30 giugno 2014

Ma i prof non devono anche insegnare a vivere?

di Marisa Moles
Gli studenti, tranne quelli che stanno affrontando l’esame di Stato, sono ormai in vacanza. L’ultima campanella per quest’anno scolastico è suonata da un bel po’ e noi prof abbiamo da poco terminato di espletare tutte quelle formalità burocratiche di fine anno: relazioni, programmi svolti, scrutini. Qualcuno è ancora impegnato nelle commissioni d’esame. Ancora una volta siamo i “giudici” dei nostri studenti. Ma noi un esame di coscienza ce lo facciamo mai?
Stritolati dalla burocrazia, nel compilare i programmi ben scritti e ordinati, rigorosamente salvati in un file del nostro pc, ci chiediamo cosa abbiamo fatto di buono quest’anno? E non mi riferisco agli argomenti trattati, alle poesie lette, ai capitoli spiegati, alle regole illustrate per bene alla lavagna. Per “buono” intendo qualcosa di umano, al di là dei numeri.
Docenti e studenti sono accomunati dalla stesso destino. Per il Ministero dell’Istruzione siamo solo numeri: 18 ore per docente, tot classi per scuola, 27-30 allievi per classe, e non importa se le aule sono troppo piccole per contenerli tutti. Non importa se le ore a volte sono troppo poche per svolgere i programmi, fare le verifiche, interrogare … troppo poche per accorgerci che quelli che abbiamo di fronte non sono solo numeri, sono piccoli uomini e piccole donne che attraversano un momento delicato, quello dell’adolescenza, che ha bisogno di molta attenzione.
Troppo spesso, presi come siamo dai mille oneri che la scuola ci impone, non ci accorgiamo dei loro disagi, delle loro lacrime, dei loro sospiri, del loro continuo chiedere di andare ai servizi, del movimento perpetuo che compiono nei loro banchi troppo stretti, troppo scomodi, troppo scolastici. Già, che cosa ci può essere di più scolastico di un’aula? Nulla. Forse dovremmo rendere quelle aule più umane e meno scolastiche, avere il coraggio di dire al diavolo i programmi, le verifiche, le interrogazioni, occupiamoci un po’ di loro.
Dovremmo chiedere ai nostri ragazzi quali siano gli interessi, le passioni, gli amori e le amicizie, quale sia il loro mondo al di fuori delle aule scolastiche. Perché sono innanzitutto persone e poi allievi da interrogare, valutare, sgridare e colpevolizzare. Incapaci di andare oltre a quei voti scritti ordinatamente sul registro, a quelle note affibbiate quando si presentano senza compiti svolti, a quei “meno” che segnalano la distrazione o l’impreparazione, non ci fermiamo a riflettere, chiedendoci quale sia il vero motivo di un curricolo scolastico deludente, fatto di bocciature ripetute, di fallimenti sommati ad altri fallimenti.
Se ogni tanto, non dico sempre, fossimo capaci di trascurare i dettagli di quelle indicazioni nazionali propinate dal ministero, per essere uomini e donne alle prese con l’età difficile dei nostri allievi, forse ne risentirebbe lo svolgimento dei programmi ma ne guadagnerebbe il benessere dei nostri studenti. E forse eviteremmo di leggere sulle cronache dei giornali le tragedie che hanno come protagonisti degli adolescenti. Gesti estremi, a volte.
Quando ci troviamo di fronte ai suicidi di giovanissimi, cerchiamo di non mettere sotto accusa solo la famiglia. Quel male di vivere che spezza la giovinezza spesso noi lo ignoriamo. Noi insegnanti, intendo. Quante volte ci accorgiamo del loro disagio? Ci fermiamo a coglierne i segnali? Talvolta basta poco, è sufficiente saper leggere e interpretare, mandando al diavolo, per qualche ora, l’analisi testuale e i problemi di geometria.
Ci sono giovani che odiano la scuola. Io odio me, per tutte le volte in cui non ho chiesto ai miei ragazzi “oggi come state?”, per non aver fatto una lezione sulla bellezza della vita, sulla felicità che si può cogliere nelle piccole cose, fosse solo un filo d’erba in mezzo a una montagna di paglia.
Siamo in una gabbia, quella dei doveri, e non ci accorgiamo che stiamo trascinando anche loro dentro quella gabbia che non è dorata, è simile ad una prigione da cui escono, a volte, grida di dolore che non siamo in grado di cogliere perché preferiamo essere sordi.
Non dobbiamo forse anche insegnare a vivere? Ciascuno secondo la propria esperienza , senza farci violenza e senza pensare che quello che potremmo dire non servirebbe a nulla. A volte sarebbe il caso di fermarsi e pensare che le lezioni più belle forse non le abbiamo ancora impartite.
«Corriere della Sera» del 29 giugno 2014

Insegnanti, questa scuola non è un'anagrafe

Il problema non sono coloro che non vogliono o non sanno lavorare: «indocenti» e «indecenti». Hanno età e storie diverse, ma l'anzianità come criterio base delle graduatorie non funziona
di Alessandro D’Avenia
Le parole abusate sono segnaletica della nostalgia, fosforescenze di ciò che perdiamo. Scuola: tutti ne parlano, mentre rantola.
Se dovessi distillare il succo di 14 anni di insegnamento, di incontri in ogni tipo di scuola e di migliaia di lettere di studenti, docenti e genitori, dovuti ai libri che ho scritto, direi con Elias Canetti: «Ogni cosa che ho imparato dalla viva voce dei miei insegnanti ha conservato la fisionomia di colui che me l’ha spiegata e nel ricordo è rimasta legata alla sua immagine. È questa la prima vera scuola di conoscenza dell’uomo». Così ne La lingua salvata definiva l’essenza della scuola: la viva voce e l’immagine dell’insegnante. Solo una discontinuità antropologica (e quindi economica) potrà cambiare la scuola, non belletti organizzativi spacciati per riforme. Una rivoluzione copernicana che ponga nell’ordine giusto conoscenza e amore: ogni crescita in estensione e profondità della nostra conoscenza del mondo presuppone un’estensione della nostra sfera di inter-esse, cioè d’amore. Perché non chiudiamo le scuole e non carichiamo le lezioni su YouTube risparmiando tempo e fatica?
Perché siamo convinti che insegnare sia una relazione attuale: spazio e tempo condivisi nell’irripetibile dinamismo della vita e delle vite. Se un ragazzo esteriormente somiglia più al padre o alla madre, interiormente (sguardo sul mondo, fiducia nella vita) corrisponde alla qualità della relazione tra i genitori. Così l’insegnamento, parte dell’educazione, si dà nella triplice relazione professore-studente, professore-genitori, professore-colleghi. Classe e studente somigliano alla qualità di queste tre relazioni. Posso soffermarmi solo sulla prima.
La qualità della relazione docente-studente determina l’apertura conoscitiva, a meno di non illudersi che istruzione ed educazione siano separabili. Si conosce soltanto ciò a cui la nostra intelligenza riconosce un valore (il cuore intelligente di Finkielkraut) segnalato da tutto l’essere dell’in-segnante. Non ci può essere educazione (né insegnamento) in differita, perché la relazione coinvolge tutti i livelli della persona (corporeo, intellettivo, spirituale). Il moscone del cogito cartesiano continua a sbattere contro il vetro che non vede: cervelli riempiti di nozioni, addestramento pavloviano a ripetere, miglioramento solo con la sanzione dell’errore. L’insegnamento invece avviene solo in atto, perché solo la vita integrale educa. Si insegna con tutto: sguardo, tono di voce, movenze del corpo, disposizione dei banchi, brillare degli occhi, segni su un compito, cellulare spento… e parole. Una relazione funziona quando genera i beni specifici per cui la si instaura, se quella scolastica non genera attenzione, motivazione, curiosità, non è solo per carenza di stipendio, mura scorticate, vuota burocrazia, giovani e famiglie d’oggi, ma per carenza di relazione. Che cosa è necessario perché essa sia, e sia generativa?
La molecola d’acqua è relazione tra due atomi d’idrogeno e uno d’ossigeno, uno dà all’altro ciò di cui l’altro ha bisogno. Anche a scuola è così: la classe è acqua!
Nella relazione scolastica tre sono gli elementi indispensabili: amore per ciò che si insegna (conoscenza e passione: studium), amore per il chi a cui si insegna (empatia: non sentimentalismo, ma riconoscimento dello studente come soggetto di un «inedito stare al mondo» e non oggetto da cui ottenere prestazioni), amore per il come si insegna (creatività didattica che rinnova ogni lezione in base ad allievi e contesto: metodo). Senza questi tre elementi la relazione non si dà e genera contro-effetti: noia, avversione, disinteresse. Per questo credo in una personalissima trinità di professori.
Uno. I docenti in atto. Curando faticosamente i tre elementi, trasformano il loro dìcere (dire) in docère (mostrare): pongono le condizioni dell’imparare, non lo pretendono, e i ragazzi sono pro-vocati a lavorare sodo (a noia non si oppone divertimento, ma interesse) e a diventare teste fredde e cuori caldi (al contrario di come sono oggi). Generano il desiderio mimetico di raggiungere autonomamente la Luna che il dito mostra, svincolano il sapere dalla pur necessaria prestazione e lo orientano a diventare vita: la cultura come strumento per leggere la realtà con totale apertura, senza subire luoghi comuni e ideologie. Generano simbolicamente, fanno venire alla luce i ragazzi, per ciascuno dei quali hanno una pagina del registro con i punti di forza, non smettono di studiare, prestano libri, offrono un caffè ad uno studente in crisi, fanno una lezione fuori dal programma, dedicano tempo fuori dalla lezione… Tengono il filo come Arianna (amano e sono presenti a distanza) mentre lo studente si addentra nel labirinto e lo decodifica grazie alla cultura che si confronta con le svolte della vita e le sue forme a volte spaventose come il Minotauro. Aiutano i ragazzi a trasformare il loro destino in destinazione: ad ora ad ora m’insegnavate come l’uom s’etterna (Dante a Brunetto Latini). La loro classe è convivio, hanno l’autorità di chi assapora la vita e la porge.
Due. Gli «in-docenti». Per vari motivi (stanchezza, difficoltà relazionali, equilibrio personale, stipendio…), pur avendo competenza nella materia, non riescono a trasmetterla. Mancano due terzi della relazione (empatia e metodo), somigliano a un postino che consegna lettere senza busta e/o destinatario. Non propongo disastrose simbiosi o voti politici, ma asimmetria relazionale (non è distacco: emblematico il recente film Detachment), in cui la materia è terreno comune di ricerca, non trincea: «La fiducia non si guadagna se ci si sforza di guadagnarla, ma se si partecipa alla vita degli allievi, in modo immediato e naturale e se si prende su di sé la responsabilità che da ciò deriva» (Buber). L’indocente non insegna, perché non impara dai ragazzi, la sua classe si appiattisce sulla prestazione (programma ed esame diventano l’orizzonte di autorità).
Tre. Gli «in-decenti». Non conoscono ciò che insegnano e trasformano la classe, presto connivente, in chiacchierificio e poltiglia educativa.
Ogni discorso sulla scuola è secondario senza i docenti in atto. Non basta l’anzianità come criterio esclusivo di merito nelle graduatorie, ma i tre elementi segnalati e trasversali (docenti, indocenti, indecenti hanno tutte le età). La scuola si liberi degli indecenti; aiuti gli indocenti a (ri)diventare se stessi; punti sui docenti, che ne sono le mura di carne e sangue: ce n’è almeno uno nella nostra vita e gli dovremmo, se non il doppio dello stipendio, almeno un grazie.
«Corriere della sera - Suppl. La letttura» del maggio 2014

