11 giugno 2014

La «palude» è letteraria e politica, ma la cultura ha bisogno di conflitto

Le repliche all'articolo uscito su «La lettura»
di Gabriele Pedullà
Le contrapposizioni estetiche di un tempo hanno lasciato il posto a una sorta di amicizia/inimicizia, una condizione di non belligeranza, in cui tutti puntano ad assicurarsi una dignitosa carriera di scriventi (pubblicazione-recensione-premio)
L’articolo di Franco Cordelli su «la Lettura #131» di domenica scorsa, intitolato «La palude degli scrittori», ha generato diverse polemiche. Dopo la risposta di Gilda Policastro, di Paolo Sortino, quella di Raffaella Silvestri e quella di Andrea Di Consoli, ecco la replica del critico Gabriele Pedullà, autore (tra l’altro) dell’«Atlante della letteratura italiana» (Einaudi, con Sergio Luzzatto)


Le metafore sono importanti. Lo ha ricordato Andrea Cortellessa, rimproverando a Franco Cordelli di aver associato l’immagine della palude al concetto di mappa: le paludi, proprio perché instabili, non possono essere cartografate. Cortellessa ha rivendicato invece il lavoro di quanti – a cominciare dalla sua antologia La terra della prosa – hanno cercato di mettere un po’ di ordine nelle patrie lettere con i soli strumenti adeguati per un simile compito improbo: leggendo, ragionando, assumendosi la responsabilità di scegliere. Proprio grazie a questo lavoro un primo atlante ora c’è. Come tutti i lettori dell’articolo di Cordelli anche io sono stato colpito da questa immagine, che a molti degli inclusi e degli esclusi è apparsa un insulto gratuito al proprio lavoro.

A me l’immagine della palude non dispiace
La palude non allude solo alla instabilità dei confini (in questo caso del canone degli esordienti dal 1999 in poi), ma suggerisce inevitabilmente un luogo sgradevole e ben poco ospitale. Sono anzi sicuro che se Cordelli avesse formulato la medesima idea adoperando una similitudine più gentile, per esempio se avesse parlato di «brodo primordiale» della letteratura del XXI secolo (la soluzione di acqua e molecole carboniose da cui sono nate le prime molecole organiche), nessuno si sarebbe offeso. Salvo, ovviamente, gli assenti. A me invece l’immagine della palude non dispiace affatto. E non per le ragioni di Paolo Sortino, che ha rivendicato la formula di Cordelli per descrivere il corpo a corpo dello scrittore nella melma della lingua e si è paragonato a «una carpa gravida di batteri». Credo, semplicemente, che la metafora di Cordelli non sia geografica (come pensa Cortellessa), né biologica (come ritiene Sortino), ma più verosimilmente politica.

Palude come massa informe, interessata a sopravvivere
La Palude, non necessariamente con la lettera maiuscola, è il soprannome che al tempo della Rivoluzione francese avevano ricevuto i membri della Convenzione nazionale non schierati né a sinistra, con la Montagna, né a destra, con i Girondini: i quattrocento parlamentari pronti a fornire indifferentemente il proprio sostegno agli uni e agli altri, appoggiando prima il Terrore giacobino e poi la controrivoluzione del Termidoro. Una massa informe, interessata soprattutto alla propria sopravvivenza politica e composta di cinici gregari, insuperabili nel fiutare il vento con il necessario anticipo per riposizionarsi. Anni fa, sfogliando per una vecchia rivista patinata degli anni Ottanta, mi capitò di imbattermi per caso in un durissimo attacco di Cordelli ai propri coetanei (Daniele Del Giudice, Andrea De Carlo, Antonio Tabucchi, Elisabetta Rasy…), accusati di essersi fatti complici di un grande Termidoro letterario. Evidentemente, a trent’anni di distanza, Cordelli non ha mutato atteggiamento verso il presente, né campo metaforico. Palude è l’Italia (letteraria e non solo) emersa dal tramonto degli ideali degli anni Settanta.

«Partito dei flemmatici» era l’altro soprannome della Palude
E proprio perché l’intervento di Cordelli vuole essere eminentemente politico, è inutile rimproverargli – come da tanti è stato fatto in questi giorni – di non aver scritto un articolo di critica letteraria. Che cosa è dunque che Cordelli non ama nella letteratura, anzi nei letterati, d’oggi? Oltre alle similitudini di Falco e alla prosa di Vasta, esattamente la condizione liquida della cultura italiana, dove le contrapposizioni estetiche di un tempo hanno lasciato il posto a una sorta di amicizia/inimicizia, che non è nell’una né l’altra ma piuttosto una condizione di non belligeranza, in cui tutti puntano anzitutto ad assicurarsi una dignitosa carriera di scriventi (pubblicazione-recensione-premio) attenendosi al motto di «non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te». Per tradurre in termini sociologici la diagnosi di Cordelli, i gruppi in lotta per il controllo della società letteraria che hanno caratterizzato il Novecento avrebbero lasciato il campo a una incerta federazione di comunità, interessate a sostenere i propri campioni negoziando di volta in volta con le altre onori e riconoscimenti piuttosto che attraverso un conflitto aperto. «Partito dei flemmatici» era l’altro soprannome della Palude, e Cordelli avrebbe potuto usare anche questa formula. Per un uomo della sua generazione (venticinque anni nel 1968, non dimentichiamolo), il piccolo cabotaggio di oggi è il peccato capitale.

