25 febbraio 2014

Internet ha cambiato la democrazia. La vecchia politica fa male a resistere

di Sebastiano Maffettone
Adoro il puzzo stantio delle vecchie librerie, e scartabellare tra i volumi, anche in una bancarella, mi riempie di gioia. Tuttavia, compro il novanta per cento dei libri in rete su Amazon. YouTube e simili hanno smantellato l’industria discografica e oramai le canzoni si ascoltano e si acquistano con il computer. Lo stesso sta succedendo negli Stati Uniti, e c’è da giurarlo tra poco anche da noi, con Netflix e il cinema. L’informazione tradizionale e l’università sempre più risentono della concorrenza in rete, così come paghiamo le bollette delle nostre utenze via web e non c’è ditta o attività commerciale che non apra un bel sito da cui acquistare. La finanza poi è addirittura impensabile senza la rete. Persino le religioni oramai ne fanno largo uso: il Papa twitta, e il culto che fa più nuovi proseliti nel mondo, l’Evangelismo, è quella che ha più antica dimestichezza col web. Insomma, sopravvalutare la rilevanza della rete è difficile.
Come dubitare allora che una rivoluzione del genere non finisca per cambiare anche la politica? D’altronde casi che lo mostrano non mancano, e senza distinzione di razza e cultura. La primavera araba non meno che Occupy Wall Street , gli indignados spagnoli e i cinquestellati italiani, la campagna presidenziale di Obama e quanto succede in questi giorni in Ucraina, in maniera diversa caso per caso lo confermano. Sono stato così felice di partecipare ad Alpis - un seminario di studiosi di tecnologie digitali con particolare focus sulla progettazione partecipata - per avere l’opportunità di discutere con scienziati tecnici di temi e problemi di assoluta rilevanza come quelli che riguardano le conseguenze politiche e istituzionali della trasformazione legata all’impatto della digitalizzazione nel nostro mondo.
Fenomeni tanto pervasivi generano reazioni culturali spesso radicali, che condannano il mondo della tecnologia informatica come una fonte di pura alienazione. Per persone meno estremiste culturalmente parlando, un compito importante rimane quello di analizzare i mutamenti nell’ecologia istituzionale (il termine è di Yochai Benkler) all’interno di una società liberal-democratica. Il che, detto in un italiano più leggibile, equivale a cercare di capire che cosa sta cambiando e su quale base nei rapporti di forza tra individui, gruppi e istituzioni. Sin dall’inizio l’età della rete è stata vista da molti come una speranza per la democrazia, una democrazia spesso malata. Si è creduto così che la possibilità da parte del pubblico di partecipare alla vita democratica aumentasse a dismisura attraverso la rete. Dopotutto, strutturare una opinione pubblica rilevante in rete costa assai meno di quanto non costi edificare un network televisivo. Ma c’è anche chi ha temuto l’avvento prossimo venturo di monopoli dell’informazione digitali, nuove e potentissime istanze del Grande Fratello, che tutto sanno sulle nostre preferenze, gusti e valori.
Ma fin qui siamo ancora a livello di distinzioni preliminari troppo generali. È invece più interessante rovistare nei lavori degli informatici per sapere effettivamente che prospettive reali ci sono. Fiorella De Cindio, informatica dell’Università di Milano, propone un modello di habitat digitale che è stato già in parte sperimentato in campagne elettorali. Si tratta di costituire innanzitutto un’architettura di sistema che permetta la partecipazione diffusa della cittadinanza agli eventi politici in termini di quella che i teorici della politica chiamano democrazia deliberativa. Qualcosa del genere presuppone la cooperazione al progetto da parte di scienziati sociali. Un habitat digitale appropriato richiede infatti la compresenza di persone e gruppi esterni alla rete con quelli che invece sono online. Una volta accertata la trasparenza della procedura, tocca agli scienziati sociali concettualizzare l’identità degli utenti, le loro motivazioni, il senso della partecipazione politica, la maniera in cui il pubblico vede la comunità, le possibilità degli individui di accedere alle procedure online e così via. Tutto ciò dovrebbe fare emergere progressivamente gli interessi pre-politici dei soggetti coinvolti per vedere come essi siano in rapporto con l’offerta politica del momento.
Procedure e modelli come questi possono essere adoperati con diversi scopi. Si può pensare che la rappresentanza tradizionale sia definitivamente morta, e che i gruppi online debbano votare volta per volta sui dilemmi politici senza vincoli di lealtà politica precedente e senza coerenza tra una votazione e l’altra. Oppure, più moderatamente, si può ritenere che le forze politiche tradizionali abbiano bisogno di un’iniezione di fiducia per essere rivitalizzate. Comunque la si pensi, la ricerca di nuovi spazi di democrazia deliberativa - tra cui quelli in rete - sembra essere una necessità e non un lusso in momenti di crisi politica.
«Corriere della Sera» del 25 febbraio 2014

22 febbraio 2014

Il sabato a scuola: favorevoli o contrari?

