevano di gran lunga superato la capacità dei comandanti di incanalare e guidare le forze che avevano a disposizione.
Nel 1815 a Waterloo il duca di Wellington aveva mantenuto una salda presa sulla battaglia cavalcando lungo i 4-5 chilometri dello schieramento alleato e mandando i suoi ordini con gli aiutanti di campo che in pochi minuti raggiungevano ogni punto dello scontro. Il 1° luglio 1916, sulla Somme, gli anglo-francesi attaccarono su un fronte di 40 chilometri, ma le loro possibilità di comunicare, una volta cominciata l’avanzata, con i cavi telefonici spezzati dall’artiglieria e in assenza di radio portatili o almeno montate sugli aerei, in mezzo al fumo e alle esplosioni, erano più o meno quelle di Wellington, staffette e piccioni viaggiatori, ma in un ambiente infinitamente più ostile e mortale. Così qualunque successo non poteva essere sfruttato e qualunque ostacolo non poteva essere superato dall’azione di comando.
Sempre sulla Somme, racconta lo storico inglese John Keegan, si calcolò che ci volevano in media otto ore perché un messaggio raggiungesse il fronte dal quartier generale di divisione e lo stesso tempo era necessario per il percorso inverso. Il che voleva dire 16 ore tra la segnalazione di una forte resistenza sul fronte e le disposizioni di un comandante per superarla. E in 16 ore i difensori avevano il tempo di rinsaldare le linee. Così i generali non potevano fare altro che lanciare offensive su offensive, cercando di logorare le forze del nemico più di quanto logorassero le proprie. Un onere che ricadeva sugli alleati, visto che i tedeschi a ovest combattevano in suolo francese e non avevano nessun interesse ad attaccare finché non avessero regolato i conti con i russi.
Ma, si dirà, e gli austro-tedeschi contro gli italiani nel 1917, a Caporetto? Sfondarono e quasi sconfissero l’esercito italiano. Per loro queste limitazioni non valevano? Il problema fu prima di tutto che le truppe italiane erano schierate male e non per la difesa: il generalissimo Luigi Cadorna voleva al più presto riprendere gli attacchi e non ritenne di dover rettificare lo schieramento. Poi i tedeschi, rinforzati dopo la rivoluzione russa, utilizzarono per la prima volta una tecnica di infiltrazione lungo le valli che sconcertò i comandi e prese sul rovescio il fronte italiano. E soprattutto il nostro esercito, dopo 11 battaglie offensive sull’Isonzo, era tremendamente logorato, con centinaia di migliaia di vite consumate nelle offensive del 1915-17 su un terreno che era il più difficile tra tutti i fronti di combattimento e in un regime di disciplina che era in assoluto il più duro tra le forze belligeranti. Ogni esercito ha il suo punto di rottura, come scoprirono anche i francesi, con gli ammutinamenti del 1917. Noi l’avevamo raggiunto.
Comunque alla fine gli austro-tedeschi, anche in Italia, non vinsero. E anche l’Italia partecipò così a quel ridisegno dell’Europa per il quale aveva scelto di combattere, portando a casa Trento, Trieste e Istria. Un’Europa dalla quale erano spariti i grandi imperi, il tedesco, l’austro-ungarico, il russo, l’ottomano. Dove erano sorti nuovi stati fondati sul principio di nazionalità (Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Austria, Ungheria, Finlandia, Repubbliche baltiche), all’interno dei quali però erano ospitate minoranze oppresse e riottose. Fonte di altre guerre, come si sarebbe visto nel 1939. Tanto che anche la nuova Europa, come il poeta che ricordava gli anni prebellici, nel 1919 avrebbe potuto ripensare «con affetto a ciò che ero».
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» dell'11 maggio 2014

Prima l’enfasi e l’eroismo, poi l’abisso. Gli artisti a tu per tu con i conflitti

Il Mart di Rovereto prepara l’esposizione dell’autunno. Un itinerario complesso che associa Balla alle cartoline e Kentridge alle fotografie
di Vincenzo Trione
Dal canto all’apocalisse. Dall’enfasi alla catastrofe. Dallo slancio all’abisso. In queste oscillazioni potrebbe essere racchiuso il dialogo tra gli artisti e la guerra, al centro della grande mostra che si terrà nei prossimi mesi al Mart di Rovereto (dal 4 ottobre), La Grande guerra che verrà non è la prima. Grande guerra: 1914-2014, promossa con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei ministri - Commemorazione del centenario della Prima guerra mondiale: un’esposizione che conferma il Mart come uno tra i pochi musei italiani oggi impegnati in progetti di ricerca ambiziosi e sempre stimolanti. Un itinerario complesso, ispirato da due versi di Brecht («La guerra che verrà/ non è la prima…»), che radunerà materiali eterogenei (quadri, disegni, incisioni, fotografie, manifesti, cartoline, corrispondenze, diari, film, musiche) e li suddividerà in una serie di piani-sequenza dedicati ad alcune figure: soldati, donne, bambini, medici, religiosi, intellettuali, artisti.
Non si seguirà un criterio cronologico, ma ci si affiderà a un gioco di corrispondenze non sempre evidenti tra momenti non contigui. Servendosi di un inatteso montaggio tra «documenti» e «monumenti» — tra reperti e opere d’arte — verrà disegnato un racconto all’interno del quale si incontreranno testimonianze ed evocazioni. Narrazioni visive in diretta (Balla, Boccioni, Carrà, Severini, Depero, Beckmann, Sironi), trasfigurazioni (Baj, Boetti, Kentridge) e apologhi visivi a distanza (Mauri, Lucchi e Gianikian, Jarr, Paci, Sala, Farocki, Abdul). La filosofia sottesa a questo film involontario è chiara: considerare la guerra non come un episodio lontano e definitivamente archiviato, ma come un evento sempre vivo, che attende ancora un ininterrotto dispiegarsi di riscritture. Un evento che non appartiene a un’epoca particolare, ma dice il modo in cui l’Occidente guarda le cose: la loro natura, il loro disfarsi. Misurarsi con la guerra, perciò, significa misurarsi con il tema della cultura contemporanea.
In principio c’è l’epica moderna. Enfasi, slancio, passione. Sentimenti che ritroviamo innanzitutto nelle pronunce poetiche dei futuristi, per i quali la guerra è una sorta di potente medium. È strumento per radere al suolo edifici antichi e per favorire la rigenerazione del nostro pianeta dalle sue fondamenta: per spazzare via perbenismi, conservatorismi, prudenze, convenzioni, rituali. È mezzo liberatorio e purificatorio, quasi una «verifica sanguinosa» delle loro audaci teorie. Ed è «sola igiene del mondo», perché rivela una totalità che comprende e trascende l’individuo: dona la vita come unità dentro cui strappi e lacerazioni si compongono, «come i naufragi e le tempeste nella totalità del mare» (Magris). Ma la guerra è soprattutto il luogo dove si compie il trionfo dell’immaginazione. Lo spazio all’interno del quale vita e arte entrano in collisione, si confondono e si sovrappongono.
Il conflitto viene attraversato in prima persona (molti futuristi vanno al fronte) ed è estetizzato, sublimato. Alimenta i ritmi interni della poesia visiva, che sovente simula le onomatopee belliche; e suggerisce i vortici quasi astratti di Balla, gli impasti di Boccioni, le danze di Severini e le feste di Depero. In filigrana, la ripresa di alcune problematiche classiche. Nei poemi omerici, la guerra è «cosa bella», sede dell’eroismo, ambito dove si ha la traslucida manifestazione del talento dell’uomo, regno nel quale si altera l’ordine naturale dei fenomeni, impero dove atti e sacrifici vengono avvolti dentro la luce abbacinante della gloria: «La guerra — come ha ricordato Antonio Scurati (Guerra, Donzelli) — consentiva di vedere il valore lucente dell’eroe guerriero che s’illustrava nel duello, e in ciò risiedeva la sua bellezza». Poi questa tensione positiva si spezza.
È una rottura di cui si fa interprete Apollinaire, il quale, dopo aver elogiato le meraviglie dei campi di battaglia e l’incanto degli spari di fucile, si convince che la guerra è altro: macchina infernale, dramma orrendo, distruzione impietosa. Non è solo tripudio dell’intelligenza tattica, e non è esclusivamente inesauribile fonte fantastica. Ma è disordine, accidentalità, casualità. Non si fa mai dominare nella sua completezza. Si consegna a noi come dissonanza, come polvere. Determina disorientamento e smarrimento. Se ne possono catturare solo alcune schegge lancinanti: sfuggite a un insieme oramai deflagrato. L’artista agisce come un inviato speciale e come un archeologo: sceglie di svelare i conflitti del suo tempo; e ne trae frantumi, che poi ripone dentro arsenali di memorie del presente.
Si pensi all’epicedio dipinto da Picasso in Guernica, ma anche alle immagini allucinanti di un film come Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. E, poi, si pensi all’umanità post-umana, deforme e disperata dipinta da Fautrier, il quale, nella serie delle Teste d’ostaggio, ritrae i «vinti» dei campi di concentramento: profili tremolanti, talvolta sovrastati da piccole macchie di capelli; la carne è malata per il freddo e la denutrizione; illuminata da colori lividi, sembra prossima alla consunzione; ecco scabri teschi, detriti poveri e polverosi, grumi di carne, manipolati con gesti violenti. E ancora (per menzionare alcuni artisti che saranno al Mart): le ferite incise da Burri nei suoi sacchi e nei suoi legni; l’attraversamento dell’olocausto proposto da Mauri; le reliquie di Lida Abdul; le ricognizioni videoanimate sull’apartheid di Kentridge; i ricordi dolorosi filmati da Sala e da Paci; le fragili archiviazioni di rovine private di Lucchi e Gianikian. E lo struggente affresco fotografico di Adi Nes, immigrato in Israele nel 1950, autore di un’imprevista Ultima cena, nella quale, invece degli apostoli, ci sono dodici soldati i cui gesti replicano quelli del capolavoro leonardesco: un fermo-immagine che riesce a risultare agghiacciante.
Sono voci, queste, di quell’«età dell’estremismo» di cui ha parlato Marco Belpoliti. Artisti che pensano le loro opere come autentiche scritture della catastrofe attuale. Dunque, il canto. L’apocalisse. Infine, la metafora. Perché affrontare la guerra, soprattutto per i protagonisti dell’arte degli inizi del XX secolo, significa ancora altro. Allude all’essenza stessa dell’avanguardia. Ove, con questa categoria, ci si riferisce a una pratica profondamente scandalosa. Infilarsi nelle pieghe della storia, rendendole visibili, folgoranti, per lambire il «nuovo», l’ignoto. Affidarsi alla strategia dell’«oltranza», per portarsi al di là di modalità linguistiche consolidate, e per sondare territori inesplorati. Essere in trincea, pronti a sfidare i fronti nemici. Del resto, si sa: la stessa parola avanguardia è presa in prestito proprio dal lessico militare. In un trattato settecentesco nel quale è schedata tutta la cultura latina, leggiamo (Totius Latinitatis Lexicon del sacerdote friulano Forcellini): «Nel linguaggio militare vengono chiamati antecursores coloro che precedono l’esercito, esplorano i luoghi, aprono le strade, individuano i siti per gli accampamenti e per primi attaccano battaglia con i nemici, se per caso si imbattono in loro».
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» dell'11 maggio 2014