Gli abusivi della cattedra

Scuola e tribunali amministrativi
di Giovanni Belardell
Sono ancora i professori ad avere la responsabilità pedagogica dell’insegnamento nelle nostre scuole? È in fondo questa la domanda che nasce dalla lettura di una recente sentenza del Tar del Lazio, che ha annullato la bocciatura di uno studente di un liceo classico romano il quale aveva riportato alcune pesanti insufficienze: 3 in matematica, 4 in fisica, 3 in storia dell’arte. Al di là delle motivazioni più tecnico-giuridiche della sentenza, spicca il rimprovero del Tar agli insegnanti per non avere adeguatamente valutato la preparazione complessiva dello studente, all’interno della quale - secondo i giudici amministrativi - un 3 in matematica e un 4 in fisica sarebbero meno gravi trattandosi di un liceo classico. Anche a prescindere dall’opinione che si può avere su un’argomentazione del genere (personalmente, la reputo una sciocchezza), a lasciare di stucco è il fatto che in questo modo il Tar salga, letteralmente, in cattedra. Finisce infatti per sostituirsi agli insegnanti in quell’attività chiave della loro funzione pedagogica che consiste nella valutazione di uno studente: una valutazione che può fare a ragion veduta (o almeno così credevamo) solo chi lo abbia avuto in classe per un anno scolastico.
Una sentenza del genere va inserita in quella tendenza generale - comune a tutti gli Stati democratici contemporanei, ma in Italia più accentuata che altrove - che vede la magistratura amministrativa (e non solo) intervenire in un numero sempre maggiore di ambiti della vita sociale, dagli scrutini scolastici alle cure mediche. È il fenomeno che il politologo Alessandro Pizzorno ha definito come «resa dell’autorità sociale alla legge» (Il potere dei giudici , Laterza): in sostanza, le figure che un tempo fissavano regole e le facevano rispettare (dall’insegnante al medico, dal capofamiglia al dirigente d’azienda) si rivelano non più in grado di svolgere questa funzione. Da parte sua, chi un tempo accettava le decisioni di un’autorità sociale oggi - se non è d’accordo - ricorre sempre più frequentemente alla magistratura.
Dunque, dietro la sentenza del Tar che ha annullato una bocciatura, come dietro altre pronunce consimili, c’è il fenomeno, da tempo sotto gli occhi di tutti, della perdita di autorità e di credito sociale degli insegnanti. Oggi, di fronte alla bocciatura di un figlio, a molti rischia di apparire normale andare direttamente dall’avvocato (per non parlare dei casi limite di chi, come la coppia di genitori di Cosenza di cui ha parlato giorni fa il Corriere , ha letteralmente aggredito la vicepreside).
Quella perdita di autorità e di credito non è certo un fenomeno solo italiano; ma da noi appare tanto più forte per il fatto stesso che - nonostante i continui, vacuamente retorici, riferimenti al merito - una parte del Paese pensa ormai che valutare il merito di qualcuno (non soltanto attraverso il voto, certo, ma a volte anche con un voto) voglia dire discriminarlo, escluderlo, porlo ai margini della società. È la nostra cultura che, in preda a una deriva pseudobuonista (pseudo, perché la possibilità della scuola di contrastare le differenze legate alla diversa provenienza socioculturale si lega anche alla sua capacità di valutare il merito di ciascuno), dietro ai voti e alle insufficienze non sa vedere altro che un atto illegittimo.
Contro cui chiedere dunque l’intervento di qualche tribunale amministrativo disposto a sostituirsi agli insegnanti.
«Il Corriere della Sera» del 30 giugno 2014

Facebook manipola gli algoritmi e prova che le emozioni social sono contagiose

Oltre 600mila profili messi sotto la lente da una monumentale indagine del Data science team di Menlo Park, insieme alla University of California e alla Cornell: riducendo artificialmente termini e post positivi o negativi gli amici reagiscono nello stesso modo. Adattandosi ai sentimenti prevalenti nella propria cerchia. Ma è polemica sul metodo usato
di Simone Cosimi
"I dati di Facebook rappresentano il più ampio studio sul campo nella storia del mondo". Forse con un pizzico di esagerazione, ma in fondo cogliendo nel segno, Adam Kramer - membro del Data science team del social network - aveva spiegato anni fa la scelta di entrare nel gruppo californiano. Lo studio appena pubblicato su Proceedings of the national academy of sciences e condotto insieme ad altri scienziati della University of California e della Cornell gli dà ragione. È infatti attraverso quella sterminata arena sociale planetaria che ha potuto dare sostanza a ciò che in molti sospettavano: ciò che gli altri postano su Facebook, e che noi visualizziamo in bacheca, ci influenza emotivamente. Tanto da spingerci, nel periodo successivo, a pubblicare a nostra volta contenuti sulla stessa lunghezza d'onda. O meglio, ad allinearci al clima che si respira sulla nostra newsfeed.
L'obiettivo era esattamente quello: capire se l'esposizione a manifestazioni verbali affettive possa condurre "a espressioni verbali simili". In altre parole, se ciò che leggiamo sulla piattaforma di Menlo Park - frutto di un certosino lavoro di algoritmi e non del caso, bisogna ricordarlo - possa contagiarci emotivamente.
Due i test condotti nel gennaio 2012. Nel primo i ricercatori guidati da Kramer hanno ridotto l'esposizione degli utenti inclusi nel gruppo sperimentale ai contenuti positivi degli amici. Nel secondo hanno proceduto allo stesso tipo di schermatura ma con post e frasi contenenti elementi di negatività. Decidendo quali dei tre milioni di aggiornamenti di stato lasciar passare attraverso un software di analisi testuale, il Linguistic inquiry and word count, e analizzando poi le pubblicazioni per una settimana.
In effetti dai 689mila account inclusi nel monumentale esperimento è uscito quanto già intuiamo - altrimenti perché faremmo fuori hater di professione, rompiscatole o frustrati incalliti? - ma in precedenza poche indagini avevano provato in modo così significativo. Veicolare certi tipi di contenuti, escludendo termini e parole positivi o negativi, ha condotto a una conseguente riduzione dello stesso tenore nei post delle varie cerchie prese in esame. In particolare quando sono state artificialmente ridotte le positività.
La ricerca è stata realizzata in base alle autorizzazioni fornite dagli utenti nella Data use policy al momento dell'iscrizione e senza dunque sottoporre a ricercatori in carne e ossa alcun contenuto effettivo. Almeno così assicura il team che ci ha lavorato. Il dato interessante sta tuttavia, oltre che nel merito - già sondato per esempio da un'indagine da Ke Xu, professore di computer science all'università di Pechino, sui social cinesi - anche e soprattutto nel metodo. Inquietante quanto, appunto, in fondo già ampiamente noto.
Dimostra infatti gli effetti che si possono ottenere manipolando gli algoritmi che scelgono cosa mostrarci quando accediamo a Facebook. Non solo, dunque, atteggiamenti, scelte e profilazione per indirizzare acquisti e preferenze: lo studio uscito su Pnas prova come anche le emozioni siano non solo contagiose - non serve la scienza, basta uscire la sera con un amico giù di corda o un altro particolarmente brillante per capirlo - ma di fatto manipolabili. Almeno in quell'universo parallelo ma sempre più intrecciato delle piattaforme sociali. Siamo troppo suggestionabili, cantava Paolo Benvegnù qualche anno fa, per riuscire a sottrarci alla dittatura degli algoritmi. Che ci ritagliano il mondo a loro uso e consumo.
Non mancano le polemiche su questo esperimento fatto sul social network più popolare. In passato erano stati fatti altri studi comportamentali ma i ricercatori avevano lavorato sulla semplice analisi del flusso naturale. Questa volta è stato diverso: per la prima volta sono stati alterati i dati per registrare le reazioni. Facebook ribadisce che lo studio è assolutamente legale. Ma alla domanda su quanto sia etico una risposta ancora non c'è.
«La Repubblica» del 29 giugno 2014

28 giugno 2014

Dopo Facebook, la bufala impazza. Tra scherzi, nomi falsi e imbarazzo

Sul web è sempre più facile imbattersi in una falsa notizia, più o meno riconoscibile. E i protagonisti potremmo essere noi. Ecco come si creano finte news "social". E i rischi possibili
di Diana Orefice
Potrebbe succedere a chiunque di ritrovarsi coinvolti in curiose e spiacevoli storie di cronaca. Un giorno, navigando tranquillamente su Facebook, Mario Rossi di Roma potrebbe leggere questo titolo: "Shock ornitofilia a Roma: Mario Rossi stuprava volatili di grandi dimensioni". E c'è anche la foto: proprio quella che Mario aveva scelto come immagine del profilo, qualche anno prima. L'articolo è stato pubblicato nel giorno in cui viene letto e ha già 1000 mi piace e 100 condivisioni, anche da parte di persone che non rientrano nella cerchia di conoscenti di Mario.
Basta però leggere non più di dieci righe per avere il sospetto che si tratti di una bufala. "Il giovane [...] sarebbe stato trovato ad abusare di poveri animali, quali volatili di grandi dimensioni come pappagalli, aironi e gufi, tutti maniacalmente tenuti dentro una stanza a luci rosse, munita di schermi a led proiettanti film hard". Se si arriva a fine pagina, non si hanno più dubbi: "Fai subito questo scherzo", incita il sito Pinibook. Si tratta di un generatore di bufale. La tecnica è semplice: basta inserire nome, cognome e luogo di nascita della vittima, caricare una foto e scrivere la città nella quale si vuole ambientare la falsa notizia. Un click su "accetto termini e condizioni" e l'articolo è pronto da diffondere sui social. E a quel punto, per chi è vittima dello scherzo, possono venire fuori delle complicazioni.
Il pericolo. Il problema, per Mario Rossi, è che non è da tutti leggere più di dieci righe. Non è da tutti nemmeno aprire il link. Rapiti dalla gravità dello scandalo, alcuni utenti del web leggono il titolo e condividono. Fidandosi del fatto che chi per primo ha condiviso l'articolo, magari un "amico", ne abbia letto il contenuto. Proprio così si creano le catene di bufale, condivise per migliaia di volte prima che qualcuno riesca a smentirle. Non basta accorgersi che la notizia è falsa: il problema è farlo sapere a quelle migliaia di persone che l'hanno presa per vera. E ora ne stanno parlando non solo su Facebook, ma con gli amici al bar.
Rischio valanga. Il rischio della bufala infatti è che una volta lanciata non se ne ha più il controllo. Mario Rossi ha subito uno scherzo potenzialmente mondiale e senza scadenza. Come lui, anche tutti quelli che fino ad oggi sono stati vittime di Pinibook: in un giorno vengono create decine di bufale. Andando ad indagare in "termini e condizioni", si scopre che tutti i falsi articoli vengono archiviati nel database, ma possono essere rimossi con una "apposita richiesta" fatta ai gestori del sito, senza ulteriori informazioni su che cosa significhi. Non c'è nessun indirizzo email e nessuna sezione "contatti" in vista. In compenso si può diventare fan della pagina facebook del generatore di bufale. Ma anche se Mario riuscisse a contattare i gestori ed ottenere la cancellazione dell'articolo, non avrebbe la garanzia di aver cancellato l'esistenza di quella notizia, perchè altri siti web potrebbero averne ripreso il testo.
Di chi è la responsabilità? Pinibook specifica che l'utente che crea la falsa notizia è responsabile di quanto inserito e consapevole che si tratti di uno scherzo. Soprattutto, l'utente garantisce che il materiale non è lesivo, quindi è vietato trasmettere commenti e foto il cui contenuto è diffamatorio, ingiurioso, lesivo della privacy o comunque illecito. In realtà, è il testo della falsa notizia, generato automaticamente dal sito e identico per ogni vittima, che potrebbe risultare diffamatorio o ingiurioso. La diffamazione (art.595 del Codice penale) è una offesa qualunque, comunicata ad altri con qualsiasi mezzo, in assenza dell'offeso. L'ingiuria, invece, ne prevede la presenza.
Naturalmente, Pinibook non genera solo notizie di "ornitofilia". Si può scegliere anche "Mario Rossi scatenato: 'Adesso basta, voglio una donna al giorno'", oppure "Mario Rossi stuprato da un branco di nani: 'Mi sento sporco'", o anche il più nobile "Scazzottata nella notte, Mario Rossi seda una rissa e diventa un eroe". Nel panorama nazionale dei generatori di bufale, c'è anche Magnaromagna. Il sito propone una gamma che va dallo "stupido incidente" all'"arrestato organizzatore festini hard". Magnaromagna, a differenza di Pinibook, non conserva i testi e non li rende rintracciabili tramite motori di ricerca. Una garanzia per la vittima: in questo caso gli autori hanno il controllo della notizia e possono decidere se stamparla in pdf o inviarla per email. Senza la possibilità, quindi, di rovinare la reputazione di un amico cliccando su "condividi". Un gesto tanto semplice quanto incontrollabile.
Come uscirne. Se la catena è già partita e il danno è fatto, Mario Rossi può almeno avvalersi della segnalazione su Facebook. Cliccando sulla freccia in alto a destra sopra il link da condividere, se si trova all'interno di un gruppo chiuso, può scegliere di denunciare l'articolo all'amministrazione del gruppo Fb. Che poi può (eventualmente) deciderne la rimozione. In bacheca, invece, bisogna scegliere la voce "non desidero vedere questo contenuto": guidandoci in una serie di scelte, Facebook indaga sulle motivazioni che ci hanno portato a questo gesto. Scartando lo spam e il semplice mancato interesse, si arriva finalmente a segnalare il link in quanto lesivo della nostra dignità. E da qui in poi si può sperare in un legittimo oblio.
«La Repubblica» del 28 giugno 2014