Costringere gli scrittori a prendere posizione
E la classificazione affidata alle pagine de «la Lettura» è anche un modo per costringere i diretti interessati a prendere partito (una volta tanto) e a pronunciarsi. Anche se, sino a questo momento, si direbbe che il principale effetto ottenuto dall’articolo di Cordelli sia stato invece quello di compattare i giovani scrittori contro di lui, in un nuovo, paradossale, slancio unanimistico. Come volevasi dimostrare. Non tutto convince nelle famiglie di Cordelli, ma su un punto è impossibile dargli torto: la Palude, la vocazione alla Palude, è la grande tendenza del nostro tempo. Da membro onorario della tribù dei «novisti», i più politicamente battaglieri, non posso evidentemente che essere d’accordo con lui (chi sono i «novisti»? Ecco la descrizione feroce di Cordelli: «una casta di incerta memoria politica, erede di una tradizione di stile e rigore e i cui esponenti, per quanto sempre in prima linea, faticano a ritrovare l’antico vigore»). Invece, la cultura italiana avrebbe disperatamente bisogno di più conflitto – e non sulla base di banali risentimenti personali, ma perché capace di dividersi di nuovo su grandi opzioni letterarie, stilistiche, politiche.

Il conflitto può far male
Ma il conflitto è anche l’unico strumento che abbiamo per dare un senso alla nostra attività intellettuale oltre il giustificabile ma assai limitato obiettivo di sbarcare il lunario. Se tutto va altrettanto bene, allora la letteratura nel suo complesso non ha più alcun valore. E se non siamo disposti ad accapigliarci (meglio, certo, se educatamente) per una rima o per una metafora, allora tanto meglio cercarci un altro lavoro. Personalmente, ritengo che la letteratura italiana più recente sia in uno stato di salute assai migliore di quello che suggerisce Cordelli, ma lui stesso, occorre riconoscere, nelle sue recensioni ha spesso dato prova di grande curiosità e apertura. Quello che soffre, e non da ora, è il sistema letterario nel suo complesso, dove tra l’inimicizia personale e l’acquiescenza interessata è scomparso lo spazio per il dissenso e la discussione critica. La smodata, irragionevole passione dei trenta-quarantenni per Pasolini e le sue intemperanze appare da questo punto di vista una sorta di compensazione simbolica per l’eccessiva prudenza degli stessi. Un anno e mezzo fa, con la richiesta di 50 mila euro da parte del senatore PD e giallista Gianrico Carofiglio al poeta Vincenzo Ostuni (che lo aveva definitivo «scribacchino»), un altro confine è stato superato: da questo momento, con un precedente tanto illustre, ogni italico scrivente potrà prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di citare in giudizio il critico o collega che non gli ha riservato gli elogi che riteneva di meritare.

Non tutto è ancora compromesso
In quell’occasione, per fortuna, attorno a Ostuni si venne a condensare una ampia rete di solidarietà (Cordelli compreso): e non in nome di una sin troppo scontata e generica libertà di espressione, ma di una idea di cultura sottratta agli avvocati e in cui il conflitto possa farsi ancora lievito delle idee come è stato nel Novecento. Non tutto, dunque, è ancora compromesso. È dello stesso problema, credo, che parla Cordelli nel suo articolo. Perché oggi, al tempo della Grande Palude, il conflitto è visto male (e si paga) anche quando non viene sanzionato in un tribunale della Repubblica. Sarà sufficiente un unico esempio. Il «novista» Cortellessa, autore dell’antologia da cui è sorta la polemica, è il maggiore giovane critico italiano (in un paese nel quale si è giovani critici sino a cinquant’anni e giovani poeti fino a quando non si entra nei «Meridiani», per chi ci entra), non solo perché Cortellessa è un interprete formidabile e un lettore onnivoro; il «novista» Cortellessa è il maggiore giovane critico italiano perché ormai, volenti o nolenti, è alle sue scelte che tutti gli altri devono rifarsi: che sia per prendere posizione a favore o contro.

Troppo conflittuale, troppo libero
Basta infatti sfogliare distrattamente Terra della prosa o gli interventi sulla poesia raccolti ne La fisica del senso per rendersi conto come nessuno, nella nostra generazione, abbia prodotto una ricognizione altrettanto approfondita e appassionata sulla letteratura contemporanea: una ricognizione che non può essere ignorata anche da quanti manifestano il proprio disaccordo. Sono in molti, ormai, a riconoscergli questo merito. Eppure che, io sappia, nessun quotidiano di questo paese ospita regolarmente le recensioni di Cortellessa: il quale dopo una deludente collaborazione con «La Stampa» è dovuto emigrare sul web, dove adesso scrive anzitutto su «doppiozero». Troppo conflittuale, troppo libero, in definitiva troppo innamorato della letteratura, questo Cortellessa. Perché Palude e Consenso sono rispettivamente il nome e il cognome della malattia che, emarginando alcune delle voci più libere e offrendo a tutti una bella lezione di conformismo, rischia di uccidere il nostro sistema delle lettere. Torniamo in Montagna? L’invito, con «antico vigore», non è rivolto solo ai «novisti».
31 maggio 2014
«Corriere della sera» del 31 maggio 2014

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