Diclorodietilsolfuro (iprite). Il gas letale soffosca le trincee

La storia della conquista del Belgio (come la Polonia del 1939) e della sua resistenza
di Luigi Offeddu
Uno chiffon de papier, un brandello di carta. Alla sera del 4 agosto 1914, andava considerata così la promessa di neutralità garantita al Belgio dalle cinque potenze europee, fra cui la Germania. Lo disse chiaro e tondo il cancelliere tedesco Theobald von Bethmann-Hollweg, nella lingua dei diplomatici, all’ambasciatore britannico a Berlino, sconvolto da quelle parole. Perché la promessa fatta a Bruxelles era un patto solenne che risaliva al 1830, anno di nascita del Belgio indipendente. Era la parola d’onore di un continente intero. Ma fu stracciata lo stesso. Una manciata di ore dopo, il piccolo Belgio fu invaso dalla grande Germania, che da anni con il suo «piano Schlieffen» puntava alle Fiandre e al mare per poi accerchiare la Francia e subito dopo affrontare la Russia zarista. Poi si mossero gli eserciti degli altri giganti, da Parigi a San Pietroburgo e a Londra.
Era l’inizio della Grande guerra, un secolo fa, lo scontro atteso fra il mondo germanico, quello anglosassone, quello franco, quello slavo, quello italico-mediterraneo. E fra grandi strateghi, o eroi nascosti: come si vide quando, travolti dall’impeto degli invasori, i belgi risposero a colpi di alta marea, aprendo le chiuse di Nieuwpoort sulla costa e allagando le campagne dell’Yser, che per i tedeschi si trasformarono in paludi invalicabili: un episodio quasi sconosciuto, raccontato da Ian F.W. Beckett nel suo libro La prima guerra mondiale. Dodici punti di svolta (Einaudi). La Grande guerra fu anche uno scontro di dominatori idealisti, secondo (pochissimi) storici, o di colossi industriali in fase di sovrapproduzione, secondo altri. Ma lo chiffon de papier stracciato dalle mani del Belgio non sarebbe rimasto il solo, nella storia d’Europa.
Venticinque anni dopo, si rivelarono un «brandello di carta» anche le promesse fornite da un altro cancelliere tedesco, Adolf Hitler, a un altro Paese fragile, la Polonia. Il 1° settembre 1939, una sbarra di confine in un bosco fu sollevata da un manipolo di soldati tedeschi, che una foto catturò per sempre nel loro gesto: il sigillo della pace stuprata, dell’Europa dimentica di se stessa; e di qualcos’altro ancora, un Male mai prima concepito, la strage del popolo ebraico. La Polonia come il Belgio, micce di un incendio che divorò poi tutto: poche ore dopo il levarsi della sbarra, ricominciò l’Apocalisse. E in Belgio, come in Polonia, tutto questo non è mai stato dimenticato. La sensazione del colpo alle spalle non è mai sbiadita nella memoria nazionale, seppure divisa nelle due comunità di lingua e storia diversa, i fiamminghi e i valloni francofoni. Anzi, ha continuato ad acuire vecchie ferite: perché se per l’ultima guerra mondiale è storicamente accertata l’esistenza di un forte collaborazionismo vallone (Léon Degrelle) o fiammingo (Staf De Clercq) al fianco dei nazisti, anche sulle origini del primo conflitto sono sempre circolate voci su frange fiamminghe che avrebbero agevolato l’invasione tedesca, per la tradizionale avversione ai valloni francofoni e alla loro madre, la Francia.
Altre memorie sono sempre lì, da un secolo: il diclorodietilsolfuro, il gas usato per la prima volta — pare — dai tedeschi nel 1915 ha un nome ben più noto, iprite, poiché deriva dalla città belga di Ypres, le cui trincee furono trasformate in atroci luoghi di esperimenti chimici. All’inizio di tutto, fra Belgio e Germania, l’orgoglio del primo e la determinazione bellica della seconda formarono in 48 ore una miscela devastante. E basata, ancora una volta, su due chiffon de papier. Primo documento: «Ore 19 del 2 agosto 1914, Legazione imperiale tedesca a Bruxelles. Estremamente riservato… Le misure prese dai nemici della Germania (i francesi, ndr) l’obbligano a violare il territorio belga…». Poi: se il Belgio non sarà ostile, verrà indennizzato. Se no, sarà considerato un nemico di Berlino. C’era anche qualcosa di non detto: il piccolo Belgio aveva ricche colonie in Africa, come il forziere del Congo, e la Germania — «padrona» del Tanganika o della Namibia — ambiva a divenirne l’erede. L’ultimatum di Berlino celava pure questo, fra le righe. Ma i belgi non potevano accettare. E così, ecco la risposta del 3 agosto: «Se il Belgio accettasse, sacrificherebbe l’onore della nazione e nello stesso tempo tradirebbe i suoi doveri verso l’Europa…».
Bruxelles non poteva sostenere a lungo l’assalto di un esercito così potente. In poche settimane, i tedeschi piallarono villaggi e battaglioni nella loro corsa verso nord. Poi però ci fu la parentesi eroico-geniale di Nieuwpoort, sul Mare del Nord. Come raccontato nel libro di Beckett, un ingegnere e un vecchio battelliere, cui sono dedicati due monumenti sul posto, furono i probabili ideatori dell’operazione. Il generale francese Ferdinand Foch e i capi dell’esercito belga si contesero poi il merito di aver autorizzato l’inondazione. E Gerald Dingens, il guardiano della chiusa di Nieuwpoort, coordinò tutto. Raccontarono più tardi i diari di guerra tedeschi: «La mattina del 30 (ottobre 1914, ndr) le truppe in avanzata si trovarono immerse nell’acqua fino alle caviglie, poi il livello era salito gradualmente e ora si trovava all’altezza delle ginocchia, e a malapena riuscivamo a trascinare i piedi fuori dal terreno argilloso…». L’«auto-inondazione» fermò, almeno in quella zona, le truppe del Reich. Il Davide belga aveva trasformato in un bagno di fango la marcia trionfale del Golia Kaiser.
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» dell'11 maggio 2014

