11 giugno 2014

La palude degli scrittori

Dissidenti, novisti, vitalisti: ecco i settanta nomi
di Franco Cordelli
Che cosa ci lascia la produzione editoriale degli ultimi vent’anni? Sguardo su autori o «tribù» che si sono formate, forse in modo inconsapevole
Le «sagome sudate»... Quando sono arrivato a queste due parole ho avuto un moto di rabbia, di sicuro eccessivo. Ma si sa che per un sintagma si può perdere la testa — in un doppio senso. Le «sagome sudate», che per me non vuol dire niente, compare in un romanzo di Giorgio Falco: La gemella H. Compare nella prima pagina. Poi invitando me stesso alla calma ho messo da parte La gemella H e ho preso il libro precedente di Falco, L’ubicazione del bene, che avevo conservato ma non letto. Di questo sono arrivato fino in fondo.

«L’aria accucciata»
Ne cito due frasi: «Le pale del ventilatore girano lente, sembrano acchiapparsi a vicenda, al prossimo giro, spiate dall’aria accucciata». Sappiamo bene che si possono usare metafore in mille modi, che si possono avere visioni, che si può stravolgere fino a essere considerati veggenti. Ma se si può accettare che le pale sembrino acchiapparsi, chi ha mai visto l’aria accucciata? L’altra frase, ancora da L’ubicazione del bene, dice: «L’aria (sempre l’aria! ma è molte pagine avanti, in un altro racconto) arriva dal basso, noi siamo a disagio nel restare fermi, disabituati a quell’ariosità gratuita, così andiamo verso uno dei cannocchiali che, come molte altre cose, per avere senso ha bisogno dell’energia di una moneta». Come non pensare che per scrivere «l’energia di una moneta» di fantasia bisogna averne molta? Qualunque cosa sia, una simile espressione, metafora o che altro, non è un bello scrivere. Al più (ovvero al meno) è un modo di scrivere che ha il merito di mostrare l’intenzionalità, la volontà d’essere originali, il mettersi in posa.

Sfiguramento proprio del conflitto bellico
Alla lettura di Falco ero arrivato sull’onda di una stampa a lui molto favorevole, nell’ambito di una circoscrizione che per comodità diremo d’«avanguardia». Ed ecco poi (dopo l’avvenuta lettura) proprio su La gemella H un articolo di Giorgio Vasta, il cui primo libro non avevo finito di leggere per motivi analoghi a quelli di Falco. Anche dell’articolo di Vasta do due esempi di prosa che a qualcuno è parsa letteratura pura e a me pura farneticazione. Prima frase: «Si ha la sensazione che Falco sia dominato da una duplice ossessione: da un lato dal bisogno di ricomporre per via letteraria una genesi del contemporaneo, vale a dire quella cosa che chiamiamo presente; dall’altro dal desiderio di rendere conto nella lingua (e dove, se no? né posso trattenermi dall’osservare che contemporaneo e presente sono la medesima cosa) — rendere conto nella lingua di ogni microfenomeno umanamente percepibile — gli infrasuoni, l’ultravioletto, le più minuscole increspature dell’esistente». La seconda frase di Vasta dice: «Il transito dalla guerra alla pace permette un’ulteriore consapevolezza: la messa in torsione dell’etica (questo, della frase che qui ripeto, è il picco), il suo sfiguramento proprio del conflitto bellico, non è qualcosa che termina con la fine della guerra ma prosegue in forme più attenuate e diluite, socialmente compatibili». A me sembra incredibile che questi due scrittori possano essere esaltati. Eppure così è.

Riconoscimento di una tribù
Li ritroviamo in una tanto ricca quanto tendenziosa antologia di Andrea Cortellessa, La terra della prosa, dedicata agli scrittori che hanno esordito dopo il 1999. Ed è a questo punto che m’è sembrato di uscire da un lungo sonno, quello in cui, e io con essa, è caduta la letteratura italiana contemporanea: non più un campo di forze, una scacchiera su cui sia possibile — come era fino alla soglia degli anni Novanta — scorgere e valutare linee di tendenza, gesti peculiari, prese di posizione esplicitamente e implicitamente teoriche e soprattutto opere di qualità, impugnate con argomenti critici riconoscibili e validi, se non per tutti almeno per i più. Invero la letteratura italiana degli ultimi vent’anni (a cominciare dal declino della critica, impoverita ancor più di romanzo e poesia) non è che una palude, in cui il bello e il brutto sono detti e sostenuti secondo un percorso prestabilito: pubblicazione (ma pubblicano tutti), recensione, premio. Non c’è altro. Oppure c’è, a guardare bene, meno distrattamente, il riconoscimento di una tribù: una adesione prodiga di stilemi iperbolici. Sì, la faccenda è uguale per tutti, o quasi tutti; la plausibilità del valore è minima o nulla; la palude nasconde gruppi che non si riconoscono come tali, che neppure sanno di esserlo, e in cui ognuno per conto proprio persegue lo stesso fine — vale a dire (prima ancora del successo) la sopravvivenza editoriale, o presso l’editore per il quale si pubblica, o dello stesso editore, insidiato a sua volta da sempre nuovi editori — almeno quanto costoro sono insidiati da sempre nuovi scrittori.