25 giugno 2014

La tecnologia da sola non fa scuola

di Dianora Bardi
A novembre il ministero del l'Istruzione ha lanciato il bando per il finanziamento delle reti wifi e per progetti formativi per le competenze digitali. Le Regioni hanno stanziato risorse per la dotazione tecnologica. Le lavagne interattive multimediali sono ormai presenti in moltissime aule e ci sono stati diversi progetti per informatizzare le scuole 2.0. Nella sola Lombardia sono stati stanziati 20 milioni di euro per le scuole secondarie e più di 500mila euro per la formazione dei docenti.
Il 2014 si preannuncia davvero come l'anno della svolta per la scuola italiana nella sfida della digitalizzazione, che parte dalla presa di coscienza dell'importanza che le tecnologie stanno assumendo nella vita quotidiana dei nostri ragazzi e dello spazio che devono avere nella vita scolastica. Ma non tutto fila liscio! Anche perché l'esperienza dimostra in maniera sempre più chiara che le tecnologie non rappresentano il fine, ma solo un mezzo – dalle potenzialità straordinarie – per realizzare i traguardi formativi.
Per molto tempo al centro dell'attenzione sono state le tecnologie e gli interrogativi che si portano dietro: «Meglio i tablet o i netbook?», «Android, iOs o Windows?», seguiti da domande sempre più dettagliate «Quanto costano, come si usano, quali app...».
Intanto i docenti hanno visto le classi invase da Lim, proiettori interattivi, pc, registri elettronici o tablet, senza riuscire a comprendere quale ruolo avrebbero dovuto assumere, soprattutto di fronte a ragazzi tecnologicamente avanzati che li guardavano con grandi speranze e aspettative. Per gli studenti si apre una grande opportunità: finalmente nessuno proibisce più di andare in internet, di comunicare tramite chat, di prendere appunti in quaderni digitali o leggere libri elettronici. Dall'altra parte i docenti, che dovrebbero essere gli artefici di questa rivoluzione, sono in gran parte impreparati e troppo spesso, per incapacità di comprendere il mutamento, sono rimasti ancorati alla lezione frontale restando dietro la cattedra per paura di entrare in un'agorà in cui sanno di essere apparentemente perdenti. Nel migliore dei casi lasciano che gli studenti utilizzino le tecnologie per leggere i libri, iniziano a farli lavorare in gruppi strutturati, ma talvolta fanno anche chiudere quei "giocattolini che distraggono" per continuare a essere "il professore".
Eppure il mondo della scuola sta cambiando in maniera irreversibile, i ragazzi si stanno trasformando e in più il mondo del lavoro richiede competenze assolutamente diverse da quelle a cui siamo stati sempre abituati. Invece si continua a parlare di tecnologie ed ebook solo in maniera formale, senza tenere conto dei processi, oppure si scambia per innovazione didattica l'avere una classe con banchi trapezoidali posti a isola dove svolgere lavori di gruppo, Lim per ogni isola, arredi affascinanti in spazi rinnovati. Utili? Assolutamente sì, se però non ci si ferma agli aspetti esteriori, se tali cambiamenti corrispondono a esigenze che trasformano l'ambiente di apprendimento per rendere effettivamente protagonisti i nostri ragazzi.
È questo il focus da cui partire: la scuola deve educare, formare, far diventare i nostri ragazzi veri cittadini digitali in mondo competitivo e globalizzato e tutti gli strumenti devono concorrere a renderne più efficace l'apprendimento. Tutto deve contribuire a una didattica nuova, che permetta ai ragazzi di confrontarsi con problemi articolati, complessi, mettendo in campo i loro saperi, spingendoli a misurarsi con compiti di realtà in cui dimostrare le competenze acquisite. A questo fine il web conduce a un apprendimento connettivo, a un sapere che si accresce e si modifica, se il docente è in grado di costruire un adeguato ambiente "liberante", dove il docente interagisce con i ragazzi, ma anche con gli altri docenti sia della propria sia delle altre scuole.
Ci sono esperienze che fanno da modello. L'Istituto comprensivo Bruno di Osimo non ha ricevuto alcun finanziamento ma ha avviato una digitalizzazione del proprio istituto, in cui i tablet danno un grande valore aggiunto anche per i ragazzi stranieri e i disturbi dell'apprendimento (Dsa), i bambini/ragazzi lavorano a coppie, in gruppo (cooperative learning) o, se necessario, singolarmente, svolgendo attività di peer collaboration. Ai licei classici Aristofane di Roma e Liceo Leone XIII di Milano si fa ricerca didattica per avvicinare i ragazzi al mondo classico attraverso i mobile device e nuovi ambienti di apprendimento anche nel cloud, mentre al patronato San Vincenzo di Bergamo i ragazzi insegnano ai propri docenti come costruire ebook. Il progetto più ambizioso è Scuola Digitale Lombardia che punta a far interagire 326 scuole digitali lombarde nelle nuvole per creare un modello didattico e linee guida che partano da esperienze concrete
Sperimentazioni importanti stanno nascendo in tutta Italia, in scuole che si possono definire veramente innovative per la qualità dell'integrazione delle tecnologie nella didattica giornaliera nonostante aule inadeguate, spazi tradizionali, grandi banchi e vecchie sedie di legno o di plastica, reti insufficienti. Un gran numero di docenti ha raccolto la sfida di una didattica diversa, si aggiorna con grande fatica e prova a mettersi in gioco con umiltà e curiosità. Da loro bisogna partire, dalle loro esperienze di didattica provata e sperimentata per avere una scuola veramente digitale.
«Il Sole 24 Ore» del 12 gennaio 2014

Il rammendo delle periferie nella coscienza collettiva

di Renzo Piano
Quando i commissari d'esame hanno aperto le buste con i temi mi sono reso conto che il rammendo delle periferie è entrato nella coscienza collettiva. Che dire? Sono l'architetto e senatore più felice del mondo.
Quello che intendo come ruolo di senatore a vita è questo: risvegliare le coscienze, soprattutto quelle dei giovani che in questi giorni affrontano la maturità. A loro va il mio più sincero in bocca al lupo, visto che per scaramanzia gli auguri non si fanno.
Quello che è importante nella mia veste di senatore, che non può essere diversa da quella di architetto, è piantare dei semi nell'immaginario dei giovani e non solo. Il mio contributo è parlare e lavorare sulle periferie che sono la città del futuro così come sulle scuole che oggi accolgono gli italiani di domani. In questo terreno si piantano i semi ed è importante che sia coltivato, fertile e ben irrigato.
Sono certo che i semi germoglieranno perché i nostri giovani sono straordinari, eredi di una cultura che non ha pari. E lo dice uno che ha lavorato in tutti gli angoli del mondo. Penso che sia fondamentale che in Senato siedano persone che portino energia civica. Scienziati, ricercatori, musicisti, inventori, esploratori: il tesoro del nostro Paese è soprattutto nella cultura, che è alimentata dalla bellezza e dall'amore per la scienza. Sono convinto che la bellezza salverà il mondo, magari salvando una persona per volta, ma lo salverà. Non sono argomenti astratti: all'inizio del secolo scorso furono i senatori scienziati, che provenivano dal mondo del lavoro, a sconfiggere la piaga della malaria in Italia. Come fa l'Italia a guardare lontano senza la cultura, la nostra vera forza? Credo sia essenziale avere in Senato persone che rappresentino il nostro Paese sotto questo aspetto. Anche oggi c'è chi, come me, si occupa di trasformare le periferie in pezzi di città felice e chi di denunciare le truffe di Stamina. Penso che questa sia la strada giusta, chiamiamole competenze o se preferite cultura. Nel mio progetto di rammendo delle periferie sono infatti centrali le scuole, che sono la fabbrica della nostra cultura. Una cultura non nozionistica ma vera, fatta di ricerca, conoscenza, sapere e curiosità.
Questa ci appartiene e il suo luogo di riferimento nel mondo è l'Europa, e all'interno dell'Europa è il Paese dove viviamo. Noi italiani siamo come dei nani sulle spalle di un gigante, tutti. E il gigante è la cultura, una cultura antica che ci ha regalato la capacità di cogliere la complessità delle cose. Si tratta di un capitale enorme che va conservato e alimentato. Un compito che spetta alla scuola che deve essere un luogo d'aggregazione, una piazza dove ci si incontra e confronta, una sorta di casa di quartiere dove i ragazzi imparano e insieme imparano anche i genitori. Un edificio permeabile alla città, con un continuo scambio tra dentro e fuori. Abbiamo una tradizione educativa che parte da Maria Montessori per arrivare a Mario Lodi e Loris Malaguzzi, passando per la scuola di Barbiana. Spesso ce ne dimentichiamo mentre all'estero ci copiano: in Italia ci sono 137 scuole con il metodo Montessori, negli Usa oltre 5.000 e in Germania 1.600. Eppure l'abbiamo inventata qui. Il problema delle scuole è un problema di mancanza di cura, di incuria e menefreghismo. Il contrario del motto "I care" che don Lorenzo Milani aveva scritto su una parete di un'aula di Barbiana: me ne importa, mi sta a cuore. L'opposto esatto del "me ne frego" fascista. La scuola deve essere vissuta come la propria casa e non come un luogo percepito estraneo e lontano, certo non si può pretendere di accendere la scintilla del senso civico nei ragazzi se gli edifici sono abbandonati al degrado e, magari, anche i luoghi destinati al gioco e ai laboratori sono inagibili. Ci vuole un cambio di mentalità che parta dallo Stato, poi il resto viene di conseguenza se un luogo diventa vissuto e amato. In Giappone nelle scuole elementari e medie sono gli scolari a occuparsi delle pulizie dei locali. Ma c'è innanzitutto bisogno di una grande opera di rammendo e consolidamento delle scuole, con cantieri leggeri e poco invasivi che non obblighino a deportare i bambini in altre strutture.
Un rammendo che deve anche essere un'occasione per ripensare quali siano gli spazi più adatti all'educazione dei ragazzi. Parlo di tetti trasformati in osservatori astronomici e arricchiti di orti dove coltivare gli ortaggi per la mensa, di un piano terra che diventa una casa aperta ai genitori, ai nonni, ai pensionati che vogliono contribuire con la loro esperienza. Penso a palestre ma anche a spazi dove fare teatro, suonare e ascoltare la musica, a laboratori, biblioteche e sale vuote dove semplicemente si possa pensare. Perché anche il silenzio e la solitudine fanno parte dell'educazione.
«Il Sole 24 Ore» del 19 giugno 2014