Facebook cambia l’autofiction

Tendenze. Esauriti i blog, in affanno la «twitteratura», il social network è la frontiera degli scrittori
di Vanni Santoni
Narrazioni di sé come se fossero vere (e non lo sono). Ma qualcuno ci crede
Mentre non sembra aver fine l’esodo dei giovanissimi da Facebook, e la piattaforma utenti del social network si fa più adulta, le modalità d’uso cambiano. Se rimangono diffusi gli utenti «didatti», che rilanciano articoli di interesse sociale, e quelli «realisti», che continuano a riportare la cronaca della propria esistenza, in molti casi l’autonarrazione si affina e diventa sempre meno istintiva. In questo contesto, un fenomeno tutto italiano sono le «autofiction finzionali»: storie narrate per mezzo di status, le quali per avere piena fruizione prevedono l’accettazione (almeno nell’attimo di sospensione dell’incredulità che avviene al momento della lettura) del fatto che sia il vero utente a parlare. Un fenomeno reso possibile anche da ragioni tecniche: negli anni, Facebook ha lavorato per giungere alla maggior possibile sovrapposizione tra persona e profilo, cosicché chi legge gli status altrui tende a farlo pensando l’altro come «reale».
Se vanno ancora forte le pagine puramente parodiche, come Siamo la Gente, il Potere ci Temono, satira del grillismo a base di scie chimiche e rettiliani, o Amo il mio carabiniere, bizzarra pagina di un’immaginaria fan dell’Arma, la nuova frontiera sono le pagine in cui il confine tra utente e personaggio si sfrangia.
Il primo a imporsi in questo modo è stato Alessandro Gori, detto Lo Sgargabonzi, i cui status a base di humour nero e teatro dell’assurdo gli sono valsi un considerevole seguito (e una buona quantità di nemici) online, trasferitosi poi anche nei suoi eventi live. Omologo femminile dello Sgargabonzi è Christiane D’Arc, assurta a figura di culto con una timeline dove si alternano foto softcore di calcolata ingenuità e status provocatori in cui viene inevitabile chiedersi se «c’è o ci fa». Contagiati forse dalla noia delle autonarrazioni ordinarie, la cosa si è diffusa anche tra i romanzieri. Da un paio d’anni Tommaso Pincio posta status che cominciano con le parole volutamente sgrammaticate «Nel caso ci sono genti che non sanno…», corredate da un’immagine a tema, dando vita a qualcosa che sta tra una specie di surreale guida al mondo e la parodia di quegli utenti che nei loro status paiono animati da una irriducibile vena educativa. La cosa funziona, al punto che diventerà un libro, provvisoriamente intitolato Genti che non sanno, così come diventeranno un libro, previsto per il 2015 da Einaudi, gli status del «professore» di Christian Raimo. Da circa un anno Raimo, che è professore di liceo anche nella vita reale, cosa che ha alimentato l’equivoco, e con esso la forza della narrazione, pubblica con seguito crescente status che riportano i disperati tentativi di un professore ansioso e frustrato di trovare nei suoi studenti i legami emotivi che gli mancano altrove.
Morti o diventati altro i blog, si è parlato molto della possibilità di una letteratura social: ma piuttosto che dalle ardite sperimentazioni di «twitteratura» è inaspettatamente il risaputo Facebook, che aspirava a essere il luogo della «vita reale», a rivelarsi il terreno più adatto per la fiction, compresa quella che sbarca in libreria.


I quattro esempi

Alessandro Gori
Già piuttosto noto come blogger sulla defunta piattaforma Leonardo.it, Gori, altrimenti detto Lo Sgargabonzi, ha recentemente debuttato sulle colonne di Internazionale con pezzi satirici e pubblicato un libro, Le avventure di Gunther Brodolini, che, pur uscito con un minuscolo editore (Fuorionda di Arezzo) è già andato più volte in ristampa; tuttavia il fulcro del suo lavoro e della sua poetica rimangono gli status di Facebook. «Tutto cominciò,» racconta lo stesso Gori, «da uno status che scrissi quando ancora usavo Facebook come un utente normale. Per scherzo – sì, sono consapevole di avere uno humour che a molti può rimanere indigesto – scrissi ‘sono a favore della castrazione chimica per le vittime dei pedofili’. Inizialmente ci fu una messe di ‘like’ da parte di gente che non aveva letto con attenzione la frase, seguita poi dai messaggi infuriati delle stesse persone, che nel frattempo avevano capito che avevo scritto qualcosa di molto diverso (e molto più assurdo) di ciò che avevano inteso inizialmente. Lì intuii il potenziale degli status di Facebook» continua Gori, «che risiede nell’abitudine che ha la gente a prenderli sul serio, e provai con un altro, forse ancora più potente perché sfruttava quella presunzione di istantaneità tipica dei social. Scrissi ‘Ho appena dato un calcio a un cane’. Ci fu una vera e propria rivolta. Da lì pian piano il profilo dello Sgargabonzi trovò la sua linea e abbandonai gli status ‘seri’ per dedicarmi solo a quelli in linea con la mia nuova ‘persona’, in cui tutto si regge sul costringere sempre il lettore a chiedersi se ci sei o ci fai.»

Christiane d’Arc
Nonostante status come «Alle lementari (sic) erano brutti quarti d’ora quando toccava a te dire che lavoro facevano i tuoi dal momento che i genitori degli altri erano tutti coreografi di Madonna o medici senza frontiere e spesso l’una non escludeva l’altra, io peraltro non sapevo davvero che lavoro faceva mio babbo ma solo che veniva a prendermi a scuola tutti i giorni con una macchina diversa e nessuna era la sua…», la sempre più popolare Christiane D’Arc sostiene di non essere così distante dalla propria rappresentazione online: «anche se per molti versi sto parodiando correnti interne a Facebook, anzi si potrebbe dire che sono una parodia di svariate tipologie di utenti, non parlerei di ‘autofiction finzionale’, ma di pura e semplice autofiction. Quando metto una foto di me stessa in mutande, magari arricchita di scritte fatte con Microsoft Paint, non sto, o non sto solo, facendo una parodia di chi utilizza Facebook per raccontarsi in un certo modo e proporre una certa immagine di sé: sono anche seria, altrimenti il processo non sarebbe catartico. » Catartico? «Sì,» continua D’Arc: «Facebook impone a tutti i suoi utenti l’autonarrazione, ha obbligato miliardi di persone a inventarsene una, costringe chiunque ad avere un’immagine pubblica. È qualcosa da cui è necessario purificarsi, e per farlo non basta l’autoironia. Anzi, è diventata tanto diffusa, e tanto facile, che quasi sempre l’autoironia su Facebook nasconde bieca autocelebrazione. Con se stessi, in un luogo che nasce per parlare di se stessi, che chiede alla gente di farlo, non basta l’ironia: bisogna essere brutali.»

Tommaso Pincio
Gli status delle «genti che non sanno», racconta Pincio, non nascono dal nulla, ma sono figli diretti e coagulazione finale di vari percorsi d’uso di Facebook per creare piccole narrazioni, anzitutto quella dell’ Umile Trascrittore, in cui lo stesso Pincio trascriveva frasi provenienti dal parlato di politici, calciatori, soubrette e altre figure pubbliche, e le condivideva sul social network, ma nude e crude, senza virgolettarle né indicare la fonte. Lo scopo era capire com’era cambiata la percezione del testo scritto nell’epoca digitale, ma molte delle reazioni iniziali furono di assoluto sgomento e incomprensione, talvolta di profonda irritazione. Alcuni, sentendosi offesi, arrivarono persino a togliergli l’amicizia. «Trovavo altresì confortante,» spiega ancora Pincio, «che la trascrizione (che è poi la quintessenza del romanzo) venisse ancora percepita come trasgressiva. Da lì passai alle ‘genti che non sanno’: i primi status riportavano immagini retró in cui qualcuno saliva su un treno in corsa calandosi da una mongolfiera, o sempre da una mongolfiera osservava le stelle cadenti, ed erano corredate da frasi come ‘nel caso ci sono genti che non sanno come si sale su un treno in corsa da una mongolfiera…’. È logico che molti status delle ‘genti che non sanno’ suscitino ilarità, ma più che essere una narrazione umoristica credo siano un tentativo di scendere a patti con un mondo nuovo che mi ripugna e al tempo stesso mi attrae: un canto di dolore o d’agonia o di rabbia o di nostalgia, a seconda di come si preferisce vedere la cosa, o dell’umore col quale mi sveglio al mattino.»

Christian Raimo
Anche per Raimo il primo status giunse per caso: «riprendeva, esagerandola soltanto un po’, una situazione che avevo vissuto veramente a scuola. Quasi tutte le reazioni furono di gente che l’aveva presa sul serio e da lì scattò la scintilla,» racconta, e infatti tuttora molti lettori continuano a prenderlo sul serio. Anche quando arriva a chiedere ai suoi studenti di consigliargli un analista: 
«Giorgio.»
 «Sì, chi é?» «Sono il prof, Giorgio» «Ah, salve».
 «Ti disturbo?» «Ero al mare prof.» «Ah, ti sei andato a fare il ponte… e sei da solo?» «No, sto qua con un po’ di amici…» «Ah, bello… Ci stanno anche Nicola e Carolina?… li avevo provati a chiamare prima… Ma mi sa che Nicola ha cambiato numero che mi dice sempre numero non raggiungibile… tu c’hai il nuovo?…» «Prof, scusi sto in spiaggia, che voleva dirmi?…»
 «Niente, niente, ti volevo chiedere giusto una cosa semplicissima… se hai un paio di minuti…»
 «Veramente adesso prof, no… Ma non ne possiamo parlare a scuola?… » «Guarda, ti dico al volo allora…. tanto sono proprio due minuti….»«”Ti volevo chiedere… ma tua madre non faceva la psicologa… vero?» «È psichiatra».
«Eh sì, ma c’ha lo studio e parla con le persone?…»
«Fa terapia, sì»
 «Ecco, ti volevo chiedere… C’è un mio amico, che non è che sta male, ma… c’ha dei momenti come dire strani… Ti chiedevo se per caso mi potevi dare il numero di tua madre… non per fare terapia con lei, eh… ma magari lei conosce qualche sua collega… Sai quanto prende tua madre?» «Non lo so, credo cento a seduta». 
«Ah, cento… Però non sai se ci sono delle sue colleghe che sono più economiche?» «Non ho capito, prof, vuole il numero di uno psicologo?» «Ma non per me, eh..».
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» dell'11 maggio 2014

