17 maggio 2014

Così la Rete ci ha rubato l'oblio

Viktor Mayer-Schönberger: in Internet si lascia sempre traccia, le informazioni sfuggono al controllo
di Carlo Formenti
Il digitale sovverte il principio biologico per cui dimenticare è necessario
Il dibattito sulla «rivoluzione digitale» contrappone discontinuisti e continuisti: da un lato, coloro che ritengono che le trasformazioni tecnologiche degli ultimi decenni inaugurino una nuova era, dall' altro coloro che negano si possa parlare di salto di civiltà. Il discontinuista Viktor Mayer-Schönberger - in questo saggio dal titolo Delete. Il diritto all' oblio nell' era digitale - avanza una tesi radicale: l' avvento del digitale ha sovvertito il principio millenario secondo cui dimenticare è la regola e ricordare l' eccezione. L' oblio è una necessità biologica: se il cervello non compisse un feroce lavoro di selezione, pescando le informazioni da registrare dalla marea di dati che sommerge i nostri sensi, non potremmo agire. Ricordare, al contrario, è attività «artificiale» e costosa: sia in termini energetici - sfida la seconda legge della termodinamica - sia in termini di risorse economiche. Eppure il gioco vale la candela: ricordare rende la vita più facile e sicura, permettendoci di accedere al know-how che soggetti lontani nello spazio e nel tempo hanno acquisito con l' esperienza. Per questo abbiamo sviluppato le tecniche di «esteriorizzazione» della memoria: dal linguaggio orale, che ci ha consentito di prevalere sui neanderthaliani, alla scrittura, che attraverso i secoli si è evoluta - grazie alla stampa - da strumento di ristrette élite a prodotto di massa, fino ai moderni media elettrici, che hanno impresso una poderosa accelerazione al processo di costruzione di una memoria condivisa. Queste tecniche hanno moltiplicato la capacità di memoria ma non hanno risolto il problema dei costi: l' invenzione della stampa risale al XV secolo, ma solo nel primo Novecento i prezzi dei libri sono scesi tanto da consentire una crescita significativa del numero dei lettori; le tecnologie elettroniche hanno moltiplicato la massa di informazioni disponibili, ma hanno anche fatto crescere i costi per selezionarle. Ebbene, le tecnologie digitali hanno cambiato tutto in pochi decenni: oggi è possibile duplicare all' infinito testi, immagini, suoni eccetera a costo zero, senza che le copie subiscano alcuna perdita di qualità. L' informazione analogica richiedeva, per essere condivisa, una pletora di apparati specializzati, quella digitale viene prodotta e distribuita da un' unica macchina «tuttofare»: il computer, o meglio, i milioni di computer interconnessi che costituiscono un' unica macchina planetaria. La memoria sociale condivisa si dilata mostruosamente e diviene universalmente accessibile, il che - unitamente al crollo dei costi di memorizzazione - fa sì che l' antico equilibrio venga sovvertito: ricordare diventa la norma, dimenticare l' eccezione. Prima lo sforzo necessario a ricordare funzionava da filtro, oggi lo sforzo - e quindi il filtro - non esistono più: ci possiamo permettere di sperperare enormi risorse computazionali e di archiviazione, perché per estrarre quello che di volta in volta ci serve da questo ben di Dio basta digitare una domanda e aspettare la risposta del motore di ricerca. Tutto bene? Non proprio. Ricordare, ammonisce Schönberger, può essere una maledizione: il protagonista di un racconto di Jorge Luis Borges, Funes. O della memoria, ricordando ogni istante della propria vita, vive in uno stato di totale passività, immerso in un flusso mnemonico che ne inibisce il desiderio di agire. Forse la memoria digitale non provocherà effetti così devastanti - almeno finché saremo in grado di decidere se e quando tuffarci nel mare dei dati, ma ciò non toglie che l' esistenza stessa di una memoria globale, in cui tutti gli eventi si appiattiscono in una sorta di eterno presente, produca una perdita di prospettiva storica. Né meno grave, secondo Schönberger, è la leggerezza con cui rinunciamo a tutelare la riservatezza dei nostri dati