Il rammendo delle periferie

di Renzo Piano
Siamo un Paese straordinario e bellissimo, ma allo stesso tempo molto fragile. È fragile il paesaggio e sono fragili le città, in particolare le periferie dove nessuno ha speso tempo e denaro per far manutenzione. Ma sono proprio le periferie la città del futuro, quella dove si concentra l'energia umana e quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. C'è bisogno di una gigantesca opera di rammendo e ci vogliono delle idee.
Siamo un Paese che è capace di costruire i motori delle Ferrari, robot complicatissimi, che è in grado di lavorare sulla sospensione del plasma a centocinquanta milioni di gradi centigradi. Possiamo farcela perché l'invenzione è nel nostro Dna. Come dice Roberto Benigni, all'epoca di Dante abbiamo inventato la cassa, il credito e il debito: prestavamo soldi a re e papi, Edoardo I d'Inghilterra deve ancora renderceli adesso. Se c'è una cosa che posso fare come senatore a vita non è tanto discutere di leggi e decreti, c'è già chi è molto più preparato di me. Non è questo il mio contributo migliore, perché non sono un politico di professione ma un architetto, che è un mestiere politico. Non è un caso che il termine politica derivi da polis, da città. Norberto Bobbio sosteneva che bisogna essere «indipendenti» dalla politica, ma non «indifferenti» alla politica.
Se c'è qualcosa che posso fare, è mettere a disposizione l'esperienza, che mi deriva da cinquant'anni di mestiere, per suggerire delle idee e per far guizzare qualche scintilla nella testa dei giovani. Una scintilla di una certa urgenza, con una disoccupazione giovanile che sfiora una percentuale elevatissima.
Quindi con il mio stipendio da parlamentare ho assunto sei giovani, che ruoteranno ogni anno e che si occuperanno di come rendere migliori le nostre periferie. Perché le periferie? Le periferie sono la città del futuro, non fotogeniche d'accordo, anzi spesso un deserto o un dormitorio, ma ricche di umanità e quindi il destino delle città sono le periferie. Nel centro storico abita solo il 10 per cento della popolazione urbana, il resto sta in questi quartieri che sfumano verso la campagna. Qui si trova l'energia.
I centri storici ce li hanno consegnati i nostri antenati, la nostra generazione ha fatto un po' di disastri, ma i giovani sono quelli che devono salvare le periferie. Spesso alla parola «periferia» si associa il termine degrado. Mi chiedo: questo vogliamo lasciare in eredità? Le periferie sono la grande scommessa urbana dei prossimi decenni. Diventeranno o no pezzi di città? Diventeranno o no urbane, nel senso anche di civili?
Qualche idea io l'ho e i giovani ne avranno sicuramente più di me. Bisogna però che non si rassegnino alla mediocrità. Il nostro è un Paese di talenti straordinari, i giovani sono bravi e, se non lo sono, lo diventano per una semplice ragione: siamo tutti nani sulle spalle di un gigante. Il gigante è la nostra cultura umanistica, la nostra capacità di inventare, di cogliere i chiaroscuri, di affrontare i problemi in maniera laterale.
La prima cosa da fare è non costruire nuove periferie. Bisogna che le periferie diventino città ma senza ampliarsi a macchia d'olio, bisogna cucirle e fertilizzarle con delle strutture pubbliche. Si deve mettere un limite alla crescita anche perché diventa economicamente insostenibile portare i trasporti pubblici e raccogliere la spazzatura sempre più lontano. Oggi la crescita anziché esplosiva deve essere implosiva, bisogna completare le ex aree industriali, militari o ferroviarie, c'è un sacco di spazio disponibile. Parlo d'intensificare la città, di costruire sul costruito. In questo senso è importante una green belt come la chiamano gli inglesi, una cintura verde che definisca con chiarezza il confine invalicabile tra la città e la campagna.
Un'altra idea guida nel mio progetto con i giovani architetti è quella di portare in periferia un mix di funzioni. La città giusta è quella in cui si dorme, si lavora, si studia, ci si diverte, si fa la spesa. Se si devono costruire nuovi ospedali, meglio farli in periferia, e così per le sale da concerto, i teatri, i musei o le università. Andiamo a fecondare con funzioni catalizzanti questo grande deserto affettivo. Costruire dei luoghi per la gente, dei punti d'incontro, dove si condividono i valori, dove si celebra un rito che si chiama urbanità.
Oggi i miei progetti principali sono la riqualificazione di ghetti o periferie urbane, dall'Università di New York a Harlem al polo ospedaliero di Sesto San Giovanni che prevede anche una stazione ferroviaria e del metrò e un grande parco. E se ci sono le funzioni, i ristoranti e i teatri ci devono essere anche i trasporti pubblici. Dobbiamo smetterla di scavare parcheggi. Penso che le città del futuro debbano liberarsi dai giganteschi silos e dai tunnel che portano auto, e sforzarsi di puntare sul trasporto pubblico. Non ho nulla contro l'auto ma ci sono già idee, come il car sharing, per declinare in modo diverso e condiviso il concetto dell'auto. Credo sia la via giusta per un uso più razionale e anche godibile dell'automobile.
Servono idee anche per l'adeguamento energetico e funzionale degli edifici esistenti. Si potrebbero ridurre in pochi anni i consumi energetici degli edifici del 70-80 per cento, consolidare le 60mila scuole a rischio sparse per l'Italia. Alle nostre periferie occorre un enorme lavoro di rammendo, di riparazione. Parlo di rammendo, perché lo è veramente da tutti i punti di vista, idrogeologico, sismico, estetico. Ci sono dei mestieri nuovi da inventare legati al consolidamento degli edifici, microimprese che hanno bisogno solo di piccoli capitali per innescare un ciclo virtuoso. C'è un serbatoio di occupazione. Consiglio ai giovani di puntarci: start up con investimenti esigui e che creano lavoro diffuso.
Prendiamo l'adeguamento energetico con minuscoli impianti solari e sonde geotermiche che restituiscono energia alla rete, l'Italia è un campo di prova meraviglioso: non abbiamo né i venti gelidi del Nord né i caldi dell'Africa, però abbiamo tutte le condizioni possibili dal punto di vista geotermico, eolico e solare. Si parla di green economy però io la chiamerei italian economy. Nelle periferie non c'è bisogno di demolire, che è un gesto d'impotenza, ma bastano interventi di microchirurgia per rendere le abitazioni più belle, vivibili ed efficienti.
In questo senso c'è un altro tema, un'altra idea da sviluppare, che è quella dei processi partecipativi. Di coinvolgere gli abitanti nell'autocostruzione, perché tante opere di consolidamento si possono fare per conto proprio o quasi che è la forma minima dell'impresa. Sto parlando di cantieri leggeri che non implicano l'allontanamento degli abitanti dalle proprie case ma piuttosto di farli partecipare attivamente ai lavori. Sto parlando della figura dell'architetto condotto, una sorta di medico che si preoccupa di curare non le persone malate ma gli edifici malandati. Nel 1979 a Otranto abbiamo fatto qualcosa di molto simile con il Laboratorio di quartiere, un progetto patrocinato dall'Unesco per "rammendare" il centro. Un consultorio formato da architetti condotti potrebbe essere un'idea per una start up. Nelle periferie non bisogna distruggere, bisogna trasformare. Per questo occorre il bisturi e non la ruspa o il piccone.
C'è ancora una cosa che voglio consigliare ai giovani: devono viaggiare. Mica per non tornare più, però viaggiare secondo me serve a tre cose. Prima e più scontata per imparare le lingue, seconda per capire che differenze e diversità sono una ricchezza e non un ostacolo. Terza per rendersi conto della fortuna che abbiamo avuto a nascere in Italia, perché se non si va all'estero si rischia di assuefarsi a questa grande bellezza e a viverla in maniera indifferente. Si tratta di una bellezza che non è per nulla inutile o cosmetica, ma che si traduce in cultura, in arte, in conoscenza e occupazione. È quella che dà speranza, che crea desideri, che dà e deve dare la forza ai giovani italiani.
«Il Sole 24 Ore» del 26 gennaio 2014

Il cellulare chiama, la filosofia risponde

La riflessione
di Félix Duque
Negli
L’uomo contemporaneo (a partire dagli anni ’90 del XX secolo) vive una 'vita connessa', in cui la nuova ontologia procedurale impregna e rimescola, facendoli interagire, i diversi àmbiti di produzione (impresa), riproduzione (scuola, famiglia) e divertimento (hobby) attraverso le differenti interfacce mediatiche, mediante le quali si incrociano la globalizzazione, la commercializzazione e l’individualizzazione. L’essere di questo dire, la cui essenza è la situazione insostanziale, configura una sorta di Gefüge o assemblaggio riflettente mobile che si sgrana in una sequenza indefinita di situazioni, dato che è la partecipazione sociale alla comunicazione a definire che cosa stia avendo luogo, che cosa sia pertinente fare o non fare in tale situazione, e come si svilupperanno gli eventi situazionali. Per i nostalgici: mutatis mutandis, tali regioni dell’ente erano un tempo denominate, rispettivamente: fisica, etica e politica. In tal modo, il cellulare genera, mi si passi l’espressione, una sottile 'corazza' protettiva che isola l’individuo dalla situazione fisica, locale, in cui si trova faccia a faccia con i suoi prossimi o in contiguità con essi, e lo immerge in una telepresenza uditiva e sempre più immaginifica che stabilisce un situarsi puramente virtuale, ma che risulta tuttavia intimior intimo meo. Pertanto, un sistema tecnologico finisce per essere ideologicamente rivestito da fattore di cambiamento e generatore di nuove forme di comunità sociale. Per dirla in linguaggio tradizionale, finisce col diventare l’essere tecnologico degli enti sociali.
Tuttavia, bisogna precisare meglio questo clamoroso trionfo del cellulare come strumento di connessione (quasi di communio) tra la gente. Infatti, in questo caso l’utente diviene un mero veicolo, ossia un portatore di valori, se non eterni (posto che la sua ricezione/trasmissione è istantanea) perlomeno immutabili nella circolazione degli Sms. Non vi è ermeneutica possibile durante la trasmissione o ricezione del messaggio via cellulare. La sua forza è anche il suo limite, posto che può riconvertire subitamente in massa la moltitudine di utenti. È ovvio che l’uso del cellulare consente, da un lato, la trasmissione di ordini (in àmbito lavorativo) o di consegne (in àmbito politico); dall’altro, soprattutto, stabilisce e consolida quel che potremmo definire il caro vecchio ciarpame della chiacchiera, ossia il gossip che rinsalda e fomenta le relazioni affettive tramite l’espressione dei sentimenti e delle attività quotidiane dell’uomo comune.
Nel caso specifico, è come se la telefonia mobile confermasse la molto 'fisica' concezione di Hegel, secondo la quale la ragione esiste solo incarnata, però spostandola dal soggetto alla macchina, il suo avatar più sicuro e affidabile. E se è vero che la memoria è la manifestazione dell’identità personale, allora l’'Agenda', il 'Calendario' e l’archivio di foto e video del cellulare costituiscono la custodia e garanzia di tale identità, minacciando addirittura di soppiantarla.
Il fatto è che, diversamente da quanto si potrebbe a prima vista supporre su di un piano politicamente corretto, l’uso del cellulare non avvicina il cittadino al mondo, che diventa sempre più ancho y ajeno, cioè troppo grande e straniante, a volte ostile. Al contrario, lo isola simbolicamente e temporalmente da esso per situarlo in uno spazio acustico cordiale, come un caldo rifugio. L’etimologia del termine gossip mostra chiaramente l’indispensabilità della sua funzione sociale: gossib era il padrino/madrina di battesimo di un bambino (god: 'Dio' e sib: 'parente'). I pettegolezzi sono un mero pretesto per «rimanere in contatto» (let keep in touch!),
per differenziarsi dalla massa e connettersi con un gruppo eletto di riferimento; si limitano ad alludere al mero (però trascendentale) desiderio di stare insieme, come un grooming a distanza trasmesso sia oralmente che attraverso Sms (o, con sempre maggiore frequenza, Mms, inviando immagini e musica come ricordo, auguri e cose del genere). Lo spazio resta quindi scandito dal binomio intimità/ estraneità tra gli interlocutori e le persone fisicamente vicine (da cui anche il sentimento di malessere di queste ultime quando una conversazione fisica, personale, viene interrotta da una chiamata sul cellulare). In questo senso il gossip può essere considerato paradossalmente come un «pettegolezzo culturale», ma non perturbatore, anzi, al contrario come promessa della possibilità di futuri significati condivisi. Da buon ghost (spettro ma anche spirito: Geist), il cellulare tenta, seduce, persuade e a volte intimorisce. E soprattutto è ubiquo, perché ricerca e modifica al tempo stesso i gruppi sociali in piccoli nuclei di affettività. La sua principale funzione non consiste nella comunicazione di idee, bensì nella diffusione e anzi, di più: nella tras-fusione di sentimenti.
In definitiva, il cellulare vive della mancanza di siti, di dati anagrafici, e provvede a essi, sia mediante la connessione del forestiero coi propri luoghi d’origine, sia - e questo è molto interessante - mediante la creazione di esplosioni situazionali. E di nuovo, è qui la filosofia (o meglio: la psicoanalisi filosofante), quella che, avant la lettre, mostra in modo chiaroveggente la nascita del nuovo soggetto mobile, un soggetto al limite, sospeso, trafitto dai molteplici venti della moltitudine. Nel suo prologo alla Psychoanalyse et transversalité di Félix Guattari, Gilles Deleuze dice di questi gruppi o soggetti emergenti, oggi ancora in statu nascendi, che essi: «si definiscono attraverso coefficienti di trasversalità, che contrastano totalità e gerarchie; sono agenti di enunciazione, sostegni di desideri, elementi di creazione istituzionale: attraverso la loro pratica, si confrontano incessantemente con il limite del proprio non-senso, della propria morte o rottura».
«Avvenire» del 20 giugno 2014