Colombi cartografi con l’elmetto

La geografia si impose come strumento per combattere. Palloni aerostatici, apparecchi a motore e piccioni mapparono il territorio con la precisione di un satellite: uno studio della Fondazione Benetton
di Carlo Vulpio
Abituati ad associare i colombi alla pace — la prima colomba con il ramoscello d’ulivo fu quella che annunciò a Noè la fine del diluvio universale — e scoprire invece quanto questi pennuti siano stati utili e addirittura essenziali in guerra, per esempio nella Grande guerra, significa poter raccontare la storia di questo conflitto in un altro modo. Lo stesso discorso vale per l’aerostato, la mitologica mongolfiera del barone di Münchhausen, che nella Prima guerra mondiale diventa il «pallone frenato», cioè vincolato al suolo da lunghi cavi per poter meglio osservare e fotografare anche da 1.500 metri di altitudine ciò che accade sul suolo nemico e all’occorrenza sbarrare il volo agli aerei ricognitori. I quali, anch’essi, osservano e fotografano luoghi e obiettivi, più che colpirli, e, assieme alle notizie portate dai colombi, ai rilievi eseguiti da bordo dei palloni frenati e alla spola incessante dei soldati in bicicletta (i ciclisti esploratori e portaordini, ma anche gli assaltatori), consentono di raccogliere ogni notizia utile a individuare le postazioni militari, il corso di fiumi e torrenti, i valichi, i ponti, e a collocare tutta questa mole di informazioni su mappe e carte geografiche disegnate con una precisione che sarà superata soltanto dai rilievi satellitari di là da venire.
Ecco, le carte geografiche. L’esplosione della Grande guerra — oltre che ai grandi giochi delle grandi potenze, con relativi grandi scenari e grandi massacri (altro che l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo per mano di Gavrilo Princip come «causa prima» del conflitto) — deve molto alle carte geografiche e all’ideologia di cui traboccavano, poiché quelle carte geografiche riuscirono in una «missione» delicata, che alcuni decenni dopo avrebbe fatto dire al grande geografo francese Yves Lacoste una cosa molto semplice e molto netta, e cioè che «la geografia serve, principalmente, a fare la guerra».
Yves Lacoste formulò questo fulminante enunciato nel 1976 — rilanciando di fatto la geopolitica, all’epoca guardata con sospetto perché considerata un «prodotto» di marca hitleriana — ma a metterlo in pratica era stato già nel 1916 l’Istituto geografico De Agostini di Novara, che pubblicò l’Atlante della nostra guerra (curato da Achille Dardano, Giuseppe Dalla Vedova e Luigi Filippo De Magistris) con lo scopo dichiarato di convincere il pubblico che l’entrata in guerra dell’Italia (24 maggio 1915) era fondata sulla giusta causa del ripristino dei «confini naturali».
Proprio questo però era (ed è) il punto. Quali sono i confini naturali, come si individuano? Con le catene montuose tipo le Alpi o i Pirenei? Con la teoria del displuvio — vale a dire in base alla direzione che prendono i corsi d’acqua —, che per l’Italia, per esempio, comporterebbe due spartiacque, l’arco alpino e quello appenninico? Di modo che tutte le popolazioni al di qua delle Alpi sarebbero italiane e quelle al di là tedesche e francesi?
Un lavoro della Fondazione Benetton Studi e Ricerche — che diventerà mostra itinerante e, in collaborazione con la Cineteca del Friuli, documentario per le scuole superiori — dimostra che non esistono confini naturali netti, precisi, matematici. «Già è difficile — spiega Massimo Rossi, il geografo storico che ha coordinato la ricerca — individuare il confine “naturale” tra Europa e Asia, figuriamoci stabilire quelli tra le sottoregioni europee. Forse questo concetto potrebbe valere soltanto per la Gran Bretagna, completamente circondata dal mare, ma gli altri sono tutti confini convenzionali, linee geometriche, come è ben evidente per gli Stati Uniti d’America o l’Africa».
Le cose si complicano ulteriormente quando a presunti confini naturali si aggiungono quelli etnografici, che tra l’altro non coincidono mai geometricamente con i primi, e a questi i confini linguistici e religiosi. Come accadde proprio per il Regno d’Italia, il più giovane degli Stati europei dal punto di vista della geografia politica, in cui il lavorìo sulle carte geografiche sembrava essere diventato quasi un febbrile tentativo di quadratura del cerchio, al punto da portare l’irremovibile irredentista Ettore Tolomei prima a cambiar nome al Sud Tirolo, chiamandolo sulle cartine Alto Adige, e poi, in periodo fascista, diventato senatore, a prodigarsi nella «italianizzazione» forzata dei cognomi stranieri e di circa settantamila toponimi tra Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Dalmazia.
Tra le immagini e i documenti inediti scovati da Rossi nel Kriegsarchiv di Vienna e nell’Archivio storico dello Stato maggiore dell’esercito italiano, vi è una cartina accompagnata da una corrispondenza tra Tolomei e Cesare Battisti (socialista e certo non meno patriota del primo), in cui quest’ultimo cerca di moderare le rivendicazioni del suo interlocutore sull’«Alto Adige», consigliandogli di spostare la linea di confine più a sud, cosicché all’Italia rimarrebbero tutto il Trentino e le aree di lingua italiana e all’Austria la parte di lingua tedesca. Ma in clima di guerra ragionamenti e distinzioni, pur se fondati, vennero travolti. E nemmeno le argomentazioni di un Gaetano Salvemini, che pure era interventista, ma accettava l’irredentismo «solo come difesa della lingua e della nazionalità italiana» e si scagliava contro tutti coloro che «sbraitano di confini naturali», servirono a rendere meno ingarbugliata la matassa e a far capire, per esempio, che una cosa erano l’Istria e gli italiani d’Istria, un’altra l’«Alto Adige» e i suoi sudtirolesi. Niente da fare, le carte geografiche che «certificavano» l’evidenza dei confini naturali erano riuscite a imporre una vera visione del mondo. Un risultato enorme. Che tuttavia, sostiene Rossi, non è servito a far capire che «il contributo dei geografi allo studio della Grande guerra è una modalità non ancora sufficientemente percorsa».
Non si tratta di un problema di poco conto, o squisitamente accademico. «È un problema politico», come hanno detto a Rossi quando ha richiesto agli uffici di Bolzano una carta tecnica regionale e gliene hanno inviata una «muta». Poiché di quella carta esiste una versione con i toponimi in tedesco e una in italiano, hanno voluto evitare incidenti diplomatici. Segno che «la guerra non è finita».
Non solo quella, inutile nasconderselo, condotta attraverso la pratica diseguale del diritto di accesso agli impieghi pubblici e dell’uso del bilinguismo, ma anche quella combattuta a colpi di mappe e carte geografiche in maniera non molto diversa da ciò che accadde durante la Grande guerra, quando questo compito — come abbiamo detto all’inizio — era affidato ai ciclisti, ai ricognitori, ai palloni frenati e soprattutto ai colombi. I quali, smistando le notizie dalle trincee ai quartieri generali — con un rischio scarso o nullo di essere intercettati e perdite contenute (180 colombi su 1.500 impiegati, appena il 12 per cento, dice un rapporto del 1918) —, consentivano a geografi e cartografi di tradurre quei «pizzini volanti», i colombigrammi, in mappe e carte preziose. E con una velocità impensabile, visto che un colombo in media copriva un tragitto di 30 chilometri in 30 minuti e che, nonostante la foschia e i gas lacrimogeni, «il colombo numero di matricola 32 ha percorso 130 chilometri in un’ora e 50 minuti».
Questa guerra «vista da vicino» è stata raccontata in pagine molto belle da autori come Hemingway, Remarque, Rigoni Stern, Dos Passos e, dalla parte austriaca, da Fritz Weber. Ma degli «alati messaggeri che rendono utili servizi al Paese», e delle norme da osservare per la loro alimentazione e igiene, fino alle minuziose regole per tubetti e taschette che dovevano contenere i dispacci, ci parlano solo le relazioni di servizio — finora sepolte negli archivi — redatte da chi era al fronte, ignaro che «la geografia serve principalmente a fare la guerra».
«Corriere della Sera - Suppl. La lettura» dell'11 maggio 2014