di Carlotta De Leo
Un tempo il sabato a scuola era la regola, alle medie e alle superiori. Anche alle elementari, se non si faceva il tempo pieno. Oggi, con l’autonomia scolastica, ogni consiglio di istituto può decidere – anche con una sorta di referendum tra le famiglie – se optare per la settimana corta. E così il sesto giorno di didattica è sempre più raro, anche per ragioni di budget : non è un caso che la provincia di Milano abbia invitato le 160 scuole del territorio a chiudere il sabato per risparmiare circa due milioni di euro.
Ma oltre l’economia, ci sono altri fattori da prendere in considerazione. oppure continuare con i sei giorni di didattica. «Non c’è una regola assoluta da seguire – spiega Giuseppe Bertagna, docente di Pedagogia dell’università di Bergamo – In linea generale è importante trovare l’equilibrio tra i tempi della scuola, quelli della famiglia e quelli delle relazioni tra pari (regolate dalla scelta autonoma del bambino o dell’adolescente)».
La ricetta migliore, quindi, si basa su autonomia e flessibilità.
«Ci sono diversi fattori da valutare ed è importante che la scelta sia fatta in pool: famiglie , scuole e istituzioni locali – spiega Bertagna – Se mancano i servizi come i trasporti e le mense, se l’edilizia scolastica è carente di spazi all’aperto, allora è impensabile pensare di concentrare l’orario didattico in cinque giorni. Non si può costringere i ragazzi a stare chiusi in aula per sei o sette ore consecutive».
«Quando si parla di organizzazione scolastica si tende a dimenticare cosa sono i ragazzi – aggiunge ggiunge Susanna Mantovani, docente di Pedagogia alla Bicocca di Milano - Sei ore consecutive in classe sono un eccesso di didattica. Tenere un adolescente in classe tutto quel tempo, concentrando la didattica magari e riducendo le ore a 50-55 minuti (con la ricreazione sempre più compressa) è davvero assurdo».
Meglio prolungare il tempo a scuola anche al pomeriggio «garantendo prima di tutto la mensa e poi tutti gli altri servizi. Noi dobbiamo far appassionare i ragazzi allo studio, accompagnarli nella scelta dell’università più giusta. Ma per farlo dobbiamo avere il tempo giusto per valorizzare i loro talenti».
Mantovani lancia una sfida al mondo della scuola: «Ripensiamo l’intera organizzazione partendo dalle reali esigenze dei ragazzi. Occorre ripartire dalle basi, ovvero dagli orari. Ora sono realizzati più in funzione dei professori che degli alunni: e così accade, per esempio, che il lunedì ci siano le materie più toste e il martedì sia un giorno molto leggero. Proviamo a realizzare invece orari equilibrati, con un’alternanza rispettosa degli studenti».
«Corriere della Sera» del 22 febbraio 2014

19 febbraio 2014

Eutanasia e minori: l’assurdità di una legge che scuote le coscienze

di Giovanni Belardelli *
La legge belga che ha esteso ai bambini la pratica dell’eutanasia è di quelle che obbligano a fermarsi per riflettere, che interrogano nel profondo la nostra coscienza. Richiede anzitutto di andare oltre i titoli dei giornali che, per motivi di spazio, hanno scritto di eutanasia dei bambini; mentre la legge si applicherebbe soltanto ai minori che soffrono di una malattia incurabile allo stadio terminale, cui si aggiunga una sofferenza costante e insopportabile.
Quella legge insomma ci chiede di non fermarci alla prima impressione, di non scandalizzarci «in automatico» evocando paragoni grossolani (come il programma hitleriano per l’eliminazione dei bambini disabili). Di provare dunque a immaginare le indicibili sofferenze a cui il legislatore vorrebbe porre fine con la cura terribile e ultimativa della morte. Eppure, per quanto si considerino seriamente le ragioni di chi quella legge ha formulato e sostenuto, credo che vi siano gravi motivi per non essere d’accordo con ciò che contiene.
Un primo, evidente elemento di assurdità della nuova legge risiede nel fatto che l’eutanasia deve essere richiesta dal bambino stesso, a condizione che entrambi i genitori siano d’accordo. Per quanto si sia sostenuta la «impressionante maturità» dei minori allo stadio terminale della malattia, la loro piena consapevolezza resta molto difficile da ammettere. Supponendo che la legge non si applichi ai bambini molto piccoli (ma il testo comunque non contiene alcun limite d’età), è comunque assai arduo accettare che a un adolescente — cui sono vietate un’infinità di cose in considerazione della sua età — venga invece concessa la possibilità di decidere della propria morte.
Il fatto che alla legge fosse favorevole la maggioranza dell’opinione pubblica belga vuol dire, naturalmente, poco. Sia perché, se siamo contrari alla pena di morte, non possiamo certo diventare favorevoli solo perché la maggioranza è favorevole. Sia perché lascia sconcertati la motivazione che starebbe dietro il consenso di molti belgi, favorevoli all’eutanasia per i minori — come riferiva Ivo Caizzi ieri sul Corriere — in quanto vi vedrebbero un’ulteriore estensione delle libertà individuali.
Comunque, per quanto minoritarie, le voci dissenzienti non erano affatto mancate: si erano pronunciati contro la legge sia i rappresentanti delle chiese cristiane e delle comunità religiose islamica ed ebraica, sia — da ultimo — un nutrito numero di pediatri, ciò che avrebbe dovuto suggerire di non procedere a colpi di maggioranza, cercando per giunta di bruciare i tempi del passaggio tra Senato e Camera. Se sono generalmente richieste procedure e maggioranze particolari per cambiare la Costituzione di un Paese, lo stesso dovrebbe valere di fronte ad argomenti particolarmente delicati sotto il profilo etico.
Ma la principale obiezione riguarda l’idea di Stato che è implicitamente contenuta nella legge belga. È discutibile, infatti, che la soluzione migliore per affrontare i pochi casi di cui potrà occuparsi (in Belgio, dove l’eutanasia per adulti è consentita dal 2006, finora vi è stato un solo caso relativo a un ragazzo di meno di 20 anni), fosse proprio quella di una legge. Lo Stato regola già un’infinità di ambiti della nostra esistenza; ma almeno quel terreno di passaggio, che sta tra la vita e la morte di un bambino nella condizione di malato terminale, dovrebbe essere lasciato alla straziata sollecitudine dei genitori e alla compassionevole cura di medici che ormai dispongono di molti modi per evitare l’accanimento terapeutico e la percezione del dolore.

* Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università di Perugia. Le sue opere principali: Il ventennio degli intellettuali, Laterza, 2005; Nello Rosselli, Rubbettino, 2007; Mazzini, Il Mulino, 2010 (2011)
«Corriere della Sera» del 15 febbraio 2014

Sei nei casini? Prendi lezioni da Dante

Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita... Come ha fatto Dante a tirarsi fuori dai casini? Ce lo spiega Matteo Rampin, autore di un libro che paragona i gironi infernali della Divina Commedia ai problemi quotidiani, proponendo soluzione concreta a tutti i vizi che ci complicano l'esistenza
di Paola Scaccabarozzi
Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita. Come ha fatto Dante a tirarsi fuori dai casini? Si può leggere la "Divina Commedia" come un trattato di psicologia moderna? Sì, se i gironi danteschi diventano metafora della nostra psiche. Questa l'idea di Matteo Rampin, psichiatra e psicoterapeuta, autore del libro Nel mezzo del casin di nostra vita? Indizi e tracce per trovare la via d'uscita (Ponte alle Grazie, 12 euro). Il proposito: risolvere trentatré problemi infernali, "i più frequenti intoppi, intralci e inghippi che sorgono nelle relazioni umane, analizzando come si formino e come possano prendere sembianze mostruose ingigantendosi, nonostante i nostri sforzi contrari, fino a renderci la vita un inferno". Il presupposto: la similitudine tra i gironi dell'inferno di Dante e le trappole che noi stessi ci costruiamo nella vita di tutti i giorni: "Come i gironi dell'inferno vedono le anime dei peccatori condannate al contrappasso (al colpevole viene inflitta una pena uguale o simile a quella commessa), noi siamo spesso tormentati proprio da quelle cose che avevamo creduto capaci di renderci felici. Queste trappole perverse funzionano così: ciò che proviamo a fare per uscire dalla trappola è ciò che ci conficca ancora più in fondo a essa. È la teoria delle "tentate soluzioni che mantengono il problema", codificata negli anni '60 dal celebre Mental Research Institute californiano", spiega Rampin. Vediamo qualche esempio pratico:

SESSO, O IL GIRONE DEI LUSSURIOSI
Il primo capitolo/girone si apre con un tema importante: "Del senso del sesso. Dove si scopre a che scopo si scopi". Al centro dell'analisi ci sono i problemi nelle relazioni sentimentali che secondo l'autore hanno matrice biologica, sono cioè legati alla sopravvivenza della specie (corteggiamento, riproduzione, allevamento della prole...). Una delle situazioni più classiche è infatti la crisi di coppia, causata da lui che va in cerca di avventure. Tipica reazione femminile è attaccarsi ancor più al fedifrago manifestando, in alcuni casi, comportamenti di sottomissione che possono sortire effetto opposto a quello desiderato: lui si allontana sempre più, seguendo l'istinto che dice di continuare a rincorrere la preda che fugge. La soluzione, per lei, è quindi smettere di inseguirlo e giocare d'anticipo: se vuole che l'uomo le sia fedele deve rendergli le cose difficili sul piano sessuale, cioè evitare di accontentarlo sempre perché l'uomo è attratto da ciò che non conosce, e perde interesse rapidamente dopo una volta soddisfatta la sua curiosità. "E se lui mi lascia?" chiedono alcune. Succede raramente, e se succede, significa che lui era un inetto, incapace di tollerare la minima frustrazione. Dunque, meglio perderlo che trovarlo.

CARNE & CORPI, O IL GIRONE DEI GOLOSI
Sotto analisi, le inutili fissazioni riguardo al corpo. Un problema frequente di molti è il fallimento sistematico delle diete. Questo accade perché la proibizione di un certo cibo aumenta il desiderio di quell'alimento. Alla fine, il desiderio del proibito si trasforma in una vera e propria ossessione, un tarlo che farà perdere il controllo e riacquistare tutti i chili faticosamente perduti. La soluzione? Inserire regolari momenti di perdita volontaria del controllo, cioè ogni giorno concedersi delle piccole infrazioni alla dieta, per mettersi al riparo da improvvise, ma inevitabili e ben più problematiche perdite soverchianti del controllo.

SANGUE, O IL GIRONE DEGLI IRACONDI
Tema: i problemi connessi all'aggressività. Un esempio noto a tutti è l'escalation di aggressività che si produce quando si discute partendo da posizioni contrapposte. Ma è proprio il voler avere ragione a tutti i costi ciò che ci rende ciechi riguardo alle cose che noi stessi stiamo sostenendo. A un certo punto della discussione ci interessa di più che si dica che abbiamo ragione, rispetto all'avere ragione per davvero. In questo modo, però, ci si irrigidisce sempre più, si perde di vista l'obiettivo della disputa e si arriva allo scontro. L'unico risultato è l'insoddisfazione di tutti i contendenti. L'escalation, invece, si risolve arretrando di un passo, dicendo "hai ragione tu" anche se in quel momento non lo pensiamo, e osservando come, di conseguenza, l'interlocutore cambia prospettiva o atteggiamento. In questo modo riusciamo a smontare anche la nostra aggressività e rabbia con l'enorme vantaggio di ottenere una prospettiva più equilibrata.