personali, lasciandoci trascinare nell' orgia dello scambio di informazioni con «amici» reclutati sui vari social network, senza riflettere sul fatto che, una volta condivise, le informazioni sfuggono al nostro controllo. La conseguenza più grave di simili atteggiamenti è la perdita di quel diritto non scritto all' oblio che fino a ieri garantiva a ogni essere umano di «ridisegnare» periodicamente la propria identità. Le persone evolvono: il carattere matura con l' età, le esperienze inducono a cambiare convinzioni e comportamenti; il fricchettone diventa un impiegato modello, il tossicodipendente riprende una vita normale, l' imprenditore fallito avvia inedite attività di successo, ecc. Ma cosa succede se i «peccati» vengono registrati in una memoria destinata a durare eternamente? Si prospetta un futuro incapace di perdonare perché non può dimenticare. Lo confermano i casi sempre più frequenti di licenziamenti, incarichi negati, carriere rovinate perché qualcuno ha avuto la pessima idea di pubblicare informazioni «compromettenti» sul proprio blog o sul profilo di un social network. A conclusione di questa riflessione sul destino dell' oblio nell' era di Internet, Mayer-Schönberger prova a suggerire possibili contromisure. Scartata l' irrealistica soluzione dell' astinenza digitale (senza le nuove tecnologie è ormai impossibile svolgere qualsiasi attività professionale), accantonata la tesi dell' adattamento (troppo elevato il differenziale di velocità fra innovazione tecnologica ed evoluzione culturale), verificati i limiti del diritto (le leggi sulla privacy sono di difficile applicazione e spesso ignorate dagli stessi soggetti che dovrebbero proteggere), Schönberger propone un' alternativa: perché non attribuire una data di scadenza a tutte le informazioni? Quando salviamo un file, potremmo stabilirne la durata, ordinando al software di cancellarlo alla scadenza: una «resurrezione artificiale» dell' oblio che limiterebbe significativamente la quantità di informazioni che governi e imprese detengono su cittadini e consumatori. Ma se l' informazione è condivisa fra più soggetti, fissarne la data di scadenza implica una trattativa fra gli interessati, per cui si ripropone il nodo dei rapporti di forza: chi è in grado di far pesare di più i propri interessi? Per concludere: gli automatismi tecnologici arrivano fino a un certo punto, al di là del quale il tema dell' oblio assume necessariamente connotati politici.

Simboli
Ray Tomlinson nel 1971 elaborò un programma che permetteva a coloro che frequentavano le università americane collegate tramite Arpanet di scambiare messaggi. Nel '72 usò il simbolo @ come separazione tra il nome del destinatario e il server.

L'analisi
Il diritto di cambiare la propria vita rimuovendo il ricordo degli errori commessi L'articolo di questa pagina è una sintesi della prefazione al libro Delete. Il diritto all'oblio nell'era digitale (in libreria da oggi per i tipi di Egea, sigla editoriale dell' Università Bocconi, pp. 191, 19) dell' austriaco Viktor Mayer-Schönberger. Consulente dell'Unione Europea, imprenditore (ha fondato una società di software), a lungo docente alla Kennedy School of Government di Harvard, Mayer-Schönberger è direttore dell' Information and Innovation Policy Research Center dell' Università di Singapore. Autore di saggi e considerato esperto di livello mondiale di politica ed economia dell' informazione, in questa sua ultima opera (l'edizione originale è uscita meno di un anno fa) affronta un tema di importanza cruciale, da qualche anno al centro dell' attenzione dei Garanti per la protezione dei dati personali in Europa e negli Stati Uniti: come possiamo controllare la nostra immagine pubblica in un mondo che - a causa dell' eccesso di trasparenza provocato dalle tecnologie digitali - rischia di negarci, assieme al diritto alla privacy, anche il «diritto all' oblio», vale a dire quelle regole non scritte che, fino a pochi anni fa, consentivano a chiunque di «rifarsi una vita», riscattando il ricordo di eventuali errori commessi in un passato più o meno lontano.