La prova generale dell’orrore genocida

Deportazioni, stragi,stupri: le atrocità sui civili preannunciano un cupo futuro. E rimangono tutte impunite. L’avvio di una deriva che porterà ad Auschwitz
di Marcello Flores
La memoria più vicina e più forte della Seconda guerra mondiale, in cui la metà delle vittime sono state civili, ha fatto spesso dimenticare che i crimini di guerra e contro l’umanità hanno fatto la loro comparsa nel primo conflitto mondiale. Le convenzioni dell’Aia del 1899 e 1907 avevano stabilito quali fossero, nel corso di una guerra, i comportamenti ritenuti lesivi della dignità, dell’onore, di un sentimento di umanità che dovevano sopravvivere anche in epoca bellica. Ma già nel corso del 1915 e del 1916 erano apparsi diversi «rapporti» sulle atrocità commesse dall’esercito tedesco in Belgio e Francia, su quelle delle truppe austriache in Serbia, su quelle dell’esercito turco ai danni delle minoranze dell’Impero ottomano. Ma sarà soprattutto nel corso della conferenza di pace di Parigi che, nel marzo 1919, una commissione «sulle responsabilità degli autori della guerra e sull’applicazione delle punizioni» presenterà un ampio e dettagliato rapporto che elencava 32 crimini di guerra e allegava 30 pagine di esempi che enumeravano i luoghi e i tempi in cui essi erano stati commessi.
Un’anticipazione drammaticadi quanto sarebbe accaduto si era già avuta durante le due guerre balcaniche che, nel 1912-13, costituirono la premessa al conflitto mondiale. Anche in questo caso, nel 1914, era stato pubblicato un rapporto, voluto dalla Carnegie Foundation e stilato da giuristi di sei Paesi, in cui erano elencati gli orrori commessi da tutte le parti coinvolte (nella prima guerra la Lega balcanica contro l’Impero ottomano; nella seconda il conflitto era scoppiato tra i membri della Lega, la Bulgaria contro i suoi ex alleati Serbia, Grecia e Montenegro). Un ampio affresco in due tomi dello storico inglese Mark Levene sugli orrori dei genocidi novecenteschi, The Crisis of Genocide, dedica la prima parte proprio ai crimini commessi tra il 1912 e il 1918, mostrando come nell’area prevalente dei massacri (i Balcani, il Caucaso, l’Anatolia) in realtà le violenze continuarono fino almeno al trattato di Losanna del 1922, proseguendo sulla linea di quelle commesse negli anni precedenti.
Levene inquadra l’intero sviluppo mondiale moderno dell’Ottocento e Novecento come un contesto che favorisce il genocidio e vede le crisi delle semiperiferie — dove più gravi sono le violenze — come conseguenza del generale conflitto tra le grandi potenze in quelle zone che devono reggere l’impatto del collasso degli imperi tradizionali. Cercando di superare il contrasto tra coloro che vedono l’orizzonte della guerra come il contesto più propizio per le peggiori violenze o, al contrario, come il risultato di dinamiche che localmente hanno già il segno della barbarie, Levene cerca di comprendere la violenza intrecciando le «circostanze» da cui nasce il conflitto con la «esperienza» in cui esso si concretizza. Per i serbi, ad esempio, gli islamici macedoni potevano essere assimilati, mentre i musulmani albanesi dovevano essere deportati o sterminati, in quanto gruppo che sembrava costituire una minaccia particolarmente pericolosa.
È proprio la percezione della minaccia rappresentata da un gruppo avverso (nazionale, etnico, religioso) a costituire in genere la molla delle atrocità, oltre alla spirale di vendetta e controvendetta. Se nel corso della prima guerra balcanica migliaia di musulmani ottomani vengono uccisi dalle truppe serbe e bulgare nel corso della deportazione di oltre 200 mila di loro, nella seconda saranno i greci a distruggere 160 villaggi e a giustificare nell’estate del 1913 le loro atrocità, sostenendo che i bulgari non erano uomini e che con i barbari occorre comportarsi da barbari. I massacri dei serbi nei confronti degli albanesi — per ridurre il loro peso demografico in Kosovo — toccano l’apice nel settembre 1914, quando la repressione di un tentativo di rivolta conduce all’annientamento del distretto di Luma e alla fuga dei 25 mila sopravvissuti. È quindi senza soluzione di continuità che si succedono gli eccidi, le deportazioni, le violenze che accompagnano le prime terribili battaglie del conflitto mondiale (Charleroi, Marna, Tannenberg, Laghi Masuri, Langemarck, Cer).
La novità, in questo caso, è data dal luogo in cui avvengono le atrocità e da chi le commette. Nell’agosto-settembre del 1914, infatti, sono i soldati tedeschi a creare il terrore tra le popolazioni del Belgio e della Francia del nord. Con la scusa del timore di spie e della presenza di francs-tireurs (civili armati), come nella guerra franco-prussiana di quarant’anni prima, il generale von Bülow autorizza il 9 agosto la presa e uccisione di ostaggi e l’incendio dei villaggi dove i tedeschi hanno trovato resistenza. A Dinant quasi 700 persone (donne e bambini compresi) vengono allineate e uccise il 23 agosto, mentre due giorni dopo l’incendio di Lovanio distruggerà la preziosa biblioteca medievale, uccidendo circa 250 persone. Certo, in termini numerici, le 6.500 vittime civili del Belgio sono poca cosa di fronte a oltre un milione di morti che conterà, di lì a un anno, il genocidio degli armeni da parte ottomana, o ai massacri degli assiri e alla deportazione dei greci; o alle altre deportazioni di cui sono vittime in Russia oltre 300 mila tedeschi del Volga inviati in Siberia, o 100 mila ebrei rimossi dalle aree vicino al fronte e mandati in Polonia, mentre i cosacchi nel settembre 1914 entrano nella capitale della Galizia, Leopoli, uccidendo coloro che sono rimasti e distruggendo la città.
La deportazione è l’arma privilegiata, perché permette di uccidere o di far morire indirettamente una gran quantità di nemici presunti, impossessandosi di beni e villaggi e lasciando spesso alla popolazione locale il compito di intervenire contro le minoranze (ma queste minoranze, in Russia, sono oltre sette milioni di persone che saranno rimosse dalle loro case nel corso della guerra e saranno vittime della violenza militare dell’esercito zarista e a volte anche di quello nemico). Lo stupro di massa nei confronti delle donne — e spesso delle bambine — dei villaggi occupati fu una costante che anticipò e accompagnò le distruzioni e le deportazioni. Ciò avvenne in particolare, e con decine di migliaia di casi, nel corso della deportazione degli armeni, dell’espulsione degli ebrei dalle regioni occidentali della Russia, dell’invasione della Galizia, dell’occupazione austro-ungarica e bulgara della Serbia.
Autorizzati e incoraggiati dalle gerarchie militari, gli stupri di massa si rivelarono strumenti del genocidio e della snazionalizzazione. Quelli commessi sul fronte orientale e balcanico — di gran lunga la maggioranza — passarono però quasi inosservati, mentre fu alle centinaia compiuti da parte tedesca in Belgio e Francia che si diede particolare attenzione, anche se prevalentemente da parte di organizzazioni femminili. La commissione che nel marzo 1919 consegna il suo rapporto sulle violazioni delle «leggi di guerra» e sui crimini «contro l’umanità e la civiltà» (come le grandi potenze avevano dichiarato nel maggio 1915, avvertendo la Turchia che tutto il suo governo sarebbe stato ritenuto colpevole dei massacri degli armeni da poco iniziati) indica come responsabilità principali delle armate tedesche, austriache e ottomane, i massacri e il terrorismo sistematico, la messa a morte degli ostaggi, la tortura di civili, la deliberata riduzione alla fame, lo stupro, il sequestro di ragazze e donne per la prostituzione forzata, la deportazione, le condizioni inumane dell’internamento, il lavoro forzato dei civili nel corso di operazioni militari. Di alcuni di questi delitti si erano resi responsabili anche le potenze vincitrici. Ma il disaccordo politico (e soprattutto l’opposizione americana alla definizione stessa di crimini contro l’umanità e all’instaurazione di un tribunale internazionale) impedì che perfino per le nazioni sconfitte scattasse la risposta di una giustizia internazionale che pure sembrava avere individuato ciò che era accaduto.
«Corriere della Sera» dell'11 maggio 2014