SOLDI, O IL GIRONE DEGLI AVARI
Quella che un tempo veniva denominata "avarizia" oggi è la smania di possedere, lo shopping compulsivo, le condotte fanaticamente volte all'accumulo di beni materiali. Si tratta di una trappola perché avere una cosa ci spinge a desiderarne subito un'altra. Evidentemente, il possesso di un bene non rende felici, mentre il desiderio di possederlo dà un'eccitazione che a volte viene scambiata come benessere. Soluzione: essere avari nel concedersi le cose, così le si apprezzerà di più.

DORMIRE, MORIRE FORSE SOGNARE, O IL GIRONE DEGLI ACCIDIOSI
L'accidia è una specie di pigrizia o inerzia che si manifesta sotto forma di disimpegno, sfiducia rinunciataria, o nell'abitudine a rimandare sempre le cose da fare. A proposito di quest'ultima abitudine, la trappola più frequente consiste nel prendersi molto tempo per fare le cose che non si sono fatte quando era il momento. Ma non funziona, anzi: più tempo uno si concede, e meno combina. Il discorso vale anche nello studio. Soluzione: autoimporsi pochissimo tempo a disposizione, meno di quello realmente necessario per portare a termine le cose programmate. Così facendo si riesce finalmente a giungere al dunque.

GLI ALTRI, O IL GIRONE DEGLI INVIDIOSI
Chi prova invidia se ne vergogna e non ammetterà mai di appartenere a questa categoria. In realtà è molto diffusa. Spesso nasce dall'errore di paragonarsi agli altri per avere un metro della propria felicità. Logico che, se ci si guarda attorno, si troveranno sempre persone che sembrano più felici, è una spirale senza fine. Soluzione: rendersi conto che molto spesso le persone che a prima vista sono invidiabili (i ricchi, chi "ha successo") a ben guardare sono anch'essi vittime delle trappole che abbiamo appena elencato perché perennementi insoddisfatti e alla ricerca di una felicità che sfugge loro continuamente di mano. Invidiarle, quindi, non ha senso.

D'IO, O IL GIRONE DEI SUPERBI
Il vizio più "luciferino" è la superbia, l'orgoglio, in termini moderni. Consiste nel prendere il nostro "io" e farne un "dio", sacrificare qualsiasi altra cosa (e persona!) al soddisfacimento delle nostre esigenze. Oggi è molto in voga lo slogan "fai quello che ti senti di fare". Peccato che sia un'illusione pericolosa, perché le cose che ci piacciono e che possiamo fare sono pochissime, dal momento che anche gli altri vogliono fare quelle che piacciono loro. Inseguire se stessi a tutti i costi porta all'egoismo, o al culto dell'ego, che è la fonte di ogni infelicità, perché l'unica cosa che rende felici è liberarsi dalla schiavitù dell'ego. Come farlo? Dandosi da fare per migliorare il mondo: dare una mano agli altri, occuparsi degli altri invece che preoccuparsi di se stessi. Rendere felici, rende felici.
«La Repubblica» del 19 febbraio 2014