Monumenti: dittatori in fotocopia

Totalitarismi
di Edoardo Castagna
Il monumento non è un orpello, un arricchimento esteriore del totalitarismo. Ne costituisce una delle fibre più profonde, fa parte della sua essenza, tanto che non c’è regime che non abbia generato una propria arte e una propria architettura monumentali. Che si assomigliano come gocce d’acqua, come mostra la ricognizione Memorie di pietra. I monumenti delle dittature curata da Gian Piero Piretto e in uscita oggi per Cortina (pagine 270, euro 25,00).
La storiografia sta progressivamente affermando in maniera sempre più esplicita quanto gli elementi di vicinanza tra i totalitarismi novecenteschi siano maggiori delle differenze ideologiche. Rossi o neri, hanno condiviso gran parte delle forme storiche, delle manifestazioni esteriori, delle architravi ideologiche. Su tutte, il tratto fondamentale: l’ideologia come religione, il Partito come Chiesa, il Capo come Messia. Un tratto perciò simil-liturgico o, meglio, uno scimmiottamento della liturgia, con proprie regole e riti, non già volti alla salvezza dell’umano, ma alla sua dannazione in terra attraverso la radicalizzazione dell’anti-umano. Il monumento totalitario è la manifestazione di questo nichilismo, e al tempo stesso uno dei mezzi che lo affermano: perché con le sue caratteristiche è fatto apposta per schiacciare l’individuo, annullarlo nell’indistinta massa che il totalitarismo alimenta e plasma. Ne è controprova il fatto che, all’indomani della caduta di una dittatura, la prima cosa che fanno gli ex sudditi è proprio scendere in piazza a distruggere i monumenti. Il 25 luglio 1943 l’Italia ha coralmente abbattuto busti di Mussolini e fasci littori, alla caduta del Muro è toccato alle statue di Lenin e ai monumenti inneggianti all’Armata Rossa “liberatrice”.
Il monumento totalitario è colossale e anti-umano, come colossale e anti-umano è il regime che lo genera. L’uomo non c’è, se non in due accezioni ugualmente alienanti: o il Capo, enorme, spropositato, letteralmente incommensurabile, o l’Uomo Nuovo del regime, il milite ignoto, l’eroe del lavoro: simboli, non uomini.
Il Duce progettato da Renato Ricci avrebbe dovuto essere alto 86 metri, surclassando qualsiasi altri colosso. Non fu realizzato, ma intanto il mondo si è riempito di immani Stalin, Lenin, Kim Il-sung, Kim Jong-il, Mao. Perfino alle tropicali latitudini di Cuba campeggiano tuttora le gigantografie in metallo di Castro, di Che Guevara e degli altri “eroi della rivoluzione”. Trasfigurati in icone statiche, come lo Stachanov riprodotto innumerevoli volte in Unione Sovietica, omaggio e insieme memento del “compagno” perfetto.
Più spesso, nell’arte monumentale totalitaria, il riferimento alla figura umana scompare. Intersecandosi con le correnti artistiche coeve, dal futurismo al razionalismo, i regimi elevano costruzioni, sempre immense, dove le forme vengono esaltate nella loro purezza geometrica. Ricorre lo slancio verticale, dall’Obelisco Mussolini del Foro Italico a Roma al Monumento ai cosmonauti di Mosca. Ricorre la massa immane che sfugge alla misura dell’occhio umano, dal Parlamento di Bucarest alla cupola del Palazzo del Reich progettato da Albert Speer per Berlino. Ricorre la reinterpretazione del passato per appropriarsene, dal Mausoleo di Lenin incastonato nella barocca Piazza Rossa di Mosca alla fascistizzazione dei Fori Imperiali a Roma. Ricorre la riduzione dell’individualità a forma astratta, dal muro in mattoni con falce e martello che Mies van der Rohe ideò per il Monumento a Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg di Berlino nel 1926 ai gradoni del Sacrario di Redipuglia di Giovanni Greppi (1938).
Il monumento totalitario predilige la pietra, ad attestare la solidità e l’immortalità dell’ideologia e del regime. Ma forse la sua espressione più compiuta si ha nei fugaci “monumenti umani” costituiti dai raduni di massa, dove migliaia di figuranti perfettamente sincronizzati (e non importa se al passo dell’oca a Norimberga o nella coreografia inneggiante a Mao a Pechino) impersonano, letteralmente, il popolo nuovo forgiato dal regime. Di archi di trionfo, stendardi, luci, fiaccole, parate restano soltanto testimonianze fotografiche. E anche i monumenti in pietra, “eterni” come i tanti Reich millenari sognati dai loro autori, ma ugualmente effimeri, svaniscono non appena il regime s’incrina, abbattuti dalla furia popolare oppure ordinatamente rimossi dai nuovi governi. Come nella celebre sequenza del film Good Bye, Lenin! di Wolfgang Becker: la statua di Lenin, imbragata e appesa a un elicottero, volteggia sopra la Berlino del dopo Muro, con il suo indice puntato che non addita più il sol dell’avvenire, ma aleggia a vuoto sopra strade e palazzi.
«Avvenire» del 19 giugno 2014

Nativi digitali: più filosofia

Scuola e futuro
di Roberto Carnero
Quando parliamo degli adolescenti di oggi, parliamo dei cosiddetti "nativi digitali", sempre connessi, dipendenti dalla tecnologia (smart-phone, internet, social network). Che cosa guadagnano e che cosa perdono da queste nuove possibilità e da questi nuovi strumenti che noi alla loro età non avevamo a disposizione? E in che modo cambia, in tale situazione, l’insegnamento delle tradizionali discipline scolastiche? Poniamo questa domanda a un filosofo, Giovanni Fornero, uno che di scuola se ne intende: il suo manuale, l’Abbagnano-Fornero, che nasce da una profonda revisione e riscrittura della storia della filosofia di Nicola Abbagnano, è adottato nel 60% delle classi liceali italiane. Tra l’altro, con la casa editrice che lo pubblica, Paravia-Pearson, Fornero è stato antesignano e pioniere nella direzione dell’innovazione tecnologica fin dal 1994, quando furono proposti prima alcuni floppy-disk, quindi un cd-rom dal titolo Le rotte della filosofia, in coedizione con la Rai e l’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche.

Dunque, professor Fornero, lei come valuta l’impatto dei new media sui ragazzi?
«Che nella vita dei giovani l’uso della rete, la produzione audiovisiva e la comunicazione mediante i social network siano abitudini ormai diffuse è un dato di fatto. Tuttavia a mio parere va ridimensionato, almeno in parte, il mito dei "nativi digitali", in quanto all’uso, talora bulimico, di determinati dispositivi spesso non corrispondono sempre né effettive abilità informatiche né spiccate propensioni per la didattica elettronica».

Può spiegarsi meglio?
«Ad esempio, ragazzi che postano regolarmente su Facebook, anche tramite cellulare, sono imbarazzati quando, a scuola, si trovano a lavorare con i nuovi mezzi per svolgere dei compiti precisi. Difficilmente vanno, se non spinti dai docenti, a esplorare le espansioni digitali dei loro manuali cartacei».

Quindi si tratterebbe di una sorta di bluff?
«No, non direi così. Il guadagno provocato dalle nuove tecnologie è comunque indiscutibile. Grazie a internet, i giovani hanno potenzialmente "il mondo in casa". D’altra parte, anche le perdite sono manifeste».

Quali sono principalmente?
«Riguardano ad esempio l’incapacità di concentrazione lunga su di un testo. Tant’è vero che i nativi digitali faticano a svolgere un’analisi, perché convinti che il valore fondamentale sia la velocità di reperimento delle informazioni, non la loro rielaborazione critica, che richiede tempo. Contestualmente, faticano a fare una sintesi, perché vivono di sintesi prefabbricate. Di conseguenza, un guadagno effettivo si ha solo se dall’uso superficiale dei dispositivi informatici si passa, anche grazie al lavoro della scuola e degli insegnanti, a un loro uso criticamente avvertito».

Ci sono dei valori della cultura umanistica che rischiano di essere travolti dall’ondata digitale?
«Le incognite ci sono e alcuni valori potrebbero essere a rischio. A cominciare dall’idea, di matrice greca e umanistica, di una cultura che non è solo "informazione" ma innanzitutto "formazione" e attitudine critica. Tuttavia, l’esistenza di possibili rischi non deve distogliere da un uso, oculato, dei nuovi mezzi. Infatti, rifiutando le consuete oscillazioni fra mitizzazione e demonizzazione, ritengo che in questo campo il vero atteggiamento da assumere non consista nel contrapporre umanesimo e informatica, bensì nel mettere i nuovi mezzi a servizio dei valori umanistici».

In questo contesto qual è il significato dello studio della filosofia? Glielo chiedo perché oggi in molti si chiedono se la presenza di questa materia nel curriculum degli studi secondari sia davvero indispensabile.
«Per capire se la filosofia sia imprescindibile nella scuola, occorre chiedersi se essa sia imprescindibile nella vita. A questo riguardo non ho dubbi. Come soleva ripetere Abbagnano, in sintonia con Platone, la filosofia non è un lusso, ma una necessità. Infatti, in quanto "animale razionale", cioè in quanto essere dotato di ragione, l’uomo non può fare a meno di porsi una serie domande sul bene, sulla libertà, sulla giustizia, sulla felicità. Perciò sarebbe ingenuo ritenere di poter vivere senza filosofare. Anche la scienza, anziché sostituire la filosofia, suscita essa stessa pressanti interrogativi di ordine teorico ed etico. Del resto sono proprio gli uomini del nostro tempo, incerti sul senso da dare alla vita e alla morte, che si interrogano spontaneamente su talune questioni che formano l’oggetto tradizionale del dibattito filosofico. Circostanza, quest’ultima, che spiega perché la filosofia, come riteneva lo studioso francese Étienne Gilson, finisca sempre per "seppellire i propri affossatori". Infatti, la vera alternativa non è tra fare o non fare filosofia, ma tra il fare filosofia in modo inconsapevole e irriflesso e il fare filosofia in modo consapevole e riflesso».

Ma per quanto riguarda la scuola, qual è lo specifico di questa disciplina e quali le ragioni della sua insostituibilità?
«Quello che accade nella vita accade nella scuola. Anche gli studenti non possono fare a meno di porsi certi interrogativi e di avere una determinata visione dell’esistenza. Di conseguenza, se non impareranno a filosofare nella scuola, sarà la televisione, la pubblicità o internet a trasmettere loro una certa "filosofia". Se si vuole evitare questo esito, deve essere la scuola a insegnare a fare filosofia, cioè ad attivare nei giovani la competenza al ragionamento critico. Infatti, uno dei tratti distintivi della competenza filosofica, che Marino Gentile definiva "un tutto domandare che è un domandare tutto", consiste nel non accettare la realtà in modo passivo, ma nel sottoporre tutto al vaglio della domanda e della ricerca. Da ciò la sua manifesta utilità, soprattutto oggigiorno. Ma io direi che va fatto ancora di più».