Benito e Pietro, ribelli interventisti

Nel giugno 1914 Mussolini e Nenni furono all’avanguardia nei moti sovversivi della Settimana rossa. Ma subito dopo entrambi si schierarono per l’ingresso in guerra
di Claudio Venza
«La monarchia è condannata. Cadrà oggi o cadrà domani, ma cadrà sicuramente e presto». Così scrive il leader anarchico Errico Malatesta indicando l’obiettivo della rivolta iniziata l’8 giugno 1914 e passata alla storia come «Settimana rossa». In effetti la notizia della caduta dei Savoia circola tra gli insorti e ne anima la lotta. L’enorme, e pare irrefrenabile, movimento parte da un fatto di sangue: l’uccisione di tre manifestanti, due repubblicani e un anarchico, colpiti dagli spari dei carabinieri ad Ancona dopo il comizio antimilitarista del 7 giugno. L’agitazione vuole ottenere lo scioglimento delle compagnie di disciplina, reparti punitivi per soldati sovversivi, e l’inizio del processo ad Augusto Masetti, l’anarchico che nel 1911 aveva sparato a un ufficiale che incitava a partecipare alla guerra di Libia.
La dimensione e la radicalità dell’insurrezione sorprendono gli stessi rivoluzionari. Come ricorda Luigi Lotti nel suo studio ormai classico, il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris confessa: «Non credevamo ci fosse in Italia tanta materia infiammabile». Fra i protagonisti si fanno notare, oltre a Malatesta e a Luigi Fabbri, il dirigente repubblicano Pietro Nenni e il socialista estremista Benito Mussolini. Non a caso gli ultimi tre sono romagnoli o marchigiani. Una regione ampia, e dalle tradizioni ribelli, è l’epicentro della sollevazione. Si va da Ancona, la città più importante, alle intere Marche e si coinvolge in pieno la «Romagna rossa». La forza pubblica, polizia ed esercito, sembra restare paralizzata di fronte all’occupazione di municipi, all’assalto di chiese, all’invasione di edifici statali. In effetti molti reparti restano senza ordini, in quanto il telegrafo viene sabotato in più punti e le comunicazioni ferroviarie sono quasi totalmente sospese.
In queste condizioni esplode una rabbia popolare che porta perfino alla ripresa di vecchie simbologie e pratiche. In diverse piazze di centri romagnoli, e non solo, si innalza l’«Albero della libertà», si assaltano i circoli dei notabili e si proclama la Repubblica a livello comunale. In grandi città, da Roma a Milano, da Torino a Firenze, dilaga lo sciopero generale. La Cgl, il sindacato socialista diretto dai moderati, deve seguire la mobilitazione spontanea e avallare le sospensioni del lavoro che si stanno moltiplicando. Sarà poi la stessa confederazione sindacale maggioritaria a spegnere l’incendio insurrezionale, con l’accordo della maggioranza riformista del Psi: il 10 giugno dichiara la fine delle agitazioni e il ritorno in fabbrica o nei campi. Malgrado parte dei rivoltosi intenda continuare la lotta, che prosegue in diversi centri fino al 13, la rottura dell’unità fra le organizzazioni e le stesse indecisioni dei protagonisti portano al termine della massiccia agitazione, la più importante dall’Unità d’Italia.
L’arrabbiato Mussolini accusa di «fellonia» i dirigenti sindacali. Anche il movimento più sovversivo, quello anarchico, deve fare i conti con l’impossibilità di realizzare una vera rivoluzione che, come più volte proclamato da Malatesta, dovrebbe far sì «che nessuno manchi di pane, che nessun bambino manchi di latte, che gli ospedali siano forniti di tutto l’occorrente». Dal punto di vista dello Stato, la Settimana Rossa mostra i limiti del controllo istituzionale sulla popolazione. Ciò risponde, secondo il capo del governo, Antonio Salandra, a una linea politica di «massima prudenza». Si tratterebbe di mantenere la difesa militare dei punti nevralgici e di aspettare l’inevitabile riflusso del movimento. Il ripristino dell’ordine viene facilitato da un avvenimento che cambia la storia mondiale. Nel giro di alcune settimane, in seguito all’attentato di Sarajevo, scoppia la Prima guerra mondiale e tutto il continente è investito da un terremoto. Niente sarà più come prima del 1914.
La guerra provoca in Italia un acerrimo scontro interno fra interventisti e neutralisti, spostando il piano del confronto dall’ambito sociale a quello politico e militare. L’evento traumatico ha effetti sui singoli esponenti delle agitazioni della Settimana rossa. A ciò si aggiunga l’avvio di una nuova fase repressiva e diversi esponenti di primo piano, tra cui Malatesta e Fabbri, scelgono la via dell’esilio. In poco tempo si ridimensiona il contenuto antimilitarista che era stato la miccia della tentata insurrezione del 7-13 giugno. In realtà i repubblicani restano antisabaudi, ma tra loro emerge con prepotenza la componente patriottica. Inoltre si sviluppa in modo quasi irresistibile un altro elemento: il bisogno dell’azione e il rifiuto della passività di fronte a un fatto così enorme come la guerra mondiale.
Il «patriottismo d’azione» si impone progressivamente quale viatico dell’impegno dei repubblicani. Lo stesso Nenni dichiara pubblicamente, dal carcere, di auspicare l’intervento italiano e la partecipazione volontaria dei militanti. Altri attivisti di primo piano nella Settimana rossa scelgono invece la continuità con l’antiautoritarismo. Così Armando Borghi, nel convegno del sindacato rivoluzionario Usi del settembre 1914, rompe con una personalità di grande prestigio come Alceste De Ambris, segretario della potente Camera del lavoro di Parma. Questi si schiera per l’intervento ed è quindi espulso dal sindacato insieme a non pochi seguaci. Da parte sua Benito Mussolini, direttore dell’«Avanti!» e quindi ai vertici del Psi, ha valorizzato la Settimana rossa come momento di rottura del sistema vigente. La sua ricerca ossessiva delle circostanze eccezionali che possano favorire lo scoppio insurrezionale trova poi soddisfazione nella deflagrazione bellica.
Polemizzando con gli antibellicisti, vede nel conflitto in corso in Europa un rimescolamento di carte talmente profondo da creare, anche al di là delle intenzioni di governi e alleanze, nuovi spazi per la «guerra rivoluzionaria». Dopo alcuni mesi di conferme e riconferme della linea ufficiale socialista della «neutralità assoluta», in un articolo del 18 ottobre 1914 enuncia una «neutralità attiva e operante», formula personale e sintomo di un radicale cambiamento di prospettiva. In ultima analisi, la Settimana rossa ha rappresentato per i suoi protagonisti una duplice esperienza valutata in modo in apparenza coincidente: è stata una lotta aperta e foriera di una trasformazione senza ritorno della società. Pro e contro la guerra sono le due posizioni opposte di chi riflette, da angolature politiche e ideali divergenti, sul medesimo cruciale momento storico. È appena terminato, ma appare già lontano e sfumato.
«Corriere della Sera» del 25 giugno 2014