«Corriere della Sera» del 17 marzo 2010

Quando l'umanità perderà la memoria

Esce da Fandango un saggio di Alessandro Piperno: con la scomparsa dell'ultimo sopravvissuto, l'Olocausto rischia di essere dimenticato
di Alessandro Piperno
La profezia di Proust e la Shoah: una storia che gli eredi non potranno testimoniare. La tesi: chi può rassicurarci sul fatto che lo studente di domani si sentirà ancora toccato da quelle immagini con gli stessi codici emotivi di oggi? Primo Levi: i superstiti non hanno alcun diritto di parlare a nome di chi non ce l'ha fatta
È ogni istante più vicino il giorno in cui l' ultimo sopravvissuto della Shoah scomparirà dalla faccia della Terra. Probabilmente sarà uno di quei bambini (ormai diventato vecchio) che, con occhi smarriti dalla rassegnazione ancor prima che dal terrore, mostra i numeri incisi sul polso alle cineprese degli Alleati ansiosi di documentare l'entità e l'orrore dello sterminio. Sì, uno di quei bambini, quasi indistinguibili dai suoi compagni di sventura, che riappaiono in tv ogni fine gennaio, nella settimana durante la quale, per convenzione e non senza qualche ipocrisia, usiamo commemorare i milioni di vittime del genocidio. È più che probabile che, data l'inaudita vastità del fenomeno, per non dire della sua intricatezza statistica, nessuno si accorgerà che è venuto a mancare l'ultimo internato superstite di un campo di sterminio nazista. Ciò non di meno è indubbio che quel giorno (sobriamente travestito da giorno qualsiasi) arriverà. E porterà un cambiamento non immediatamente percettibile ma, alla lunga, a dir poco fatale. Con la scomparsa dalla faccia della Terra dell' ultimo internato, infatti, non ci sarà più nessun essere umano capace di testimoniare con il proprio corpo, con il proprio spirito, con il proprio cervello, con il proprio sangue quello che successe in Europa centrale più di mezzo secolo fa. Da quel momento in poi i testimoni verranno sostituiti dai figli e dai nipoti. Verrà affidato alla prole il compito di tramandare ai posteri il dolore inumano patito dai genitori scomparsi. Toccherà ai figli essere intervistati. Andare nelle scuole. Parlare nelle pubbliche commemorazioni. Toccherà a loro tentare di raccontare. Naturalmente, non potendo avvalersi di una memoria diretta, dovranno contentarsi di narrare ciò che è stato loro narrato dai genitori. È lecito ipotizzare che questi testimoni di secondo grado, coniugando esigenze intime a ragioni pedagogico-istituzionali, accettino di accompagnare le scolaresche nell'ennesimo macabro pellegrinaggio ai campi della morte trasformati in scabri musei dell'orrore. Così come è sensato immaginare che questi figli di deportati proveranno un certo imbarazzo nel parlare di ciò che non hanno vissuto. Primo Levi, ne I sommersi e i salvati (il suo libro più tragico), sostiene, con la durezza che lo contraddistingue, che i sopravvissuti non hanno alcun diritto di parlare a nome di chi non ce l'ha fatta. Per lo stesso identico motivo, o forse per un motivo ancor più forte, è assurdo che i figli dei sopravvissuti parlino a nome dei loro padri e delle loro madri. Che non sia questo il limite della cosiddetta «memoria collettiva»? Essa nasce già come impostura. Visto che la memoria, per sua stessa definizione, non può che essere individuale, e visto che ogni testimonianza indiretta non ha niente a che fare con la memoria - tutt'al più con la letteratura, in taluni casi con la mitologia -, ecco che il giorno dopo la morte dell'ultimo perseguitato dalla furia nazista, l'umanità dovrà fare i conti con la propria incapacità di ricordare e con l'invincibile forza dell'Oblio. Da quel giorno in poi la Shoah inizierà a trasformarsi in qualche altra cosa. Alla lunga gli sforzi delle istituzioni di mantenere viva la fiamma della commozione si riveleranno vani. Perché gli uomini sono fatti in modo da