Non è questione di «buoni» o «cattivi»
Questo grafico, il grafico che qui presento, è un tentativo di guardare dentro la palude — più o meno dove non si vede niente, o poco, o in modo confuso. Ovviamente ciò che vedo e trascrivo è frutto della mia percezione, del mio sguardo. Ma non è la mia opinione intorno al buono o al cattivo. Parlo solo di ciò che tra un anno potrebbe essere diversissimo ma che in questo preciso momento balza agli occhi, ossia di ciò che viene valutato criticamente ad un certo livello, di qualità, o appunto di intrinseca necessità perfino personale. Parlo non già d’una totalità, ma d’una parte — appunto la meglio visibile. Voglio chiarire: parlo di ciò che viene percepito (che credo venga percepito in questo momento come culturalmente significativo — almeno un poco); e di come chi viene percepito percepisce se stesso e gli altri, i lontani e i meno lontani, vale a dire gli appartenenti alla stessa tribù. Ne consegue che i cento scrittori non nominati non lo sono per la medesima ragione, perché poco o troppo percepiti. Essi appaiono culturalmente irrilevanti (almeno nell’immediato: la maggior parte dei poeti, che ha rinunciato a dire qualcosa in più, rispetto ai propri versi) o già acquisiti in una sfera di vera o presunta eccellenza o quanto meno dignità (culturale e, naturalmente, artistica). In quanto ai settanta nominati. Il numero è una mera casualità o, se si vuole, una mezza necessità.

Le categorie, o caselle, o tribù, o famiglie
Sono qui ridotte allo schema parlamentare perché esso resta, benché a vanvera, eloquente. Eloquente, come? Non posso che semplificare, ridurre, stravolgere. A sinistra (novisti) troviamo un che di simile a una casta di incerta memoria politica, erede di una tradizione di stile e rigore e i cui esponenti, per quanto sempre in prima linea, faticano a ritrovare l’antico vigore; esterna a questa, una sparuta e ideologicamente incoerente raccolta di nomi di irriducibili guardiani dell’hic et nunc (dissidenti); a destra, quanti mostrano un’orgogliosa indifferenza per il tempo che passa e sono spesso riconosciuti in quanto sempre reattivi a ciò che viene di sinistra presunto (conservatori); l’estrema destra, di matrice dannunziano-pasoliniana, si caratterizza per un’aggressività verbale e una vistosa muscolarità (vitalisti); a fare da ago della bilancia, il centro-moderato, una forza ad alta vocazione istituzionale pronta ad assumere sulle proprie spalle il ruolo che la società culturale gli riconosce (moderati); ai margini il gruppo misto — simile al suo analogo parlamentare — composto da minoranze, transfughi e orfani; assisi nel distacco della loro indiscussa celebrità, i senatori a vita guardano con relativa attenzione a quanto gli accade intorno. Da questi settanta nomi ne estraggo due per diminuire i possibili equivoci. Walter Siti compare tra i novisti né in ragione della forma dei suoi romanzi né in ragione dei loro contenuti, ma perché pur essendo egli un uomo fondamentalmente di destra («resistere non serve a niente») fu oggetto di ammirazione presso lettori che si considerano di sinistra, o meglio cultori del nuovo, avanguardisti, sperimentali ecc. Giorgio Ficara — il cui Riviera è considerato un contributo innovativo, nella riconosciuta crisi e insopportazione del romanzo, a questo genere da lui stesso ritenuto obsoleto (ma per me Riviera, comunque eccellente, è un libro di viaggio) — Ficara compare tra i conservatori per ragioni che ritengo del tutto casuali, per avere egli quegli amici, quei sostenitori, le altre dieci persone nominate nel suo schema: che sono quelle a lui più vicine, o dal punto di vista del gusto o nella vita di tutti i giorni.
«Corriere della sera» del 26 maggio 2014

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