Il processo Eichmann divise Israele e gli ebrei americani

Il libro di Deborah Lipstadt rievoca un evento fondamentale per la memoria dell’Olocausto. Il gerarca nazista fu sequestrato da alcuni agenti del Mossad in Argentina
di Paolo Mieli
Le critiche a Ben Gurion dagli Usa, la sua aspra replica. Come legale dell’imputato fu scelto Robert Servatius che, pur non avendo mai aderito al Terzo Reich, aveva già rappresentato alcuni collaboratori di Hitler a Norimberga. Esponenti di primo piano dell’American Jewish Committee chiesero esplicitamente di consegnare il prigioniero alla Germania e di evitare il processo a Gerusalemme. Nel corso dell’istruttoria la Corte domandò numerosi documenti a diversi Paesi: l’Urss e la Gran Bretagna non li concessero
Il pomeriggio del 23 maggio 1960, mentre alla Knesset era in corso un dibattito sul bilancio, David Ben Gurion chiese la parola e annunciò che era stato catturato Adolf Eichmann, definendolo «uno dei più grandi criminali di guerra nazisti». «È già in Israele in stato d’arresto», aggiunse, «e sarà tra breve processato». Pronunciate queste parole, il primo ministro lasciò l’aula, che restò attonita per qualche secondo e poi fu travolta da un’onda inimmaginabile di commozione. «Mai come quel giorno, dai tempi della Dichiarazione di indipendenza, gli israeliani avevano provato un senso di unità nazionale così profondo», ha scritto Tom Segev nel libro Il settimo milione (Mondadori). L’indomani, un quotidiano laico, «Maariv», titolò così: «Il Potente Iddio, a cui spetta la vendetta, è apparso». È da questo istante che prende le mosse uno straordinario e coraggioso libro di Deborah E. Lipstadt, Il processo Eichmann, che esce oggi da Einaudi. La Lipstadt è una studiosa assai nota per essere stata sottoposta a sua volta, nel 2000, in Gran Bretagna, ad un procedimento giudiziario per un’azione legale intentata a lei e alla sua casa editrice, la Penguin, da David Irving. Quell’Irving che era stato a sua volta accusato dalla Lipstadt di aver dolosamente negato l’esistenza delle camere a gas e lo sterminio sistematico degli ebrei ai tempi di Hitler. Il dibattimento ebbe ampia risonanza e quando si concluse - con una sentenza di trecento pagine che assolveva la studiosa - il «Daily Telegraph» scrisse: «Questo processo è stato per il nuovo secolo quel che il processo di Norimberga o il processo Eichmann furono per le generazioni precedenti». Di qui l’autrice si è sentita in dovere di tornare sul caso Eichmann.Il criminale nazista era già stato catturato dagli Alleati alla fine della guerra senza però che se ne conoscesse l’identità; era poi fuggito in una zona remota della Germania dove aveva lavorato - sempre sotto falso nome - in un’azienda di legname. Sarebbe poi riuscito ad espatriare all’inizio degli anni Cinquanta, per scomparire una decina di anni, e poi essere ritrovato in Argentina nel 1960, rapito dal Mossad, portato in Israele dove, dopo un processo, sarebbe stato mandato a morte nel 1961. Nel ricostruire questa storia, la Lipstadt si è concentrata su alcune questioni di dettaglio, degne di interesse.
L’autrice sostiene che il «cacciatore di nazisti» Simon Wiesenthal, che avrebbe poi rivendicato una parte decisiva nella cattura di Eichmann, ebbe invece un ruolo marginale nella vicenda. Anzi, una sua lettera del 23 settembre 1959 (sei mesi prima dell’arresto del criminale) all’ambasciatore israeliano a Vienna suggeriva che egli si trovasse ancora nel Nord della Germania. Il merito di aver scoperto che Eichmann viveva in una povera casa (senza elettricità, né acqua corrente) di via Garibaldi alla periferia di Buenos Aires, va a Lothar Hermann, un tedesco quasi cieco, ebreo a metà, trasferitosi in Argentina nel 1939 dopo essere riuscito a uscire da un campo di concentramento dove era recluso. Una sua figlia adolescente, Sylvia, aveva iniziato a frequentare un giovane che diceva di chiamarsi Klaus Eichmann. Proprio così: il padre, in fuga dalla Germania, aveva cambiato nome e cognome (quello nuovo era Ricardo Klement), ma il figlio aveva tenuto quelli veri. La notizia per vie traverse era giunta al capo dei servizi segreti israeliani, Isser Harel, che l’aveva presa sottogamba, anche perché Tuvia Friedman, un altro cacciatore di nazisti, sosteneva di avere le prove che Eichmann si trovasse in Kuwait. E la «rivelazione» di Friedman era finita addirittura sui giornali, mettendo a rischio la successiva operazione di Buenos Aires. Poi però Harel (che ha raccontato questa storia in La casa di via Garibaldi, pubblicato da Castelvecchi) si convinse della bontà dell’informazione di Hermann, spedì in loco un commando che, ottenuto il via libera da Ben Gurion, catturò Eichmann la sera dell’11 maggio, per strada. Secondo uno degli uomini che lo bloccarono, Peter Malkin (lo scrive in Nelle mie mani, pubblicato da Sperling&Kupfer), Eichmann quella sera si lasciò sfuggire «il grido primitivo di un animale intrappolato», provò a dire di essere Ricardo Klement, ma, poco dopo, ammise la sua vera identità. Durante il volo che lo avrebbe portato a Tel Aviv, un agente del Mossad offrì ad Eichmann una sigaretta, ma un capo meccanico presente sull’aereo, orfano di genitori uccisi dai nazisti, si mise a piangere e protestò contro quel gesto: «Lei a lui dà le sigarette, lui a noi ha dato il gas». Israele comunicò al mondo che la cattura di Eichmann era opera di alcuni «volontari» e si scusò (tramite il ministro degli Esteri, Golda Meir) per la violazione della sovranità del Paese latinoamericano. Il presidente argentino Arturo Frondizi si arrabbiò per quel rapimento. E diede incarico al suo rappresentante alle Nazioni Unite, Mario Amadeo (ammiratore dichiarato di Francisco Franco e di Benito Mussolini), di chiedere l’immediata restituzione di Eichmann. Gli Stati Uniti sulle prime appoggiarono la richiesta di Frondizi, ma, in vista della campagna elettorale, il vicepresidente Richard Nixon, in procinto di candidarsi contro John Kennedy, nel timore di perdere l’appoggio della comunità ebraica, ordinò all’ambasciatore Henry Cabot Lodge di definire le scuse della Meir un «atto sufficiente di riparazione». I giornali americani, invece, si scatenarono contro Israele. Il «New York Times», il «Washington Post», il «New York Post» scrissero che lo Stato ebraico aveva adottato «la legge della giungla», dando prova di un «grande disprezzo delle norme internazionali», che il processo sarebbe stato «inquinato dall’illegalità» e inficiato dallo «spirito di vendetta». I quotidiani tedeschi furono invece molto più prudenti, anche perché il cancelliere Konrad Adenauer - che pure era circondato da ex nazisti (o, forse, proprio per questo) - aveva da tempo avviato una politica molto generosa nei confronti di Israele, atta a scoraggiare i sentimenti antitedeschi dei superstiti della Shoah. Per non dar adito ad equivoci, la Germania rifiutò di pagare le spese processuali per la difesa di Eichmann (le pagò Israele).
Durissime furono, invece, le reazioni degli ebrei antisionisti come il rabbino Elmer Berger. Il celebre psicologo Erich Fromm qualificò il tutto come un «atto di illegalità del genere esatto di cui gli stessi nazisti si erano resi colpevoli». Anche esponenti di primo piano dell’American Jewish Committee polemizzarono apertamente con Ben Gurion, accusandolo di volersi erigere a rappresentante dell’intero popolo ebraico. Essi chiesero esplicitamente di consegnare Eichmann alla Germania e di evitare di tenere il processo in Israele. Suggerivano inoltre agli israeliani di «smorzare i toni sulle sofferenze degli ebrei durante la soluzione finale» così da non «dare la stura a nuove manifestazioni antisemite». Parole che oggi difficilmente potrebbero essere pronunciate da un ebreo (e anche da un non ebreo). Ben Gurion rispose con durezza che l’ebraismo americano stava «perdendo ogni significato» e che soltanto un cieco poteva non vedere quanto fosse prossima la sua «estinzione». Queste loro prese di posizioni - proseguiva Ben Gurion - dimostravano che gli ebrei statunitensi si disponevano a ricevere «il bacio della morte», che avrebbe suggellato il loro «lento declino nell’abisso dell’assimilazione».In Israele il caso Eichmann andò a incrociare un processo che aveva diviso il Paese negli anni precedenti, quello a Israel Kasztner. Kasztner era un ebreo ungherese, che nel 1944 aveva negoziato proprio con Eichmann una cessione di autocarri in cambio della vita di un consistente numero di ebrei. L’operazione «sangue in cambio di merci» (così fu definita) aveva consentito la messa in salvo di 1.700 persone e altre ancora avevano evitato di finire ad Auschwitz a seguito di quella trattativa. Dopo la guerra, Kasztner era espatriato in Israele dove aveva militato nel Mapai, divenendo portavoce del governo. Ma un altro ebreo immigrato in Palestina dall’Ungheria, Malchiel Gruenwald, si era messo a far circolare ciclostilati nei quali Kasztner veniva accusato di aver favorito i propri familiari e altri ebrei ricchi, nonché di essere stato per tutti gli altri (cinquecentomila) finiti nei Lager una sorta di «assassinio vicario» dei nazisti. Il governo aveva fatto causa a Gruenwald, ma il suo avvocato, Shmuel Tamir, era riuscito a capovolgere i termini del procedimento giudiziario, trasformandolo in un processo agli ebrei che avevano in qualche modo «collaborato» con i nazisti. Il dibattimento, rievoca Lipstadt, fece venire allo scoperto «una percezione da tempo diffusa in Israele secondo cui i sopravvissuti all’Olocausto avevano fatto qualcosa di disdicevole per salvarsi la vita». Il giudice, Benjamin Halevi, condivise pressoché apertamente le tesi di Tamir, assolse Gruenwald e disse, nei modi più chiari, che Kasztner, negoziando con Eichmann, aveva «venduto l’anima al diavolo». Poco tempo dopo Kasztner era stato ucciso davanti alla porta di casa, a Tel Aviv. E non aveva potuto sapere della successiva sentenza della Corte suprema che avrebbe capovolto le decisioni di Halevi, condannando il suo accusatoreAdesso, proprio quando, come ha scritto Sergio Minerbi nel libro La belva in gabbia (Lindau), in Israele «si era diffuso il desiderio di sbarazzarsi dell’amarezza» per il caso Kasztner, con un colpo di scena, proprio al giudice Halevi, diventato nel frattempo presidente del tribunale distrettuale di Gerusalemme, sarebbe spettato di presiedere il processo ad Adolf Eichmann. Halevi pretendeva di far valere questo diritto, in molti si erano schierati dalla sua parte e avevano sostenuto che non era lecito «adattare» le leggi di uno Stato alle circostanze. Altrettanti, però, fecero rilevare come non ci si dovesse «nascondere dietro i formalismi» e che