provare commozione solo per ciò che li riguarda direttamente. E se un individuo è capace di immedesimarsi nella tragedia occorsa a un genitore, a uno zio o a un nonno, egli incontra qualche difficoltà a solidarizzare con il dramma di un trisavolo. Tutto questo autorizza l'ipotesi che, nel corso di poche generazioni, la Shoah - inghiottita dai decenni trascorsi, divorata dalla retorica istituzionale, banalizzata dal profluvio bibliografico, oltraggiata dal risentimento dei negazionisti, offuscata da qualche altra tragedia più incombente - diventi un fantasma? Ovvero, qualcosa di non immediatamente intellegibile. Qualcosa imposto dall'alto: come una religione, o come una vecchia carta costituzionale. Una ricorrenza in mezzo a tante altre ricorrenze. Quanto tempo deve passare prima che il più spaventoso dei ricordi cada in prescrizione? A onor del vero, occorre dire che qualsiasi studente della nostra epoca, provvisto di buonsenso e di empatia, prova orrore, commozione e sdegno leggendo un libro come Se questo è un uomo di Primo Levi. C'è da chiedersi però se tra un paio di secoli l'effetto prodotto sui posteri da tale lettura sarà il medesimo. O se quelle terrificanti pagine non corrano il rischio di essere consultate con lo stesso spirito con cui noi oggi leggiamo le cronache del famoso terremoto di Lisbona del 1755. Di certo la tecnologia fornirà un aiuto prezioso alla causa della Memoria. Inutile negare che le immagini - le migliaia di immagini archiviate - continuano a esercitare su di noi un'attrazione ipnotica, rappresentando un monito permanente. Un altro aiuto verrà offerto dall'azione persuasiva delle retorica che, in talune circostanze, può rivelarsi utile, come ammette lo stesso Primo Levi: «Una certa dose di retorica è forse indispensabile affinché il ricordo duri. Che i sepolcri, "l'urne dei forti", accendano gli animi a egregie cose, o almeno conservino memoria delle imprese compiute, era vero ai tempi di Foscolo ed è vero ancor oggi». Ma chi può rassicurarci sul fatto che lo studente del ventitreesimo secolo si sentirà ancora implicato con quelle immagini? E che sarà ancora in grado di riconoscersi negli uomini che commisero e che subirono quelle orripilanti atrocità? Chi ci dice che il nostro studente venturo risponderà allo stesso codice emotivo e culturale che ancora oggi rende la retorica della Shoah così efficace? La verità è che ci vorrà qualche altro decennio per misurare l'entità del successo o del fallimento di coloro che hanno scommesso - in buonafede e con caparbietà - sulla Memoria. Per adesso è possibile provare a interpretare i dati di cui disponiamo. E fare un bilancio provvisorio. Si è spesso detto che l'interesse di alcuni degli ex internati nei campi di sterminio a raccontare e riraccontare ciò che avevano subito (naturalmente ci sono anche ex internati che hanno scelto, con gesto non meno dignitoso e non meno comprensibile, l'opposta via del riserbo), derivasse soprattutto dal timore che certe atrocità potessero ripetersi. Le Memoria come ammonimento, quindi. La Memoria come pedagogia. Ma siamo proprio sicuri che sia questa la ragione ultima di quell'inesauribile smania di ricordare? Davvero la prima preoccupazione di chi è scampato a un' esperienza così mostruosamente totalizzante è che nessun altro provi un giorno ciò che lui ha provato? Bisogna avere un' opinione lusinghiera (e decisamente irrealistica) del genere umano per crederlo. Primo Levi scrive: «Quasi tutti i reduci, a voce alta o nelle loro memorie scritte, ricordano un sogno che ricorreva spesso nelle notti di prigionia, vario nei particolari ma unico nella sostanza di essere tornati a casa, di raccontare con passione e sollievo le loro sofferenze passate rivolgendosi a una persona cara, e di non essere creduti, anzi, neppure ascoltati. Nella forma più tipica (e più crudele), l'interlocutore si