15 febbraio 2014

La fede in Rete e la fabbrica delle bufale

Costume
di Alessandro Zaccuri
Vent’anni fa, nel 1994, Internet non era ancora un’abitudine e la posta elettronica stava giusto incominciando ad affermarsi. Eppure già allora bastava una e-mail per diffondere una notizia falsa e farla sembrare vera.
Che notizia, poi: Microsoft ha comprato la Chiesa cattolica, presto sarà disponibile un programma per scaricare in automatico sacramenti e indulgenze, i diritti digitali della Bibbia passano in esclusiva agli inventori di Windows. Incredibile? Certo che sì, ma nondimeno ci credettero in molti, tanto da indurre la stessa Microsoft a pubblicare una smentita ufficiale. Fu, secondo gli esperti, la prima grande beffa mediatica della rete. E fu, non a caso, una notizia di argomento religioso.
Il Vaticano da una parte e l’islam dall’altra, passando per la complessa realtà delle denominazioni protestanti (sempre nel ’94 circolò la voce dell’acquisizione degli episcopaliani da parte di Ibm) e senza trascurare l’ebraismo, né le filosofie orientali: sono, da sempre, i temi prediletti di quelle che in Italia chiamiamo “bufale” e gli anglosassoni, più compassati, definiscono hoax, “mistificazioni”.
Alcune sono così clamorose da commentarsi da sé, altre vengono confezionate con tale abilità da produrre comunque una qualche confusione. Prendiamo il caso del Pontefice emerito. L’anno scorso, nei giorni del Conclave, ci si poteva imbattere abbastanza facilmente in una “rivelazione” in perfetto stile digital-complottista: Joseph Ratzinger è diventato musulmano, ecco perché non è più Papa. D’accordo, qualcuno che ci casca si trova sempre, ma qui occorreva mettersi d’impegno.
Di maggior verosimiglianza godeva invece, almeno a prima vista, un video diffuso in più occasioni, prima a ridosso degli eventi e, più tardi, sotto forma di retroscena per la rinuncia di Benedetto XVI. Le immagini, raccolte a Berlino nel settembre del 2011, avrebbero mostrato una serie di non meglio identificati “vescovi” che si rifiutavano di stringere la mano al Papa. Peccato che si trattasse della delegazione pontificia, che lo stesso Ratzinger stava presentando al presidente Christian Wulff durante la visita in Germania.
«Internet diffonde informazioni scorrette, ma fornisce anche i mezzi per scoprire il trucco e ristabilire la verità», osserva il direttore di Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, autorità riconosciuta nel campo della cyberteologia. I più intraprendenti possono effettuare le verifiche per conto proprio, altrimenti non c’è che l’imbarazzo della scelta fra i diversi siti deputati allo smascheramento dei falsi. Il più conosciuto a livello internazionale è probabilmente Snopes.com, mentre gli internauti di lingua italiana sono affezionati alle dettagliate precisazioni del “disinformatico” Paolo Attivissimo, giornalista italo-britannico di stanza a Lugano (attivissimo.blogspot.ch).
Sul fronte opposto non mancano i fenomeni che, emersi inizialmente in rete, hanno successivamente goduto di discreta fortuna su altri media, come nel caso dell’ineffabile Adam Kadmon, l’esoterista mascherato che impazza tra YouTube e tv generaliste con le sue ipotesi fanta-spirituali e, in sostanza, anti-cristiane.
Più di frequente le bufale religiose nascono nel web e nel web muoiono: il telepredicatore americano Joel Osteen che annuncia di aver perso la fede, l’attore Rowan Atkinson (il famoso Mr. Bean) che abbraccia l’islam, il presidente Obama che decide di proclamare un mese per l’orgoglio musulmano negli Usa... secondo il sociologo francese Pascal Froissart provocazioni di questo tipo vengono concepite come una sorta di test sull’opinione pubblica. «Il falso – spiega lo studioso – non è la causa, ma il sintomo di un conflitto interculturale già in atto e che scatena una profusione di commenti ostili e xenofobi verso le comunità differenti, quali esse siano».
Velleitarie ambizioni satiriche, incomprensioni in malafede e desiderio di inquinare il dibattito pubblico sono gli elementi che si ritrovano anche nelle mistificazioni, sempre più frequenti, ai danni di papa Francesco. Le prime, com’è noto, si sono manifestate a pochi minuti dall’elezione e riguardavano il presunto coinvolgimento del cardinal Bergoglio nelle tenebrose vicende della guerra sucia argentina.
La montatura è stata contestata punto su punto da Nello Scavo nel best seller La lista di Bergoglio (Emi). I falsari, nel frattempo, hanno aggiustato il tiro e adesso sul web si sbizzarriscono in deliranti interpretazioni a proposito del crocifisso e del simbolo pontificio, nel quale si anniderebbero arcane simbologie massoniche.
Ai primi di dicembre, inoltre, il sito Diversity Chronicle ha diffuso un surreale documento in cui Francesco dichiarava che «tutte le religioni sono vere, perché tali sono nel cuore di quanti credono in esse». La Bibbia? Affascinante ma datata. L’inferno? Abrogato per rispetto dei diritti umani. E via di questo passo. Reazioni a catena in rete, di volta in volta scandalizzate o entusiastiche.
Peccato che pochissimi abbiano fatto caso alle prime righe dell’articolo, nelle quali si spiegava che il Papa avrebbe pronunciato il discorso a chiusura del Concilio Vaticano Terzo. Va bene che il web è sempre avanti, ma quaggiù, nel mondo reale, siamo rimasti al Vaticano Secondo.
«Avvenire» del 15 febbraio 2014

Foibe, la censura continua?