la politica dovesse operare delle scelte. Tra questi ultimi, Ben Gurion. La Knesset fece propri questi dubbi e varò un’apposita legge, con la quale disponeva che il nuovo dibattimento dovesse essere guidato da un magistrato appartenente all’Alta Corte di giustizia (fu scelto Moshe Landau). Per i due giudici che avrebbero affiancato Landau, si restò alle disposizioni di sempre, che assegnavano il diritto di scelta ad Halevi. Il quale fece due nomi: il proprio e quello di Yitzhak Raveh. Tutti e tre erano ebrei tedeschi, laureati in Europa prima di emigrare in Palestina.Il processo iniziò l’11 aprile del 1961. Elie Wiesel, lì in veste di reporter per il «Jewish Daily Forward», si disse colpito dal fatto che Eichmann non appariva «diverso dagli altri esseri umani». Cyrus Leo Sulzberger, sul «New York Times», notò che «sembrava più ebreo, secondo le definizioni convenzionali, delle due abbronzate guardie israeliane» schierate a sua protezione. Protezione davvero eccezionale. Eichmann era recluso nella prigione di Yagur: una guardia fu incaricata di sorvegliarlo, un’altra di sorvegliare la prima e una terza di occuparsi della seconda. Nessuno dei tre aveva perso parenti nell’Olocausto, né parlava tedesco. Come suo difensore fu scelto Robert Servatius, che, pur non essendo mai stato nazista, aveva già svolto il ruolo di avvocato della difesa dei collaboratori di Hitler al processo di Norimberga. Il ruolo di pubblico ministero toccò a Gideon Hausner, privo di competenza in quel campo specifico (era specializzato in diritto commerciale), ma in stretti rapporti con Ben Gurion. Nel corso della fase istruttoria, la Corte israeliana chiese un’imponente documentazione a molti Paesi: l’Unione Sovietica e la Gran Bretagna non la concessero. Servatius nella prima fase del dibattimento fu assai abile nel sollevare una serie di obiezioni procedurali, alle quali però Hausner seppe rispondere con efficacia. Una legge israeliana del 1950 e una delibera delle Nazioni Unite rendevano legale il processo.
I testimoni a favore di Eichmann, che non potevano entrare in Israele senza rischiare l’incriminazione (o peggio), avrebbero potuto deporre all’estero. I corrispondenti dei giornali americani, in principio assai critici nei confronti del processo, lodarono la pertinenza e la quantità di precedenti fatti valere da Hausner. Eichmann si difese con grande abilità raccontando che nei primi anni del regime hitleriano, quando era in Austria, aveva avuto intensi rapporti con i leader sionisti per un piano che avrebbe consentito agli ebrei di espatriare, qualora si fossero rassegnati a lasciare in «patria» i loro averi. A tal fine avrebbe anche «soggiornato» a lungo in Palestina (ma si scoprì che, dopo un giorno ad Haifa, era stato espulso dagli inglesi alla volta dell’Egitto). Hausner smontò quel racconto grazie alla testimonianza di Aharon Lindenstrauss che, per conto degli ebrei, aveva «trattato» con Eichmann, venendone apostrofato «vecchio sacco di merda». Hannah Arendt, però, liquidò l’impianto di ricostruzione di Hausner come «cattiva storiografia e retorica a buon mercato». Deborah Lipstadt - che pure prende le distanze dalla Arendt - definisce «indubbio» che Hausner abbia presentato «gran parte della storia in modo errato», e imputa all’esposizione del pubblico accusatore «superficialità storica e autocelebrazione».Un momento assai complicato fu quello dell’interrogatorio all’eroe Moshe Bejski, che raccontò di come in Polonia 15 mila ebrei furono costretti ad assistere all’impiccagione di un bambino. Hausner gli domandò a bruciapelo: «Perché, essendo in 15 mila contro poche centinaia di guardie, non vi ribellaste passando all’attacco’». Bejski chiese di potersi sedere e rispose evocando il terrore di chi spera di aver salva la vita, ma soprattutto, ove mai scegliesse di ribellarsi, non saprebbe poi dove cercar riparo. Con quella domanda, il processo rischiava di sfuggire di mano ad Hausner e di trasformarsi in un procedimento d’accusa contro le vittime. Ma la Lipstadt sostiene che il pubblico ministero volesse «dimostrare l’ingiustizia intrinseca di questa domanda». Hausner, scrive, «era perfettamente consapevole del fatto che gli israeliani nati in Israele e che nel 1948 avevano sconfitto cinque eserciti, non capivano perché gli ebrei di numero tanto superiore rispetto ai loro aguzzini non avevano fatto lo stesso» con i nazisti. E aveva portato la questione allo scoperto proprio per far sì che comprendessero quanto eccezionali fossero stati gli episodi di rivolta, come quello del ghetto di Varsavia nella primavera del 1943. Per dimostrare questo assunto, Hausner chiamò sul banco dei testimoni Abba Kovner, capo della Resistenza di Vilnius. Ma qui vennero a confliggere la parte politica e quella strettamente giudiziale del dibattimento. Dopo che Kovner ebbe parlato, il giudice Landau con grande irritazione richiamò Hausner, accusandolo di aver «divagato molto rispetto all’argomento di questo processo» portando quell’uomo sul banco dei testimoni. E quando Zvi Zimmerman, alleato politico di Ben Gurion, andò alla sbarra per riferire quel che di Eichmann gli avevano detto persone della Gestapo, Landau diede in escandescenze: «Il valore di questa prova è, direi, quasi nulla’ Questi, di fatto, sono pettegolezzi», disse ad alta voce. Il presidente del tribunale era a tal punto spazientito che sembrò pendere dalla parte di Servatius, sia nel caso dell’interrogatorio a Leon Wells (che parlò nello specifico degli ebrei costretti a cancellare le tracce delle uccisioni in massa), sia nel caso di quello a Michael Musmanno, i quali non riuscirono a dire con precisione in che modo quel che raccontavano fosse legato alla persona di Eichmann.
Ci riuscì, invece, il decano protestante di Berlino, Heinrich Grueber, il quale raccontò di un tedesco che aveva dato una mano a degli ebrei. Però al momento di farne il nome non volle, per non mettere a repentaglio, disse, la sua incolumità. Il fatto che, nella Germania degli anni Sessanta, fosse ancora rischioso dire di aver aiutato gli ebrei provocò sconcerto. Il testimone aggiunse che stava parlando per esperienza, dal momento che, quando la stampa tedesca aveva rivelato la sua intenzione di testimoniare contro Eichmann, aveva ricevuto uno «spesso dossier» di «minacce» e «lettere di insulti».In quegli stessi giorni il processo entrò nella fase decisiva, quella in cui si esaminava il ruolo svolto da Eichmann in Ungheria nel 1944, dove aveva organizzato il «trasferimento» ad Auschwitz di 437 mila ebrei. Eichmann aveva suggerito di cominciare con quelli della Carpazia, cosicché i loro correligionari di Budapest si «tranquillizzassero» al pensiero che ad essere colpiti fossero solo gli ortodossi. Poi aveva aperto una trattativa con il negoziatore Joel Brand per «vendergli» un milione di ebrei e nello stesso tempo aveva suggerito al comandante di Auschwitz, Rudolph Höss, di «trattarne» con il gas il maggior numero possibile. Infine si era tornati sul caso Kasztner - su cui la Lipstadt ha parole di grande comprensione - e quando si era presentato a testimoniare Pinchas Freudiger, membro del consiglio ebraico ungherese, dopo che un uomo dall’aula lo aveva accusato di essere responsabile della morte della propria famiglia, il processo era precipitato nel caos. Aggravato dal fatto che il giudice Halevi (quello che aveva condannato Kasztner) chiese a uno di quei testimoni se avessero mai pensato di uccidere Eichmann. Senza ottenerne risposta. Con il che Halevi aveva raggiunto lo scopo di dimostrare che in qualche modo i dirigenti dei Consigli ebraici - tranne rare eccezioni - avevano delle «colpe» per quel che era accaduto al loro popolo.
Il 20 giugno, dieci settimane dopo l’inizio del processo, Eichmann salì sul banco degli imputati. Fu assai vago e, ad un tempo, loquace. Il giudice fu costretto più volte a interromperlo: «Non le è stata chiesta una lezione generale. Le è stata posta una domanda specifica». Ma lui decise di insistere con la sua vuota verbosità. E ottenne un risultato. Il «New York Times» scrisse che non appariva «astioso o insolente», dal momento che «si crogiolava in frasi burocratiche» e che, dunque, non «valeva la pena di odiarlo». Hausner, secondo Lipstadt, commise molti errori nell’interrogarlo. Va ad Halevi merito di averlo indotto a pronunciare la frase che lo avrebbe condannato. Fu quando Eichmann, per dimostrare di non essere stato antisemita, raccontò di aver favorito la fuga di una coppia di ebrei viennesi e, per spiegare in che modo, si lasciò sfuggire: «In ogni legge esiste qualche scappatoia». Da quel momento non poté più cavarsela dicendo che era stato soltanto ligio alle leggi del suo tempo. Per lui non c’era più scampo.
A dicembre Eichmann viene condannato a morte. Alcune autorità morali del Paese, Martin Buber, Yeshayahu Leibowitz, Gershom Sholem, chiedono che ci si fermi lì. Ben Gurion che pure aveva dato battaglia per non includere la pena di morte nel codice penale di Israele, discute della questione con Buber, ma non si fa convincere. Decisiva è la presa di posizione del poeta Uri Zvi Grinberg: «Buber può rinunciare al castigo per la morte dei suoi genitori, se sono stati assassinati da Eichmann, ma né lui né altri Buber possono chiedere un’amnistia per l’assassinio dei miei genitori». Il 31 maggio 1962 Eichmann salirà sul patibolo.
Merito di questo libro è di aver ripercorso le tappe del processo senza fermarsi ai celebri reportage di Hanna Arendt, usciti sul «New Yorker» e poi raccolti nel libro La banalità del male (Feltrinelli). Ma un capitolo è dedicato alla stessa Arendt. Un capitolo non simpatizzante: «La Arendt tra l’altro mancò dall’aula per buona parte del processo», fa notare Lipstadt, «il suo fu un abuso di fiducia nei confronti dei lettori». Si mette in risalto come la Arendt scrivesse della «commedia di parlare ebraico», descrivesse i poliziotti israeliani come «simili agli arabi», «brutali», gente che «obbedirebbe a qualsiasi ordine», imputasse ai sionisti («senza offrire alcun dato per giustificare tale accusa») di «parlare un linguaggio non del tutto diverso da quello di Eichmann», avesse parole sprezzanti per i Consigli ebraici, il cui capitolo definì «fosco, patetico e sordido». Anche se, alla fine, la Arendt fu favorevole alla pena di morte. E diede il suo contributo a far sì che, se a Norimberga al centro dell’attenzione erano stati i carnefici, adesso giungesse «l’ora delle vittime». Gli ebrei. È questa, scrive Lipstadt, l’eredità più significativa del dibattimento che si concluse nel 1962 con le ceneri di Eichmann sparse nel mare.
«Corriere della Sera» del 13 maggio 2014