voltava e se ne andava in silenzio». Mi pare che il sogno ricorrente di cui Levi dà conto sia l'ennesima dimostrazione di come uno dei pochi sproni a sopravvivere degli internati fosse quello di poter raccontare, un giorno, la loro esperienza. I pochissimi che ebbero la fortuna di sopravvivere dovettero affrontare il dramma di non essere all' altezza del compito che si erano prefissi. Se è vero che non c' è esperienza individuale che sia totalmente comunicabile, ciò è ancora più vero quando l'esperienza che vuoi raccontare è così spaventosa. Non a caso Elie Wiesel ha scritto: «Quelli che non hanno vissuto quell' esperienza non sapranno mai che cosa sia stata; quelli che l' hanno vissuta non lo diranno mai; non veramente, non sino in fondo. Il passato appartiene ai morti, e il sopravvissuto non si riconosce nelle immagini e nelle idee che pretendono di descriverlo». In un processo psichico non così difficile da comprendere, l' impossibilità di riuscire fino in fondo a «dire» ciò che ti è capitato si trasforma in un' esigenza di dirlo a tutti costi. Il fatto di non riuscirci fino in fondo non è che l' ennesima beffa, una specie di vittoria postuma dei nazisti e dei loro spregevolissimi fiancheggiatori. L'inesprimibilità di una tragedia è parte stessa della tragedia. Bruno Bettelheim - lo psichiatra che meglio di qualsiasi altro ha saputo descrivere la cosiddetta «sindrome del sopravvissuto ai campi di sterminio» - ha raccontato come, durante i primi giorni di prigionia in un campo di concentramento, lui, per tenere desta la mente, per non abbrutirsi, avesse provato ad analizzare i propri comportamenti e quelli degli altri internati con un atteggiamento scientifico che gli era stato inculcato da una severa educazione accademica: «Tale studio fu un meccanismo sviluppato ad hoc per poter mantenere almeno un minimo di interessi intellettuali e riuscire quindi a meglio sopportare la vita del campo. L'osservazione e la raccolta di dati vanno quindi considerate alla stregua di un particolare tipo di difesa sviluppata in quella situazione estrema». Lo «studio» cui allude Bettelheim non è solo un atto di comprensione, ma in un certo senso anche un atto di memoria. Capire vuol dire (lo dice Bettelheim stesso) immagazzinare una miriade di dati interessanti che ti consentono di ricostruire retroattivamente ciò che ti è capitato. E, dopo averlo capito, di raccontarlo. Dalle centinaia di testimonianze raccolte possiamo dire che l' internato in un campo di sterminio (soprattutto i primi tempi) - oltre alle tragedie legate alla violenza subita, allo scenario apocalittico in cui si è ritrovato quasi da un giorno all' altro, oltre al pensiero terrorizzante di ciò che potrebbe essere capitato ai suoi cari, al permanente pericolo di essere ammazzato, all'amministrazione delle energie residue in uno stato paurosamente insalubre di denutrizione, affaticamento, malattia, oltre al senso di solitudine aberrante - si trova a fronteggiare un dramma psicologico di proporzioni inaudite: da un lato sente che una delle poche ragioni per cui deve salvarsi è per poter raccontare la sua esperienza (molti hanno detto che questo era un pensiero ricorrente: salvarsi al solo scopo di poter raccontare. Affinché tutto ciò non restasse impunito, affinché tutto ciò avesse un senso). Ma, dall'altro, come ci spiega bene Levi, affianco a questo pensiero in qualche misura vitale ce n'era uno contrario: la paura di non essere creduti. Il terrore che, qualora fossi riuscito a salvarti, non avresti trovato le parole per raccontare, per ordinare i tuoi ricordi in un modo logico, laico e efficace. Chissà allora che si possa dire che una delle ragioni (non la sola, certo) per cui chi ha patito l'esperienza concentrazionaria non smette di ricordarla a se stesso e al mondo è perché lui è rimasto lì, se non con il corpo, di certo con la mente.