Vale a dire?
«Anziché togliere o ridurre l’insegnamento della filosofia, sarebbe bene introdurre elementi di filosofia in tutti i tipi di scuola, facendo leva sul fatto che la facoltà interrogante esiste in tutti, inclusi i bambini. Se per un certo periodo si è pensato che l’insegnamento della filosofia dovesse riguardare soltanto i futuri membri della classe dirigente, in una società democratica come la nostra esso dovrebbe riguardare tutti».
«Avvenire» del 23 giugno 2014

17 giugno 2014

Il passaggio della maturità

In che stato è l’esame di stato
di Gian Arturo Ferrari
Quando divenne premier, ai primi di maggio del 1997, Tony Blair dichiarò che il suo governo aveva tre priorità: istruzione, istruzione, istruzione. Nei diciassette anni che sono passati da allora, quello che era nel 1997 un programma sorprendente e uno slogan ben trovato si è trasformato in una verità lapalissiana. Nessuno è oggi tanto sprovveduto da non accorgersi che la ricchezza delle nazioni, presente e futura, consiste e soprattutto consisterà nel livello culturale dei cittadini, nella loro utensileria mentale. Nel capitale umano, certo, ma in un capitale coltivato. Nessuno è oggi tanto snob da non riconoscere che dietro l’irritante retorica della «società della conoscenza» si cela un solido, persin troppo solido, nucleo di verità. Il fatto cioè, nudo e crudo, che le condizioni di vita e di sviluppo passeranno di lì, dal livello e dalla capillarità dell’istruzione.
Quel che i diciassette anni trascorsi hanno dimostrato - tra diffusione delle tecnologie digitali, apertura e globalizzazione dei mercati, voracità nell’apprendimento (si pensi agli studenti asiatici in America...) - è che su questi temi siamo usciti dal quadro otto-novecentesco ispirato al progressismo umanitario. Siamo alla struggle for life, alla lotta per la sopravvivenza. E la sopravvivenza (spesso, pudicamente, chiamata occupazione...), per strano che possa parere, passa primariamente dall’istruzione. Ora, il perno del nostro sistema scolastico è lo snodo tra l’apprendimento preuniversitario e quello universitario. È un rendiconto finale, la somma di tutte le somme. È una conclusione - di un ciclo più che decennale - ed è un inizio. È una selezione, tra chi vuole e può proseguire e chi no. È un coming of age , un passaggio e un rito di passaggio, dalla adolescenza alla giovinezza, l’ingresso nella vita adulta. Tutto questo è quel che, antiquatamente ma appropriatamente, chiamiamo maturità. E siccome si tratta di un perno delicatissimo, di una cervicale, di un’anca, di un ginocchio, insomma di un’articolazione essenziale dell’intero sistema, dalle sue condizioni si può dedurre agevolmente lo stato di salute del tutto.
In via preliminare occorre però decidere se l’esame di maturità, che parte domani con la prima prova, abbia ancora un senso. Se infatti singole facoltà di singole università pubbliche amministrano propri esami d’ammissione (ah che nostalgia la Camera dei Fasci e delle Corporazioni...), è chiaro che l’esame di maturità perde ogni significato. Meglio eliminarlo, con risparmio di fatica, tempo e denaro. Nessuno scandalo, gli altri grandi Paesi europei non ce l’hanno o non ce l’hanno così tardi, a diciannove anni. Se invece si eliminano gli esami di ammissione, l’intero sistema scolastico deve essere radicalmente rifatto. Non riformato, rifatto. Il motto di Blair, nuovo rasoio di Occam, non lascia scampo. Se questa è la cosa più importante, è la prima da fare.
Partendo dal principio, materialistico ma lodevole, «intanto che non ci piova dentro» il governo ha per il momento affrontato l’edilizia scolastica . C’è ben altro. C’è un corpo insegnante umiliato, un personale non insegnante assai folto, un’università burocratica, sindacati riottosi. Ma il peggior di tutti i mali sta al centro, nella normativa, pedante sulle inezie e cieca di fronte al senso effettivo delle cose.
Una normativa che negli anni si è particolarmente esercitata, con una sorta di voluttuosa insistenza, proprio sull’esame di maturità. Cambiandogli nome e connotati, azzoppandolo, lentamente sfregiandolo e sfigurandolo. In una sorta di riedizione burocratica del Principe felice (anche se la maturità a dire il vero tanto felice non era) di Oscar Wilde, dove alla statua del principe gli uccelli cavano prima ornamenti, decorazioni e gioielli e poi gli occhi. Ma anche questo troncone non trova pace. L’anno prossimo infatti, meraviglie d’Italia, giungerà a compimento (!) l’ultima tranche della riforma del 2010, cioè di tre governi fa.
Nel frattempo gli indefessi normatori si occupano di aspetti essenziali per il futuro del Paese. Per nostra consolazione, il 19 maggio il ministero ha emanato l’Ordinanza n.37 che all’Articolo 21, «ai sensi del Decreto Ministeriale 16 dicembre 2009, n.99, articolo 3, comma 2» si preoccupa di stabilire i criteri a cui le commissioni degli esami di maturità si devono attenere per conferire il voto supremo di cento e lode. Ciò chiarito, sembra di capire, il perno su cui ruota tutto il nostro sistema scolastico tornerà all’antico splendore. Con tanti saluti a Blair e al suo istruzione, istruzione, istruzione .
«Corriere della Sera» del 17 giugno 2014

Augé: aiuto, il mondo si è ristretto

di Marc Augé
In un mondo in trasformazione accelerata, un cambio di scala colpisce e riconfigura le nostre esistenze individuali e collettive. Questo nuovo ambiente, ancora proteiforme, che chiamiamo il mondo globale, è indagato da Marc Augé nel saggio «L’antropologo e il mondo globale» che esce oggi in libreria per le edizioni Cortina (pp. 126, euro 15). L’antropologo francese esamina in particolare la nozione di «tempo morto» in relazione a quella di «non-luogo», per interrogarsi sui rapporti tra senso sociale e libertà individuale oggi. Quello che urge, sostiene Augé, è uno sforzo di lucidità critica affinché l’umanità possa un giorno, se davvero vuole, dichiararsi non più globale ma totale, nel senso in cui la intendeva Marcel Mauss, vale a dire intelligente, lucida, ambiziosa e solidale. Anticipiamo un brano dal libro su come cambia la nostra percezione del paesaggio nell’orizzonte della globalizzazione.
Vi è una dimensione psicologica, affettiva, intellettuale e, direi anche, paesaggistica in ciò che noi oggi chiamiamo crisi. Essa è, infatti, legata a un cambiamento di scala di cui constatiamo gli effetti senza riuscire a controllarne le cause. Le downtown americane – quelle torri tutte illuminate che ci mostrano le sigle delle serie americane, riprese di notte da un elicottero – sembrano volerci suggerire che stiamo allestendo il mondo per nuovi e improbabili testimoni. L’accelerazione dei trasporti, la circolazione quasi istantanea delle immagini e dei messaggi ci fanno sentire, ogni giorno sempre più intensamente, quanto il pianeta sia ormai piccolo.
Qualunque viaggio aereo offre lo spettacolo di una tale messa a distanza. Ma anche le autostrade e le linee ferroviarie dei treni a grande velocità cambiano la nostra visione del mondo e creano altri paesaggi: infatti, tali percorsi sopraelevati non attraversano più gli agglomerati urbani e si liberano degli ostacoli che di solito impediscono di vedere in lontananza (muri, alberi, terrapieni…). In tal senso, essi rompono la magia dell’infanzia. Il paesaggio sovramoderno riproduce nella dimensione spaziale la crudeltà dell’esperienza temporale. La storia non finisce mai, ma la vita individuale è limitata. Nei paesaggi più caratteristici della sovramodernità vi è una dimensione utopica e onirica, una promessa di unità che non possiamo escludere che finisca per infrangersi sulle contraddizioni e sulle durezze della storia, ma che siamo certi in ogni caso, ognuno per conto proprio, che non vedremo mai realizzarsi.
Il paesaggio è fatto tanto di tempo quanto di spazio; e la proiezione del paesaggio sovramoderno verso un futuro inimmaginabile è tanto più sorprendente in quanto essa rompe con le segrete connivenze che sono state intessute, lungo la storia umana, tra lo spazio e la memoria.
Nei nostri più vecchi ricordi, il mondo era due volte più grande, e lo erano anche coloro che ci circondavano: il potere evocativo del cinema nelle sale dipende probabilmente dal fatto che esso ci restituisce una parte di tale dismisura, e quindi una parte d’infanzia. Oggi acceleriamo la sistemazione intellettuale ed estetica del pianeta. Iscriviamo nel patrimonio dell’umanità i monumenti o i paesaggi più sorprendenti; trasformiamo regioni intere in “parchi naturali”. Un po’ come se stessimo preparando la visita imminente di turisti extraterrestri che, troppo frettolosi per soffermarsi sui dettagli, facessero un giro rapido e globale del pianeta, come certi turisti americani o cinesi fanno oggi il giro dell’Europa. Le foto prese dai satelliti d’osservazione ci rivelano un nuovo paesaggio: quello della Terra vista da lontano, come scopriranno presto quei turisti facoltosi che si potranno permettere la breve avventura di un volo suborbitale, in assenza di gravità, a un centinaio di chilometri dal pianeta. La tecnologia sembra aver anticipato le evoluzioni delle società e della politica, affermando così la nostra identità di terrestri. Il colmo del paesaggio sovramoderno è proprio il pianeta stesso. Oggi possiamo immaginarci mentre sbarchiamo sulla Terra, proprio come Cristoforo Colombo che raggiungeva le coste del Nuovo Mondo. Assistiamo così alla nascita del pianeta come paesaggio. L’immagine dei nostri primi passi al di fuori della sfera di gravità terrestre ci allontana definitivamente dai paesaggi di cui l’umanità in transizione sente ancora la pregnanza, paesaggi che costituivano un pezzo di cultura, grazie alla pianificazione della natura, all’architettura e ai monumenti. In tal modo si delinea una frattura tra il paesaggio che è già planetario, la società che non lo è ancora, le culture che sono divise al loro interno tra aspetti diversi o contraddittori, e l’arte che non sa più di cosa deve rispondere poiché è in un certo modo superata dallo spazio. Tutto accade come se noi, tutti insieme, avessimo perso una seconda infanzia e dovessimo affrontare, in quanto umanità ormai diventata adulta, la nostra improvvisa solitudine.
Tuttavia la moltiplicazione degli spazi anonimi nei quali non sembra radicarsi alcuna relazione sociale crea paradossalmente nuove familiarità. Ci si sente meno sperduti, perfino all’altro capo del mondo, quando si entra in un supermercato. Le pubblicità, i negozi di articoli di lusso, i marchi contrassegnano i nuovi spazi della circolazione planetaria, come, per esempio, gli aeroporti. Le iscrizioni o gli annunci in inglese contribuiscono inoltre a uniformare simbolicamente il pianeta, proprio come i monumenti dell’architettura internazionale che s’innalzano nelle grandi metropoli mondiali e sembrano farsi eco da un continente all’altro. I paesaggi del mondo attuale – ossia di un mondo segnato dall’accelerazione del tempo, dal restringimento del pianeta e dall’individualizzazione dei percorsi – sono essenzialmente paesaggi urbani o in via di urbanizzazione. Ma la città cambia, salta oltre i muri e si estende ben oltre il suo cuore “storico”, allunga i propri tentacoli lungo i fiumi, le coste e le vie di comunicazione per legarsi sempre più strettamente alle città vicine. Percepiamo ogni giorno i segni di un rapido cambiamento di scala di cui gli schermi della televisione e dei computer sono insieme l’indice e l’acceleratore. Le generazioni più giovani e quelle di domani trovano i propri riferimenti in questo nuovo spazio-tempo. E così le nostre rispettive infanzie rischiano di perdersi di vista.
«Avvenire» dell'11 giugno 2014

La twitteratura ucciderà i classici?