L'anniversario
di Paolo Simoncelli
C’è una faziosità atavica nella cultura politica che, comprensibilmente, di­venta rancore ottuso al momento in cui l’accer­tamento storico-critico investe il Moloch irragio­nevolmente granitico e violento della 'vul­gata' resistenziale.
Un’isteria e un’insistenza banalmente pro­vocatoria dell’affronto si risveglia in due cir­costanze: al ricordo dell’eliminazione, ad opera di partigiani comunisti, dei partigia­ni cattolici della «Osoppo» a Porzus nel feb­braio 1944, uomini colpevoli di difendere territorio e popolazioni italiane dal disegno annessionistico titino; e il ricordo dei mas­sacri degli italiani della Venezia Giulia, I­stria, Dalmazia, da parte dei titini nel set­tembre 1943 e dalla primavera del ’45.
La firma del Trattato di pace, imposto all’I­talia dai vincitori (che non tennero il mini­mo conto della «cobelligeranza», delle for­ze della Resistenza, eccetera) il 10 febbraio 1947, non fu privo di reazioni negative, an­che da parte di esponenti antifascisti che vanamente si opposero a quelle clausole. Seguì l’esodo di 350 mila italiani dall’A­driatico orientale; quegli antichi filmati in bianco e nero che mostravano lo sradica­mento violento di radici culturali e socio­economiche, e lo spezzamento di famiglie tra giovani che potevano ancora aspirare alla vita e anziani condannati alla non spe­ranza nel regime comunista slavo, sono sta­te allora interpretate come testimonianze di fascismo o revanscismo da parte di quanti non accettavano un’analisi storica artico­lata di quelle vicende. Un progressivo mo­nopolio ideologico-culturale assolutizzan­te fino a controllare la memoria storica e le relative fonti di diffusione, con la compli­cità opportunistica e vile di un’intera clas­se politica, impose il silenzio.
Nelle foibe, testimonianze atroci di pulizia etnica anti-italiana (in cui persero la vita decine di migliaia di italiani), furono preci­pitate allora le testimonianze e la memoria dei reduci, dei sopravvissuti, degli scampa­ti. Achille Occhetto ha dichiarato pochi gior­ni fa di aver «appreso del dramma delle foi­be solo dopo la 'svolta della Bolognina'. Prima non ne ero mai venuto a conoscen­za »; testimone con ciò dello straordinario successo dell’operazione-silenzio. Occor­sero 70 anni per giungere a riparlarne fuo­ri dai piccoli, riservati circuiti degli esuli. Giusto dieci anni fa, il Parlamento votò pressoché all’unanimità la legge 92/2004 che dedicava il 10 febbraio, ricorrenza del­la firma del Trattato di pace, alla «memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giulia­no-dalmata, delle vicende del confine o­rientale ». Apparvero timide lapidi di ricor­do e qualche via o parco intitolato alle vit­time delle foibe; lapidi subito infrante: alto il rischio di ricordare, anche da semplicissime righe, che l’impianto ideologico co­struito e imposto a difesa dell’indifendibi­le non poteva consentire di sbirciare oltre l’epicizzazione comunista, meno che mai accertare fatti tramandati da lapidi e mo­numenti falsi, medaglie con motivazioni fa­risaiche, in un sistema complesso di rigo­rosa vigilanza ideologica interna e internazionale.
Sperimentato persino dal presidente Na­politano che, coraggiosamente, in occasio­ne del suo primo «Giorno del Ricordo» ce­lebrato da capo dello Stato, ricordò quelle «miriadi di tragedie e di orrori» conseguenti a «un disegno annessionistico slavo», richiamando all’assunzione della «responsa­bilità dell’aver negato, o teso ad ignorare, la verità». Seguirono reazioni insultanti del­l’allora presidente croato Mesic, capace di scorgere in quelle parole «elementi di a­perto razzismo, revisionismo storico e re­vanscismo politico». Nient’altro!
Oggi, di fronte all’accettazione diffusa d’u­na realtà non più silenziabile (malaugurato crollo del muro di Berlino!), cambia il metodo: ciò che non è più nascondibile va allora ascritto alle precedenti responsabilità fasciste, talmente gravi e violente da giu­stificare una reazione slava. Ma se ne sono accorti solo ora? Perché non dirlo nei de­cenni del silenzio forzoso? Allora è stato si­lenziato persino l’antifascismo. Comunque attenzione: che il poi sia deter­minato da un prima non cronologico ma causale l’aveva detto anche Nolte, denun­ciando il nazismo come reazione al comu­nismo e il lager come conseguente al gulag. Non ebbe vita facile, ma può contare ora su un po’ di attardati seguaci. Basta, comun­que, col mito degli «italiani brava gente» (anche se occorrerà reinterpretare Nuto Re­velli, il quale incautamente ricordava che in guerra, nell’Unione Sovietica di Beppe Stalin, i soldati tedeschi presi prigionieri ve­nivano fucilati sul posto, gli italiani avviati ai lavori forzati).
Simone Cristicchi, da sinistra, dà vita ad u­no spettacolo toccante, dedicato alle speranze estreme e alle vite degli esuli italiani racchiuse in qualche scatolone ammassa­to a Trieste nel «Magazzino 18»; grande pathos e grandi riconoscimenti critici; be­ne, immediate proposte perché gli venga ri­tirata la tessera ad onore dell’Anpi. E allo­ra altrove va in scena Io odio gli italiani, pié­ce sulla drammatica vita nei campi di con­centramento italiani da Gonars ad Arbe (chissà se anche sulle testimonianze degli ebrei qui internati?). Iniziative sospette di puntuale opportunismo, utile a creare il «caso» e dunque a godere di qualche ri­chiamo di cronaca, e di banale prevedibi-­lità, che testimoniano del successo del «Giorno del Ricordo»; come una lapide in­franta: al silenzio lacerato segue la violen­za. Hanno perso.
«Avvenire» dell'8 febbraio 2014

Droga, sentenza ed esagerazioni

La Fini-Giovanardi "cancellata" dalla Consulta
di Danilo Paolini
Più volte abbiamo documentato, sulla base di evidenze scientifiche, che non esistono droghe classificabili come "leggere". Tanto più oggi, che i processi di modificazione genetica consentono ai boss dello spaccio internazionale di immettere sul mercato marijuana e hashish con un principio attivo più forte rispetto ai tempi dei "figli dei fiori". È utile partire da qui per commentare la sentenza con la quale ieri la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima una parte della legge cosiddetta Fini-Giovanardi. Già, perché la valanga di reazioni positive e perfino festanti che ha accolto la decisione della Consulta potrebbe far confondere le origini con le conseguenze della stessa. I giudici costituzionali, su ricorso della terza sezione penale della Cassazione, non hanno infatti stabilito che la produzione, la detenzione e la cessione di sostanze "leggere" e "pesanti" vanno punite in maniera diversificata. Questa è una delle conseguenze pratiche del verdetto, causa la reviviscenza di alcune norme della precedente legge Jervolino-Vassalli.
Ma in realtà, sotto il profilo giuridico, la Corte ha "bocciato" il legislatore di allora, per avere inserito commi non omogenei per materia nella legge di conversione di un decreto nato in occasione delle Olimpiadi invernali di Torino del 2006. Il fatto è che le due norme impugnate dalla Cassazione (tra le tante relative alle droghe) riguardavano proprio la classificazione delle sostanze, quindi il bersaglio era dichiarato e il difetto di forma è stato solo il dardo giuridico per centrarlo. Anche perché, a leggerlo con le lenti della coerenza delle materie trattate, quel decreto (e molti altri...) sarebbe quasi per intero a rischio di incostituzionalità. Spacciare stupefacenti, comunque, resta un reato ed è ardito affermare che l’Italia ha compiuto un passo verso la legalizzazione delle droghe "leggere".
Eppure è proprio ciò che hanno fatto ieri alcuni politici. Eppure c’è chi ha gridato «finalmente!» perché «non si può andare in carcere per uno spinello». Come se le celle fossero piene di gente pizzicata con «uno spinello». Come se non esistesse la sentenza della Cassazione di un anno fa (a sezioni penali unite) sull’«irrilevanza penale» del consumo di gruppo o le numerose altre, della stessa suprema Corte, che hanno via via esteso il concetto di «uso personale» di stupefacenti quasi all’inverosimile. Ci sono poi limiti impossibili da oltrepassare con la sola discrezionalità del giudice, perciò si fa ricorso alla forma per ricavarne la sostanza. Per intenderci, il caso da cui ha preso le mosse la sentenza di ieri è quello di un signore condannato a 4 anni di reclusione perché trasportava 3 chili e 800 grammi di hashish. Un po’ troppi per un solo spinello.
«Avvenire» del 13 febbraio 2014

