25 marzo 2014

Prometeo, incatenato dagli atei

La provocazione
di Andrea Vaccaro
Negli
«Sono venuto a portare il fuoco sulla Terra. E quanto vorrei che fosse già acceso» (Lc 12, 49): parole di Gesù o di Prometeo? Il mito di Prometeo continua ad ispirare espressioni artistiche e variazioni interpretative (solo nel 2013 si contano ancora, in Italia, tre libri dedicati al tema e due rappresentazioni teatrali), eppure nella cultura contemporanea sembra essersi cristallizzato, anche linguisticamente, il solo significato di auto-salvezza umana («arroganza prometeica») in chiave anti-religiosa.
Questo dato non può non suscitare, teologicamente, dispiacere e disagio, specie nel ricordare con nostalgia i bei tempi antichi che videro la profonda amicizia tra Gesù (leggasi: i cristiani) e Prometeo. Chiamarla "amicizia" è perfino dire poco, dal momento che, sin dai primi secoli, taluni autori cristiani giungono a parlare di Prometeo come di una prefigurazione cristologica all’interno della religione (mitologia) greca. Una sorta di Quinto Canto del Servo che proviene dal mondo delle Genti, con innegabili discrasie (di cui neppure il testo di Isaia è, in realtà, esente), ma anche con sorprendenti assonanze messianiche.
Il Prometeo incatenato di Eschilo è il dio elevato tra la terra e il cielo, alla vista di tutti, immobilizzato e agonizzante, «perché amò i mortali oltre misura»; è «un dio che soffre a causa degli dei», si potrebbe dire in nome della vecchia Legge divina del Sinedrio; è il giusto deriso e sfidato a liberarsi dal supplizio in virtù del proprio sedicente potere. La voce di Prometeo, così, preludeva alla verità, ma non fu compresa perché la pedagogia divina disseminava, ma non ancora raccoglieva la Rivelazione perfetta e pertanto gli astanti – come recita la versione eschilea ai versi 447-8 – «avevano occhi e non vedevano/ avevano orecchie e non udivano».
Addizionando le "assonanze" eschilee con il motivo tipicamente ovidiano di un Prometeo «plasmatore del primo uomo», Tertulliano (a nome di molti) non indugiò a tirare le somme e a dichiarare, sia nell’Apologeticum (XVIII, 2) sia nell’Adversus Marcionem (I, 1, 4), che l’unico Dio era il «vero Prometeo». La figura di Prometeo diviene a tal punto simbolo cristiano da accompagnare e proteggere il viaggio nell’aldilà in numerosi fronti di sarcofago, come ad esempio quello del 220 d.C. appartenente all’antica collezione Borghese, ora al Louvre, oppure quello della cripta della Chiesa di Saint Honorat (240 d.C.) addirittura per la sepoltura del vescovo Ilario, o quello esposto nei romani Musei Capitolini, risalente al 300 d.C. Commentando quest’ultima scultura, lo storico Edgar Quinet, nel suo Il mito di Prometeo nei suoi rapporti con il cristianesimo (1838), parla ragionevolmente del titano come del «profeta di Cristo nell’antichità greca» e lo storico dell’arte Robert Tuncan, nella sua Note sur le sarcophage «au Promethée» (1988), interpreta il fuoco consegnato agli umani, molto al di là del tradizionale «dono tecnologico», come l’insufflazione dell’anima immortale.
La prima ampia metà del secondo millennio vede la deflagrazione dell’abbraccio cristiano a Prometeo. La preziosa miniatura che illustra un manoscritto dell’Ovide moralisé (tra il 1316 e 1328) nella biblioteca di Lione propone, nello sfondo classico della Creazione, Dio Padre a destra, nell’atto di dar forma all’Universo, e Prometeo a sinistra, che dà vita ad una figura umana distesa al suolo. Tra il 1433 e il 1445, Prometeo entra anche nel cuore della cristianità, fermandosi sulla sua soglia, ovvero sulla porta bronzea della basilica di san Pietro, dove Antonio Averlino, detto «Il Filarete», scolpisce su committenza di papa Eugenio IV un Prometeo intento a formare il primo uomo.
Poi è la volta, sullo stesso soggetto, del Parmigianino, del Guercino, della Scuola del Sansovino, per una rassegna splendidamente offerta dal sito www.iconos.it (Cattedra di iconografia, Università La Sapienza) che ha al suo culmine l’illustrazione di Bernard Salomon «La creazione dell’uomo» del 1557, ove un maestoso Prometeo con barba bianca e corona si protende su Adamo, allungando l’indice della mano destra per toccargli una spalla, in un «significativo riadattamento» (Olga Raggio) della «Creazione» di Michelangelo.
Dall’arte alla filosofia: nel 1609 Francesco Bacone, senza tentennamenti, nel De sapientia veterum, può ancora dichiarare che «Prometeo indica in tutta certezza ed evidenza la Provvidenza divina», sottolineando i «molteplici spunti che, con mirabile concordanza, alludono ai misteri della fede cristiana». Bacone, tuttavia, è stato uno degli ultimi autori cristiani naturaliter amico di Prometeo. Si apriva, infatti, l’epoca del «grande purtroppo», cioè l’incredibile e improvvida incomprensione tra scienza e teologia. Una frattura che è ancora, storicamente, là dall’essere resa comprensibile, ma che negli effetti vide molti "figli" illustri allontanarsi dalla Chiesa e riporre in valigia, tra le altre cose, anche il mito di Prometeo.
E nel ’700 torna fuori un Prometeo dai connotati irriconoscibili. In un crescendo "ateistico" che dall’Illuminismo giunge fino a noi, si staglia il Prometeo di Voltaire «simbolo dell’eterno divorzio tra la Terra e il Cielo»; il Prometeo di Goethe, che accusa la divinità di accidia dinanzi alla sofferenza umana; l’«ateo guerriero» di Percy Bysshe Shelley che pur sulla croce sfida Giove (e non a caso seduce i gusti di Giulio Giorello nel suo Prometeo, Ulisse, Gilgamesh); il Prometeo che si guadagna «il primo posto tra i santi e i martiri» nello speciale calendario filosofico del giovane Marx.
Il punto più basso del rapporto tra Prometeo e la religione doveva però ancora essere toccato ed è accaduto in tempi più recenti allorché, dinanzi all’esponenziale incedere della genetica e di altre diavolerie tecnologiche, molti filosofi, nel cui coro si distingue bene la voce di Hans Jonas, accusano le arroganze, le pretese e gli impeti prometeici di condurre ineluttabilmente verso l’apocalisse. Con una strana corsa a ritroso Prometeo, da prefigurazione di Cristo elargitore di doni, si è trasformato nell’Adamo disobbediente che vuol diventare onnipotente a dispetto di Dio, suscitandone l’ira...
È una parabola ermeneutica che teologicamente amareggia molto, «perché i cristiani non si sognano di contrapporre i prodotti dell’ingegno e del coraggio dell’essere umano alla potenza di Dio, quasi che la creatura razionale sia rivale del Creatore; al contrario, sono persuasi piuttosto che le vittorie dell’umanità sono segno della grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno». Parola di Concilio: Gaudium et spes n. 34.
«A» del marzo 2014

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