Scuola e futuro/1
di Roberto Carnero
La scuola sta attraversando grandi cambiamenti, legati alla penetrazione delle nuove tecnologie e al diverso approccio al sapere da parte della generazione dei cosiddetti 'nativi digitali'. Di fronte a questo radicale mutamento troviamo, tra gli addetti ai lavori (insegnati, presidi, ma anche pedagogisti, psicologi, sociologi), diversi gradi di reazione: gli entusiasti, gli indifferenti, gli scettici, i contrari, gli oppositori. L’atteggiamento più corretto dovrebbe però rifuggire dagli estremi, valutando in maniera concreta e non ideologica i pro e i contro delle diverse innovazioni nella didattica quotidiana. Evitando di essere 'apocalittici' oppure 'integrati' per partito preso. Diamo oggi inizio a una serie di interviste ad alcuni esperti che affronteranno i diversi aspetti della questione, indagando le 'rivoluzioni' più significative attualmente in atto nel mondo della scuola.

Non si è divertito molto, Giulio Ferroni, quando all’ultimo Salone del Libro di Torino hanno provato a coinvolgerlo in 'Twitteratura', un’iniziativa che propone di riassumere in 140 caratteri i grandi classici. L’idea era quella di avvicinare i ragazzi al patrimonio letterario sollecitandoli attraverso l’uso di un social-network, Twitter appunto, da molti di loro abitualmente frequentato. Apparentemente un’idea innocente, un gioco per attrarre adolescenti renitenti alla lettura. Eppure Ferroni, uno dei più importanti storici della letteratura italiana, ci vede dell’altro. «Sia chiaro», mette le mani avanti, «lungi da me qualsiasi censura aprioristica nei confronti delle novità tecnologiche». Anche perché, a 70 anni compiuti e da poco uscito dall’Università (La Sapienza di Roma, dove ha insegnato per decenni), ha trascorso l’intera vita professionale provando ad avvicinare generazioni di studenti ai libri, «e figuriamoci se sono contrario a nuovi
strumenti per farlo», aggiunge.
E allora, professore, che cosa la preoccupa?
«Il fatto che anche noi adulti troppo spesso crediamo di fare il bene dei ragazzi andando loro incontro sul piano di ciò che riteniamo essi vogliano: in questo caso il gioco, il disimpegno, la superficialità. Ma siamo davvero sicuri che queste siano le richieste dei giovani? Personalmente non lo credo proprio. E poi c’è il rischio di privare i ragazzi del senso vero e più profondo della letteratura».
Qual è questo senso autentico?
«La possibilità di cimentarsi con la profondità, la riflessione, la complessità delle opere. Qui si rischia di banalizzare tutto. Qualcuno a Torino diceva: ecco, così finalmente i ragazzi leggono. Ma in realtà è esattamente il contrario. Questa iniziativa veniva presentata come un grande progetto educativo e progressista. Un ragazzo, applauditissimo, aveva riassunto I promessi sposi paragonando don Abbondio, che si rifiuta di celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia, a coloro che oggi sono contrari alle unioni gay. Va da sé le due cose non c’entrano nulla».
Il problema è la tecnologia?
«No, direi piuttosto l’uso che se ne fa. A scuola e all’università gli strumenti informatici possono essere utilissimi e fare cose fantastiche. Ad esempio per proporre prove di verifica, per svolgere una ricerca lessicale o per fare un’analisi del testo sono molto efficaci. Però prima i testi vanno letti e le informazioni devono essere assimilate. E l’atto di lettura richiede pazienza e lentezza, l’esatto contrario della simultaneità e della velocità su cui si basano i new media. Vedo il rischio di uno sfaldamento della memoria, intesa non in senso nozionistico, ma come patrimonio vitale».
Libro cartaceo o libro elettronico?
«Il libro digitale va benissimo come archivio, ad esempio quando viaggi e ti servono per consultazione molti volumi, oppure per una lettura disimpegnata. Ma lo studio vero e proprio credo si realizzi meglio sui libri tradizionali. Non è un caso che, sebbene da alcuni anni il legislatore abbia previsto la possibilità dei libri di testo elettronici, siano ancora un’esigua minoranza i docenti che li adottano. E non è soltanto una questione di mancanza dei supporti, cioè dell’hardware. Anche i ragazzi e le loro famiglie capiscono che il libro di carta ha una maggiore consistenza formativa ed educativa».
Ci sono dei valori della cultura umanistica che rischiano di essere travolti dall’ondata digitale?
«Se penso alla letteratura, vedo sempre più diffusa la tendenza a rifiutare di misurarsi con l’orizzonte problematico delle opere, con il piano esistenziale, storico, stilistico, riducendo la lettura a una sorta di passatempo o di gioco di società. Ma la letteratura possiede una potenzialità conoscitiva ben più seria e importante. C’è poi la dimensione storica della cultura, oggi spesso assente presso una generazione di adolescenti tutta appiattita sul presente. C’è bisogno di capire che il passato era diverso dal presente, che ogni momento culturale ha caratteri propri e peculiari».
Davvero è tutta colpa dei new media?
«Questa situazione esiste già da tempo, ma mi sembra venire amplificata proprio dalla diffusione degli mezzi digitali, soprattutto presso i giovani. Sono mezzi che, nonostante l’apparente interattività, spesso favoriscono una fruizione passiva. Invece la letteratura favorisce lo sviluppo del senso critico. Ma la disposizione critica e la mentalità scientifica non possono non appoggiarsi sulle pause mentali e sul silenzio. In Internet, però, di silenzio ce n’è molto poco».
Che cosa bisognerebbe fare?
«Educare all’uso consapevole e intelligente dei mezzi che la tecnologia ci ha messo a disposizione. Qui è centrale il ruolo degli insegnanti, che qualcuno oggi vede sempre più come semplici gestori di macchine e di strumenti. Fino a qualche anno fa i corsi di aggiornamento dei docenti delle scuole vertevano sulle loro discipline. Ora mi dicono invece che le iniziative di formazione rivolte ai professori sono quasi tutte centrate sulla didattica digitale e sulla Lim, la lavagna interattiva multimediale. Bisogna combattere questa riduzione del ruolo dei docenti, dietro alla quale si celano spesso gli interessi commerciali delle aziende di prodotti informatici. Interessi di per sé legittimi, intendiamoci, ma che non possono essere il punto di partenza e di arrivo delle politiche scolastiche. Invece l’ideologia informatica ha spesso alle spalle sollecitazioni poco limpide. Ma mi lasci dire un’ultima cosa».
Prego.
«Ho l’impressione che non abbiamo imparato nulla dalla crisi economica mondiale. L’ossessione per la velocità a tutti i costi, per produrre e consumare in una catena che non si ferma mai, la vedo ancora viva e presente. Anziché rallentare, stiamo cercando a tutti i costi di riprendere la corsa ai ritmi di prima. I valori umanistici di cui parlavo ci additano invece un’altra lezione».
«Avvenire» dell'11 giugno 2014

11 giugno 2014

La «palude» è letteraria e politica, ma la cultura ha bisogno di conflitto

Le repliche all'articolo uscito su «La lettura»
di Gabriele Pedullà
Le contrapposizioni estetiche di un tempo hanno lasciato il posto a una sorta di amicizia/inimicizia, una condizione di non belligeranza, in cui tutti puntano ad assicurarsi una dignitosa carriera di scriventi (pubblicazione-recensione-premio)
L’articolo di Franco Cordelli su «la Lettura #131» di domenica scorsa, intitolato «La palude degli scrittori», ha generato diverse polemiche. Dopo la risposta di Gilda Policastro, di Paolo Sortino, quella di Raffaella Silvestri e quella di Andrea Di Consoli, ecco la replica del critico Gabriele Pedullà, autore (tra l’altro) dell’«Atlante della letteratura italiana» (Einaudi, con Sergio Luzzatto)


Le metafore sono importanti. Lo ha ricordato Andrea Cortellessa, rimproverando a Franco Cordelli di aver associato l’immagine della palude al concetto di mappa: le paludi, proprio perché instabili, non possono essere cartografate. Cortellessa ha rivendicato invece il lavoro di quanti – a cominciare dalla sua antologia La terra della prosa – hanno cercato di mettere un po’ di ordine nelle patrie lettere con i soli strumenti adeguati per un simile compito improbo: leggendo, ragionando, assumendosi la responsabilità di scegliere. Proprio grazie a questo lavoro un primo atlante ora c’è. Come tutti i lettori dell’articolo di Cordelli anche io sono stato colpito da questa immagine, che a molti degli inclusi e degli esclusi è apparsa un insulto gratuito al proprio lavoro.

A me l’immagine della palude non dispiace
La palude non allude solo alla instabilità dei confini (in questo caso del canone degli esordienti dal 1999 in poi), ma suggerisce inevitabilmente un luogo sgradevole e ben poco ospitale. Sono anzi sicuro che se Cordelli avesse formulato la medesima idea adoperando una similitudine più gentile, per esempio se avesse parlato di «brodo primordiale» della letteratura del XXI secolo (la soluzione di acqua e molecole carboniose da cui sono nate le prime molecole organiche), nessuno si sarebbe offeso. Salvo, ovviamente, gli assenti. A me invece l’immagine della palude non dispiace affatto. E non per le ragioni di Paolo Sortino, che ha rivendicato la formula di Cordelli per descrivere il corpo a corpo dello scrittore nella melma della lingua e si è paragonato a «una carpa gravida di batteri». Credo, semplicemente, che la metafora di Cordelli non sia geografica (come pensa Cortellessa), né biologica (come ritiene Sortino), ma più verosimilmente politica.

Palude come massa informe, interessata a sopravvivere
La Palude, non necessariamente con la lettera maiuscola, è il soprannome che al tempo della Rivoluzione francese avevano ricevuto i membri della Convenzione nazionale non schierati né a sinistra, con la Montagna, né a destra, con i Girondini: i quattrocento parlamentari pronti a fornire indifferentemente il proprio sostegno agli uni e agli altri, appoggiando prima il Terrore giacobino e poi la controrivoluzione del Termidoro. Una massa informe, interessata soprattutto alla propria sopravvivenza politica e composta di cinici gregari, insuperabili nel fiutare il vento con il necessario anticipo per riposizionarsi. Anni fa, sfogliando per una vecchia rivista patinata degli anni Ottanta, mi capitò di imbattermi per caso in un durissimo attacco di Cordelli ai propri coetanei (Daniele Del Giudice, Andrea De Carlo, Antonio Tabucchi, Elisabetta Rasy…), accusati di essersi fatti complici di un grande Termidoro letterario. Evidentemente, a trent’anni di distanza, Cordelli non ha mutato atteggiamento verso il presente, né campo metaforico. Palude è l’Italia (letteraria e non solo) emersa dal tramonto degli ideali degli anni Settanta.

«Partito dei flemmatici» era l’altro soprannome della Palude
E proprio perché l’intervento di Cordelli vuole essere eminentemente politico, è inutile rimproverargli – come da tanti è stato fatto in questi giorni – di non aver scritto un articolo di critica letteraria. Che cosa è dunque che Cordelli non ama nella letteratura, anzi nei letterati, d’oggi? Oltre alle similitudini di Falco e alla prosa di Vasta, esattamente la condizione liquida della cultura italiana, dove le contrapposizioni estetiche di un tempo hanno lasciato il posto a una sorta di amicizia/inimicizia, che non è nell’una né l’altra ma piuttosto una condizione di non belligeranza, in cui tutti puntano anzitutto ad assicurarsi una dignitosa carriera di scriventi (pubblicazione-recensione-premio) attenendosi al motto di «non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te». Per tradurre in termini sociologici la diagnosi di Cordelli, i gruppi in lotta per il controllo della società letteraria che hanno caratterizzato il Novecento avrebbero lasciato il campo a una incerta federazione di comunità, interessate a sostenere i propri campioni negoziando di volta in volta con le altre onori e riconoscimenti piuttosto che attraverso un conflitto aperto. «Partito dei flemmatici» era l’altro soprannome della Palude, e Cordelli avrebbe potuto usare anche questa formula. Per un uomo della sua generazione (venticinque anni nel 1968, non dimentichiamolo), il piccolo cabotaggio di oggi è il peccato capitale.