Quando la rete diventa una trappola per giovani

di Luigi Ballerini
Il suicidio non è mai una soluzione, semmai è proprio la decisione che preclude ogni possibile soluzione, che impedisce ogni altra mossa. Eppure alla quattordicenne di Padova che domenica scorsa si è lanciata nel vuoto mettendo fine alla sua giovane vita, quel gesto deve essere apparso come una soluzione.
Non è solo una storia di solitudine, questa, è più che una storia di solitudine. La ragazza era infatti in pessima compagnia. Già altre volte aveva manifestato le sue intenzioni sulle pagine virtuali del social network Ask.fm e proprio lì aveva incontrato coetanei che l’avevano incitata ad andare avanti, a non desistere dai suoi propositi di annientamento. Era peggio che sola, aveva compagni virtuali che le scrivevano «fai schifo come persona» e «ucciditi». Compagni anonimi, beninteso, perché Ask funziona così: tutti possono dire di tutto senza mostrare la faccia, nascondendosi dietro a uno pseudonimo. C’è la complicità di un certo modo di vivere la rete in questa morte, di alcuni utenti della rete che l’hanno utilizzata per il peggio andando a infierire su una ragazza già fragile e disorientata.
Ieri ricorreva il «Safer Internet Day», la giornata per una rete senza rischi. E proprio di uno scorretto uso di Internet da parte dei giovani si occupa il recentissimo studio che il Moige, il Movimento italiano dei genitori, insieme all’Università Lumsa ha promosso su un campione di circa mille studenti delle scuole elementari, medie e superiori. Sei ragazzi su dieci hanno ammesso di fare sexting (neologismo dato dalla combinazione di sex e texting), ossia di scambiare foto e video on line a sfondo sessuale.
Nove minori su dieci navigano in rete quotidianamente e il 18% afferma di trascorrere on line più di tre ore al giorno (con l’8% dei bambini che hanno meno di dieci anni connessi a internet per più di cinque ore). E a proposito di "compagnie" apprendiamo che il 26% dei ragazzi intervistati ha dichiarato di utilizzare la rete per fare nuove amicizie e che l’8% possiede più amicizie nel web che nella vita reale.
Tale quadro sostanzialmente conferma i dati che sono emersi dall’indagine su «Le abitudini e gli stili di vita degli adolescenti» della Società Italiana di Pediatria che dal 1997 fornisce un interessante spaccato di vita dei nostri ragazzi. L’ultimo report del 2013, che ha analizzato un campione nazionale rappresentativo di 2.081 studenti frequentanti la terza media, ha documentato che il 69% dei ragazzi si connette ogni giorno a internet e che il 17% ci passa più di tre ore. Inoltre il 79,8% ha un profilo Facebook aperto, il 21,5% ha postato in rete foto e filmati fatti da sé e l’11% ha pubblicato una immagine di sé "provocante".
Se da una parte non possiamo vivere di anacronismi – pensando che i ragazzi non debbano stare in rete e sottovalutando le potenzialità della tecnologia – dall’altra è bene, come adulti, riflettere su ciò che sta succedendo, perché se si verificano certi comportamenti un motivo c’è e vale la pena provare a scoprirlo. I social network possono offrire ad alcuni l’illusione di non essere mai soli, e permettono di non passare per quel buon compromesso, quelle obbligazioni e quelle mediazioni che una relazione reale inevitabilmente chiede.
In Facebook è tutto immediato e in certa misura più facile: posso prendere e mollare un altro con un click, senza dover dare spiegazioni né ragioni, in modo istantaneo. In quel non-luogo che è la rete ci si può anche circondare di soggetti che la pensano esattamente come noi, evitando ogni confronto - spesso costruttivo - con chi la vede diversamente. Si elimina così il contraddittorio, il dibattito, resta solo il consenso. La ricerca di tale consenso assume poi la forma tirannica del pollice su, del "mi piace".
Pur di collezionare il maggior numero possibile di "mi piace" da parte dei propri contatti alcuni diventano disposti a tutto, persino a postare foto e video che non vorrebbero mai veder pubblicate sulla prima pagina di un quotidiano, ma in rete sì, perché in rete si diventa più disinibiti, la mancanza di prossimità fisica risparmia l’impatto diretto con l’altro e il suo giudizio.
Assistiamo pertanto a un grande paradosso: siamo sempre più connessi per sentirci meno soli e contemporaneamente diventiamo sempre più soli. Per alcuni si genera tale circolo vizioso in cui il virtuale presso cui ci si rifugia per scampare alla solitudine diventa il fattore stesso che la promuove. Una volta fatto fuori l’altro reale della relazione, con le sue caratteristiche e i suoi connotati ben precisi, ci si accontenta anche di un altro qualunque, che persino nel pieno anonimato assume una potenza incredibile.
Pensiamo al social network Ask, che proprio dell’anonimato ha fatto la sua ragion di esistere. Come può essere importante il parere su di me da parte di chi non so nemmeno chi sia? Come posso continuare a cercare conferme? Eppure gli iscritti mondiali sono tra i 60 e i 70 milioni, con l’Italia che risulta tra i principali utilizzatori, assieme a Brasile, Turchia e Stati Uniti. Secondo cifre non ufficiali Ask pare frequentato da più di un milione di nostri adolescenti e questo numero è ancora in crescita.
Dimmi se ti piaccio, molti chiedono angosciati a un altro ignoto. Anzi, dimmi che ti piaccio. E se la sua risposta è positiva si esaltano, se negativa si deprimono, fino a forme estreme di scoraggiamento come quelle che poi diventano tristi fatti di cronaca. Ma noi siamo fatti così: non possiamo fare a meno di un altro, non possiamo prescindere dall’altro. Se non c’è - o se attivamente facciamo in modo che non ci sia - lo dobbiamo allucinare o inventare o ricercare dove sembra nascondersi.
L’aiuto ai più giovani, quando ne hanno bisogno, parte proprio da qui, dal recupero del reale, certi della sua potenza e della sua prevalenza sul virtuale. Occorre allora incoraggiare i loro passi nel reale, sostenerli, favorire la loro iniziativa e intraprendenza, mentre talora abbassiamo le loro aspettative anche noi adulti prede di una visione cinica della vita.
E se questo loro movimento fatica ad avviarsi, tocca a noi proporre e offrire prospettive e mete interessanti, luoghi reali dove poter fare esperienza del vantaggio della presenza di un altro con cui trafficare, magari anche litigare, dentro un rapporto che coinvolga tutto il corpo, fatto di sensazioni, movimenti e pensieri. Una volta presente un reale interessante e coinvolgente, il virtuale si metterà senza obiezioni al suo servizio, si sottometterà cosicché non dovremo temere più nulla. Le potenzialità verranno volte alla costruzione, non alla distruzione, e i rapporti, concreti e sensibili, ne potranno beneficiare per il meglio.
«Avvenire» del 12 febbraio 2014

