04 marzo 2014

Attila «Flagello di Dio». O forse no

di Edoardo Castagna
Non era il “flagello di Dio”. Certo, non era nemmeno un fiorellino di campo... Ma la nomea che ha avvolto nei secoli la figura di Attila è in gran parte posticcia, o comunque non trova riscontri nei – pochissimi – documenti storici sulla sua vita in nostro possesso. Quel che ci trasmettono le scarne informazioni dei cronisti più o meno coevi a lui è l’immagine di un bravo capo barbaro, buon condottiero e accorto regnante, ma nulla che lo distingua da altri valorosi comandanti di orde in quella convulsa e plurisecolare fase di ribollimento che fu il tramonto dell’Impero romano. E, soprattutto, nulla che ne faccia un “flagello”.
La fonte pressoché unica sulla vita di Attila è lo storico bizantino Prisco di Panio, che conobbe personalmente il sovrano unno quale membro di un’ambasciata imperiale. E il ritratto che ne fa è quasi lusinghiero. Descrivendo il banchetto cui prese parte, evidenzia come il re spiccasse per morigeratezza: beveva (poco) in una coppa di legno, mangiava solo carne e non elaborate leccornie, e non indossava gioielli; il solo segno distintivo del suo status era l’eccezionale pulizia delle sue sobrie vesti.
È possibile – come evidenzia la storica franco-ungherese Edina Bozoky in Attila e gli Unni (Il Mulino, pagine 232, euro 22,00) – che il ritratto di Prisco rispondesse più a canoni letterari che a esigenze di veridicità storica. Era comune, nella storiografia antica e medievale, intessere la narrazione di elementi di giudizio politico-morale; la descrizione dei barbari – si pensi alla Germania di Tacito – assumeva spesso la funzione di far da contraltare allo stato della società “civile” coeva. Nel caso di Attila come in tanti altri, l’esaltazione della sobrietà barbarica serviva a denunciare, indirettamente, la decadenza bizantina.
Anche le cronache delle imprese militari degli Unni – prima le incursioni nell’Impero d’Oriente, poi le campagne in Gallia e in Italia – appaiono coerenti con la consueta storiografia sui barbari. Saccheggi, violenze e devastazioni accompagnano ogni irruzione nell’impero, degli Unni come dei Goti, degli Sciti o dei Franchi, né quelle di Attila sembrano discostarsi dalle altre. Le campagne di Gallia e d’Italia sono note attraverso le cronache del gallo-romano Sidonio Apollinare e del goto Giordane (vissuto però un secolo dopo e che probabilmente attinse a sua volta da Prisco), e sono molto asciutte, concentrandosi principalmente sugli aspetti politici, diplomatici e militari delle guerre, inscritte nel contesto della difficile gestione dell’impero da parte del generalissimo Ezio. Perfino il celebre incontro con papa Leone, che sul Mincio convinse il re unno a ritirarsi risparmiando Roma, è appena accennato nelle cronache del tempo e del tutto taciuto dal pur corposo corpus epistolare dello stesso Leone.
Su questi scarni e relativamente ordinari elementi storico-biografici si è, nel corso dei secoli, innestato un fiorire di narrazioni leggendarie, che ha fatto di uno dei tanti condottieri dell’età delle invasioni l’archetipo del barbaro, colui al cui passaggio – è il detto presto divenuto proverbiale – non cresceva più l’erba. I motivi di questa fertilità leggendaria sono complessi e, secondo la stessa Bozoky, solo in parte comprensibili: «La “verità” o la “realtà” di Attila e degli Unni si sottrae in gran parte alla nostra conoscenza». Giocò molto, nel definire la sua immagine, la fantasiosa narrazione di Ammiano Marcellino, che nel IV secolo – senza aver mai visto un unno in vita sua – attinse a un già vasto e consolidato repertorio retorico per descrivere quel popolo come una sorta di incrocio tra l’umano, il ferino e il demoniaco. A questo immaginario, presto divenuto luogo comune, si richiamarono gli storici successivi, sempre senza avere conoscenza diretta degli Unni; l’orda di Attila, d’altra parte, si era dissolta pressoché immediatamente dopo la sua morte (453) e non era più possibile averne conoscenza diretta.
Il V, il VI, il VII secolo videro il fiorire delle storie dei santi, soprattutto in area gallica, e le loro virtù venivano fatte risaltare proprio in contrapposizione alla barbarie attorno a loro, in un mondo in disfacimento politico e morale; la concomitanza cronologica con il pur brevissimo passaggio di Attila facilitò il radicamento nell’immaginario dell’epoca delle descrizioni apocalittiche di Ammiano Marcellino e dei suoi continuatori, incluso lo stesso Giordane. Rafforzata da questa nuova tradizione storico-apologetica, questa immagine retorica di Attila trasmigrò ai secoli successivi e si colorò di ulteriori leggende, sempre più accentuando la ferocia luciferina del re unno. Fino a consegnare, già al termine del Medioevo, la figura compiuta del “flagello di Dio”, a sua volta ripresa come personaggio stereotipato in una miriade di opere letterarie successive, fino ai nostri giorni.
Con una vistosa eccezione: l’Ungheria. A Budapest Attila non solo non è accompagnato da alcuna nomea negativa, ma anzi è considerato una sorta di eroe proto-nazionale, come Vercingetorige in Francia o Arminio in Germania. L’appropriazione è basata su una mera coincidenza geografica: l’antica Pannonia, cuore dell’impero unno, oggi corrisponde all’Ungheria. Attila è ancora un nome proprio molto comune e la storia della cultura magiara è ricca di opere che forniscono del sovrano del V secolo un’immagine eroica, cavalleresca ante litteram. Anche in Turchia e, per altri aspetti, in Russia Attila gode di buona stampa: nel primo caso perché ci si richiama alle radici turche del popolo unno, nel secondo perché se ne fa un contraltare all’Europa.
Ma gli Unni non erano certo né slavi né ungheresi, due popoli che si sono affacciati solo più tardi alla storia europea. E probabilmente nemmeno turchi, sebbene siano tradizionalmente indicati come tali. La linguistica e l’archeologia sanno fornire poche risposte sulla reale composizione etnica dell’orda di Attila; qualche parola di chiara ascendenza turco-mongolica c’è, ma ne compaiono altrettante germaniche. Ragionevolmente si può supporre che il ceppo turco, anche ammettendo che fosse quello originario, già ai tempi di Attila non rappresentasse più di un quinto del totale. Il resto dell’orda era fatto, come in ogni agglomerato barbarico, di un coacervo di popoli, per lo più germanici, che conservavano tutti la propria individualità e il cui legame con il sovrano era puramente personale: alla sua morte, a meno che non avesse un successore della stessa tempra, si scioglieva e ognuno tornava a far parte per sé. Anche per questo il formidabile impero di Attila, che all’apogeo andava – seppur più in teoria che in pratica – dalla Francia all’Ucraina, si dissolse come neve al sole all’indomani della morte del “flagello”.
«Avvenire» del 25 febbraio 2014

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