«Corriere della Sera» del 14 lugilio 2012

La Corte di giustizia impone a Google di rispettare il diritto all'oblio

Sentenza favorevole a un avvocato spagnolo che chiedeva la cancellazione dalla rete. Il colosso web: decisione deludente
di Luigi Offeddu
Qualcuno brinderà alla «privacy», qualcun altro denuncerà un presunto complotto per imbavagliare Internet. Ma sia come sia, da oggi le cose stanno così: se il piccolo Davide europeo non vuole lasciare le sue orme nella grande arena di Internet, il Golia (o i Golia) che la governa deve obbedirgli, e cancellare quelle orme, dovunque esse si siano disperse. Volendo esagerare un po' e tradurre tutto in termini di mito, è questo il senso della sentenza emessa ieri dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea nei confronti di Google. I magistrati hanno dato ragione a un avvocato spagnolo che, appunto, chiedeva di «scomparire» dal web. E hanno sentenziato: sia Google, sia gli altri motori di ricerca sul web devono rispettare il «diritto all'oblio» di qualunque cittadino, che non voglia più trovare sul web questo o quel segno della sua biografia, della sua opera, dei suoi contatti sociali o delle sue attività economiche (e magari dei suoi reati), insomma di qualunque cosa anche risalente a molti anni prima, che possa parlare agli altri di lui. Se lo stesso cittadino lo richiederà espressamente, i motori di ricerca dovranno dunque intervenire per fare tabula rasa sulla propria rete o premere sulle altre dove quel pezzetto di privacy sia eventualmente approdato, anche solo per un casuale contatto e senza alcuna responsabilità del motore originario. La sentenza vale ovviamente solo per i cittadini Ue: ma siccome i «Davide» d'Europa a spasso sul web sono potenzialmente 500 milioni, se solo la metà di essi protestasse richiedendo l'attivazione delle costose procedure di ricerca e cancellazione dei dati, i bilanci di Google e colleghi ne avrebbero probabilmente a soffrire.Ecco infatti le prime reazioni da un portavoce del colosso: «Si tratta di una decisione deludente per i motori di ricerca e per gli editori online in generale. Siamo molto sorpresi che diverga così recisamente dall'opinione espressa dall'avvocato generale Ue. Adesso abbiamo bisogno di tempo per analizzarne le implicazioni».
Per l'Ue è comunque una sentenza che farà storia. Tutto ha avuto inizio da quando l'avvocato spagnolo Mario Costeja, nel 2009, cercando sulla rete il suo nome, lo ha trovato sul sito di un giornale quotidiano della Catalogna, che lo associava a un elenco di debiti, nel frattempo cancellati. Nonostante le proteste dell'avvocato, sia Google sia il giornale rifiutarono di eliminare quei dati. Seguì una lunga battaglia giudiziaria. Conclusa con quella che oggi Viviane Reding, commissaria Ue alla giustizia, chiama una vittoria: «Ora le società non potranno più nascondersi dietro i loro server in California o altrove». E il diritto all'oblio non sarà più uno strano animale a rischio di estinzione sul web.
«Corriere della Sera» del 14c maggio 2014

02 maggio 2014

Ma il peccato è dimenticare la bellezza

di Alessandro D'Avenia
Mi è stata chiesta una riflessione sulle letture in classe, a partire dall’episodio accaduto in un liceo classico di Roma. Non conosco il libro in questione, mi sono quindi limitato a considerazioni nate da anni di studio e di esperienza sul campo.
Denunciateci, cari genitori, ma non per quello che facciamo leggere ai vostri figli, ma per quello che non facciamo leggere loro. Noi insegnanti, frequentatori delle belle lettere, a volte rinunciamo alla bellezza. Per questo dovete mandarci in galera. Denunciateci perché non facciamo leggere che una vivisezione de I promessi sposi (chi non odia quel romanzo dopo la scuola?). Denunciateci perché non facciamo leggere Dante, perché è difficile, perché tanto non lo capiscono, perché parla troppo di Dio. Denunciateci perché non facciamo leggere i classici per intero ma li facciamo a brani, come in macelleria. Denunciateci perché facciamo credere ai ragazzi che le poesie siano inutili coriandoli, e non parti di raccolte significative nella loro interezza (la scuola è l’unico momento in cui alcuni leggono poesia in una vita intera). Denunciateci perché non facciamo leggere la letteratura straniera ma solo quella nostrana, minori compresi, piuttosto che Baudelaire, Dostoevskij, Eliot. Denunciateci perché non crediamo più alla bellezza tutta intera. Per farti amare la Venere di Botticelli te ne faccio vedere solo alcuni centimetri quadrati o ti porto di fronte al quadro?
