14 marzo 2014

I teoremi sull’obiezione e la verità dei fatti

Dal presunto caso del «Pertini» all’atto del Consiglio d’Europa
di Eugenia Roccella *
In questi giorni ha avuto molto risalto, sulla stampa, il caso della signora Magnanti, che ha interrotto la sua gravidanza al quinto mese dopo aver saputo che la bimba che aspettava sarebbe stata affetta da una gravissima patologia. Valentina Magnanti accusa l’Ospedale Pertini di Roma di averla abbandonata a un aborto doloroso, gestito in solitudine, e ritiene che la responsabilità della mancata assistenza sia dei troppi obiettori di coscienza; la Asl ribatte che la paziente è stata seguita regolarmente e che erano presenti, quel giorno, due medici non obiettori.
Ma qui non si tratta di un eventuale episodio di malasanità, tanto più che il fatto è avvenuto ben quattro anni fa, e non c’è stata nessuna denuncia da parte della paziente. Perché dunque questa storia, giornalisticamente decotta e non sufficientemente verificata, riemerge dopo tanto tempo? L’improvviso interesse dei mezzi di comunicazione per il caso è probabilmente connesso al riacutizzarsi della guerra contro l’obiezione di coscienza, fenomeno da sempre mal tollerato dai sostenitori dell’aborto come “diritto”.
All’inizio della legislatura sono state presentate alla Camera numerose mozioni che, partendo dalla constatazione di un aumento del numero degli obiettori, impegnavano il governo a un’attività di controllo e verifica, e il ministero ha istituito un tavolo con le Regioni a questo scopo. I dati emersi, però, contraddicono la lettura per cui le eventuali difficoltà di applicazione della legge 194 sono dovute a una sorta di boicottaggio messo in atto dai medici obiettori. Il carico di lavoro per ogni ginecologo che pratica interruzioni di gravidanza è infatti sceso da 3,3 aborti a settimana negli anni Ottanta fino agli attuali 1,7: e questo considerando soltanto 44 settimane lavorative all’anno. Si può ribattere che la media nazionale non esclude che in alcune regioni vi siano situazioni diverse, ma anche le medie regionali non superano un massimo di 4 aborti a settimana (per esempio nel Lazio).
Silvio Viale, medico del Sant’Anna di Torino, noto per la campagna politica a favore della pillola abortiva, denuncia nel suo ospedale una situazione di pesante sproporzione: solo 23 medici non obiettori su un totale di 83 ginecologi, per 3.490 interruzioni di gravidanza all’anno. Ma se elaboriamo questi numeri, risulta che al Sant’Anna ogni medico effettua 3,4 aborti a ogni settimana, sempre su 44 settimane lavorative. Non appare dunque una situazione insostenibile, che reclami interventi correttivi urgenti.
Qualche giorno fa un oscuro organismo tecnico del Consiglio d’Europa ha emanato un documento contro l’Italia sostenendo che il numero dei medici obiettori impedisce l’attuazione della 194. Il documento è stato sollecitato dalla Ippf, un’organizzazione non governativa antinatalista che promuove aborto e contraccezione nel mondo. Il pronunciamento appare del tutto immotivato e pretestuoso, frutto di una non conoscenza dei dati italiani e di una volontà strumentale da parte dell’Ippf di attaccare l’Italia. Va ricordato che il nostro è uno dei pochissimi Paesi in cui l’Ippf non è attiva, perché l’aborto per legge non si può praticare a pagamento presso privati.
La tesi per cui i medici obiettori devono essere sottoposti a limitazioni particolari, se non mobbizzati, perché, come sostiene l’Ippf, «violano i diritti delle donne», non regge all’esame dei numeri e alla verità dei fatti. Ma questo non importa affatto a chi attacca l’obiezione di coscienza, cioè un diritto fondamentale di libertà che ogni Paese civile deve garantire. La battaglia contro gli obiettori serve a indebolire la legge 194, considerata ormai dallo schieramento abortista troppo moderata. Poiché cambiare la legge in Parlamento è ancora oggi assai difficile, si cerca di forzare la prassi, infilandosi in tutti gli spiragli possibili per smontare la legge e spostare ancora più avanti i confini del “diritto” all’aborto.

* Deputato del Nuovo Centro Destra
«Avvenire» del 14 marzo 2014

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