Costringere gli scrittori a prendere posizione
E la classificazione affidata alle pagine de «la Lettura» è anche un modo per costringere i diretti interessati a prendere partito (una volta tanto) e a pronunciarsi. Anche se, sino a questo momento, si direbbe che il principale effetto ottenuto dall’articolo di Cordelli sia stato invece quello di compattare i giovani scrittori contro di lui, in un nuovo, paradossale, slancio unanimistico. Come volevasi dimostrare. Non tutto convince nelle famiglie di Cordelli, ma su un punto è impossibile dargli torto: la Palude, la vocazione alla Palude, è la grande tendenza del nostro tempo. Da membro onorario della tribù dei «novisti», i più politicamente battaglieri, non posso evidentemente che essere d’accordo con lui (chi sono i «novisti»? Ecco la descrizione feroce di Cordelli: «una casta di incerta memoria politica, erede di una tradizione di stile e rigore e i cui esponenti, per quanto sempre in prima linea, faticano a ritrovare l’antico vigore»). Invece, la cultura italiana avrebbe disperatamente bisogno di più conflitto – e non sulla base di banali risentimenti personali, ma perché capace di dividersi di nuovo su grandi opzioni letterarie, stilistiche, politiche.

Il conflitto può far male
Ma il conflitto è anche l’unico strumento che abbiamo per dare un senso alla nostra attività intellettuale oltre il giustificabile ma assai limitato obiettivo di sbarcare il lunario. Se tutto va altrettanto bene, allora la letteratura nel suo complesso non ha più alcun valore. E se non siamo disposti ad accapigliarci (meglio, certo, se educatamente) per una rima o per una metafora, allora tanto meglio cercarci un altro lavoro. Personalmente, ritengo che la letteratura italiana più recente sia in uno stato di salute assai migliore di quello che suggerisce Cordelli, ma lui stesso, occorre riconoscere, nelle sue recensioni ha spesso dato prova di grande curiosità e apertura. Quello che soffre, e non da ora, è il sistema letterario nel suo complesso, dove tra l’inimicizia personale e l’acquiescenza interessata è scomparso lo spazio per il dissenso e la discussione critica. La smodata, irragionevole passione dei trenta-quarantenni per Pasolini e le sue intemperanze appare da questo punto di vista una sorta di compensazione simbolica per l’eccessiva prudenza degli stessi. Un anno e mezzo fa, con la richiesta di 50 mila euro da parte del senatore PD e giallista Gianrico Carofiglio al poeta Vincenzo Ostuni (che lo aveva definitivo «scribacchino»), un altro confine è stato superato: da questo momento, con un precedente tanto illustre, ogni italico scrivente potrà prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di citare in giudizio il critico o collega che non gli ha riservato gli elogi che riteneva di meritare.

Non tutto è ancora compromesso
In quell’occasione, per fortuna, attorno a Ostuni si venne a condensare una ampia rete di solidarietà (Cordelli compreso): e non in nome di una sin troppo scontata e generica libertà di espressione, ma di una idea di cultura sottratta agli avvocati e in cui il conflitto possa farsi ancora lievito delle idee come è stato nel Novecento. Non tutto, dunque, è ancora compromesso. È dello stesso problema, credo, che parla Cordelli nel suo articolo. Perché oggi, al tempo della Grande Palude, il conflitto è visto male (e si paga) anche quando non viene sanzionato in un tribunale della Repubblica. Sarà sufficiente un unico esempio. Il «novista» Cortellessa, autore dell’antologia da cui è sorta la polemica, è il maggiore giovane critico italiano (in un paese nel quale si è giovani critici sino a cinquant’anni e giovani poeti fino a quando non si entra nei «Meridiani», per chi ci entra), non solo perché Cortellessa è un interprete formidabile e un lettore onnivoro; il «novista» Cortellessa è il maggiore giovane critico italiano perché ormai, volenti o nolenti, è alle sue scelte che tutti gli altri devono rifarsi: che sia per prendere posizione a favore o contro.

Troppo conflittuale, troppo libero
Basta infatti sfogliare distrattamente Terra della prosa o gli interventi sulla poesia raccolti ne La fisica del senso per rendersi conto come nessuno, nella nostra generazione, abbia prodotto una ricognizione altrettanto approfondita e appassionata sulla letteratura contemporanea: una ricognizione che non può essere ignorata anche da quanti manifestano il proprio disaccordo. Sono in molti, ormai, a riconoscergli questo merito. Eppure che, io sappia, nessun quotidiano di questo paese ospita regolarmente le recensioni di Cortellessa: il quale dopo una deludente collaborazione con «La Stampa» è dovuto emigrare sul web, dove adesso scrive anzitutto su «doppiozero». Troppo conflittuale, troppo libero, in definitiva troppo innamorato della letteratura, questo Cortellessa. Perché Palude e Consenso sono rispettivamente il nome e il cognome della malattia che, emarginando alcune delle voci più libere e offrendo a tutti una bella lezione di conformismo, rischia di uccidere il nostro sistema delle lettere. Torniamo in Montagna? L’invito, con «antico vigore», non è rivolto solo ai «novisti».
31 maggio 2014
«Corriere della sera» del 31 maggio 2014

La silenziosa «casta» degli scrittori, dove tutti sponsorizzano gli amici

Le repliche al pezzo uscito su «la lettura»
di Paolo Di Paolo
L’articolo di Cordelli ha fatto venire allo scoperto le conventicole alla base della letteratura italiana di oggi. Ecco perché, nelle risposte, prevale la frustrazione
L’articolo di Franco Cordelli su «la Lettura #131» di domenica scorsa, intitolato «La palude degli scrittori», ha generato diverse polemiche. Dopo la risposta di Gilda Policastro, di Paolo Sortino, di Raffaella Silvestri, di Andrea Di Consoli, di Gabriele Pedullà, e di Alessandro Beretta, ecco la replica di Paolo Di Paolo, scrittore (il suo ultimo libro è «Tutte le speranze. Montanelli raccontato da chi non c’era», uscito per Rizzoli)



Se l’articolo di Franco Cordelli, da cui tutto è partito, era spiazzante e perciò anche divertente, la gran parte delle reazioni non lo sono state: lamentose, lugubri, contorte. O peggio ancora: opache. Viene il sospetto, a leggere certe repliche in rete e alcuni degli interventi ospitati da Corriere.it, che alle categorie istituite da Cordelli ne mancasse ancora una: quella degli «involuti». Nel senso che si ingarbugliano, fanno pasticci con le parole, usano l’italiano senza disinvoltura, forse perché non lo amano fino in fondo, e lui, l’italiano, gli si rivolta giustamente contro.

E dove sono, tra i senatori, Arbasino, Maraini o Debenedetti?
Partiamo dal presupposto che si tratta di una polemica per «addetti ai lavori», come si diceva un tempo: ebbene, se posso considerarmi tale, io non ho capito oltre metà dei ragionamenti opposti a quello di Cordelli. In fondo, molto in fondo magari, la sostanza era però quella più biliosa e indicibile: la frustrazione. La spinta istintiva e umanissima, da esclusi, a puntare i piedi. Tradotta più o meno in questi termini: «lasciando da parte che Cordelli non mi ha inserito, vorrei sapere perché non ha inserito nemmeno x e y, che peraltro sono amici miei stimatissimi». Ma così il gioco non finisce più. Io stesso avrei obiezioni: perché, al di là del suo valore, c’è Giordano, se Cordelli dice di aver escluso i «troppo percepiti»? E dove sono, tra i senatori, Arbasino, Maraini o Debenedetti? E Mazzucco, vitalista moderata? Celati non dovrebbe passare nel gruppo misto? E il dissidente Maggiani, autore di un pamphlet definivo e violentissimo sulla generazione dei cinquanta-sessantenni? Comunque.

Solo un premiuzzo può tirarci un po’ su di morale
Un «ispettore del commercio librario» nella Parigi del 1750 aveva registrato in città, attivi, 359 scrittori, tra cui Diderot e Rousseau. Oggi, anno 2014, sulla sola piattaforma di self-publishing ilmiolibro.it gli scrittori attivi sono oltre 20mila. Il punto è questo: la macro-categoria che include tutte le altre proposte da Cordelli è quella che va sotto l’aggettivo «frustrati». Lo siamo, inclusi o no, praticamente tutti. Frustrati perché siamo troppi, perché il cosiddetto mercato non si allarga ma resta lo stesso o si contrae. Frustrati perché le recensioni non escono e comunque non servono, i libri passano in libreria per un mese e scompaiono.
Frustrati perché – ci diciamo – l’editore non si impegna. Frustrati perché lo cambiamo e, nonostante questo, le cose non cambiano. Frustrati perché sentiamo che il nostro romanzetto non riesce a farsi largo, e che solo un premiuzzo può tirarci un po’ su di morale, o l’alleanza di qualche simpatico amico a cui ricambieremo il favore. Nessuno ammetterà che funziona così per tutti (salvo quei cinque o sei baciati dal vero successo commerciale), e proprio perché non lo ammetterà nessuno, è vero.

Un autore su ilmiolibro.it sponsorizza un suo compagno
Navighiamo tutti a vista, sempre meno convinti, sempre meno «puri», sempre più affannati e stanchi e in alcuni casi cattivi, risentiti. E tutti, praticamente tutti, caro Cordelli, «poco percepiti». È la tribù a salvarci: qui Cordelli ha ragione. Fino a trent’anni fa c’era l’unica grande tribù della letteratura, riconosciuta da una élite, certo, ma più solida e dai contorni più definiti. E lì convivevano (si fa per dire) i diversi: Calvino e Moravia, Bassani e Morante. Si guardavano a vicenda, dialogavano, si tenevano d’occhio, ma erano soli. Maestosamente soli. Nella palude letteraria in cui siamo condannati a stagnare, ci si tiene d’occhio solo fra amici. Su Facebook se ne ha la triste certezza: ci si sponsorizza a vicenda, ma solo in una ristrettissima cerchia. Un autore pubblicato su ilmiolibro.it sponsorizza un suo compagno di strada pubblicato su ilmiolibro.it, Cortellessa mette nell’antologia i suoi amici, quell’altro posta la recensione appena pubblicata allo straordinario esordio del suo ex compagno di scuola.

Siamo patetici, ma meglio far finta che non sia così
E così avanziamo, nell’illusione che il mondo sia quello che vorremmo che fosse, una ghenga composta di zie, di mamme, dei compagni di merende; ci facciamo forza così, salvo poi puntare il dito sulle cricche altrui. Le conventicole contro cui, in un film di Virzì, puntava il dito un Castellitto professore frustratissimo. Siamo patetici, ma meglio far finta che non sia così. Allora se Cordelli ha un merito è che lui – a differenza di tutti i suoi detrattori – prova a leggere quanto più può, a mappare, a capire, è curioso, anche crudelmente curioso come pochi altri, di tutto, di tutti, degli scrittori di Roma, d’Italia, del mondo, e ingaggia una sfida titanica contro il molteplice, l’universale, pur sapendo che è votata al fallimento. Così, ogni tanto, per fare ordine e per provocare anche sé stesso, sul tovagliolo in un bar o su una pagina della Lettura, prova a tirare giù una mappa. Gli altri, il 90%, continuano a leggersi solo tra vicini, tra complici, hanno già deciso da sempre chi leggere e chi no, hanno già deciso da sempre chi è bravo e chi no, e fanno tanta, tanta tenerezza perché sono come quel famoso cavaliere ariostesco. «Il cavalier del colpo non accorto / andava combattendo ed era morto». Esistono un po’ perché e finché hanno accanto la ghenga. Chi si guarda intorno, chi guarda oltre casa sua, magari non supera la frustrazione, magari si sente più solo, ma almeno resta vivo.
«Corriere della sera» del 3 giugno 2014