Quando dico ai miei ragazzi di prima superiore di mettere da parte l’antologia di epica perché leggeremo l’Odissea per intero si disperano. Pensano sia una follia, una noia. E non è né l’uno né l’altro, perché i classici sono sì faticosi, ma sempre interessanti (e l’interesse è l’unico antidoto alla noia, e non – come molti pensano – il divertimento). Non sanno che un libro dell’Odissea si legge ad alta voce in meno di 30 minuti e che quindi per leggere i 24 di cui è composta basterebbero 12 ore. Solo 12 ore. Alla fine di quell’esperienza (sì la lettura è ex-periri: andarsene in giro in posti diversi uscendo dal proprio guscio), ringraziano, come dopo un bel viaggio: sono stati ad Itaca, ciascuno di loro ha dato voce ad uno o più personaggi. Tutto è diventato “vera presenza”, direbbe George Steiner e l’insegnante si è concesso lusso e gusto di essere Omero-narratore.
Lo stesso accade quando affronto con i ragazzi di seconda superiore la lettura integrale dell’Allegria di Ungaretti. All’inizio sono sanamente confusi, poi a poco a poco le parole li possiedono. La bellezza educa se noi gli accordiamo quella fiducia “integrale” che merita.
Questo è l’unico criterio per scegliere le letture: integralità e bellezza. Il resto è antologia o ideologia. Lascia il tempo che l’interrogazione trova.
Denunciateci se non scegliamo letture capaci di intercettare la maturazione di un ragazzo che troverà finalmente parole vere per dare nome – quindi possedere e vivere direbbe Eliot – ciò che di invisibile c’è nella propria vita interiore, che abbiamo il compito di far fiorire.
“Tra i segnali che mi avvertono essere finita la giovinezza è l’accorgersi che la letteratura non mi interessa più veramente. Voglio dire che non apro i libri con quella viva ed ansiosa speranza di cose spirituali che, malgrado tutto, un tempo sentivo”. Così scriveva Cesare Pavese nel suo diario.
Denunciateci, allora, quando priviamo i vostri ragazzi dell’alimento che li affama, come non mai, nella vita: la bellezza che nutre e fa sentire abitabile il mondo, la bellezza che non ha ragioni, ma dà ragioni all’esistere e lo rende per questo sensato e non semplicemente da consumare. Denunciateci non se facciamo leggere cose brutte, ma se non facciamo leggere secondo bellezza. Se lo facessimo non ci rimarrebbe tempo per le banalità. E per le denunce.

ps. Aggiungo al post il primo commento ricevuto che merita lettura di tutti: “Da studentessa di quinta superiore di un istituto per geometri, dove italiano non è proprio la materia principale, posso dirti di averla trovata, la bellezza. L’ho trovata nella letteratura di cui parli, nelle poesie di quei poeti che poi tanto diversi da noi non erano. Hanno solo avuto più coraggio. In una scuola come la mia sarebbe quasi impossibile leggere per intero l’Odissea, le ore sono veramente poche, ma in quelle poche, grazie al mio prof, posso dire di averla, se non trovata, almeno vista aggirarsi tra i versi. Ed è lì, proprio per essere trovata, la bellezza, da chi è capace di saperla cogliere. Sono queste le cose che ti migliorano una noiosa mattinata di scuola, avere un momento dedicato alle emozioni, avere la possibilità in quell’ora di poterne prendere un po’ e portarsele dentro. Per un minuto, un’ora, un giorno o chissà, per sempre.”
«La Stampa» del 29 aprile 2014