La famiglia manipolata: preistoria non futuro

Una sentenza nello Utah
di Carlo Cardia
Prosegue qua a là, in Occidente, una destrutturazione del matrimonio che segue linee spezzate ispirate a una irragionevolezza evidente. Una delle ultime novità è venuta dallo Stato americano dello Utah, a maggioranza mormone, in cui la Corte distrettuale ha legittimato nel dicembre 2013 la poligamia di fatto, rinviando la possibilità di un suo pieno riconoscimento giuridico.
Secondo la dottrina del fondatore Joseph Smith, i mormoni nel primo Ottocento ammettono la poligamia (perché esisteva in epoca biblica, ed era stata confermata dalle rivelazioni di Smith); e cominciano a praticarla nel territorio dello Utah prima della sua costituzione in Stato nell’ambito degli Usa. Tra il 1880 e il 1890 il governo federale impone di abolire la poligamia, e il profeta Wilford Woodruff anche in seguito a una nuova visione la proibisce nel 1890. Da quel momento la comunità mormone adotta una linea severa contro il matrimonio plurimo, anche per l’impopolarità che suscita nella popolazione; però una poligamia strisciante (cioè una malcelata coabitazione) si mantiene in gruppi di mormoni integristi. Se questi sono i precedenti, la novità del 15 dicembre è determinata da tutt’altre circostanze, dal momento che in un processo per poligamia a carico di una star televisiva la difesa ha ottenuto di veder discussa la questione di merito adducendo particolari considerazioni: il principio di libertà religiosa ha consentito nel tempo di superare alcuni divieti penali, inoltre l’istituto del matrimonio è profondamente mutato in alcuni ordinamenti occidentali, al punto che oggi ne fruiscono anche i gay.
Non si vede, si è concluso, perché esso non possa estendersi, anche per motivi religiosi, a chi intende praticare la poligamia, presente nell’antica tradizione ebraica, e applicata nel mondo islamico dalla sua fondazione sino ad oggi. La Corte ha sostanzialmente recepito le osservazioni della difesa, rilevando che è pur sempre la legge dello Stato a definire sostanza e caratteri del matrimonio, ed essa oggi lo prevede monogamico. Però, la sanzione penale è divenuta obsoleta a causa dei cambiamenti dell’istituto del matrimonio, divenuto nel frattempo più flessibile e permeabile, rispetto al passato, e per differenze di religione che ricevono crescente tutela. Di conseguenza, superato il profilo penalistico, la poligamia può essere praticata di fatto: la legge, se lo riterrà, potrà un giorno ammetterla e disciplinarne condizioni e conseguenze.
Forse è questa la ragione per la quale, con poche eccezioni, la vicenda dello Utah non è stata commentata in Italia e in Europa come meritava, almeno per la sua potenzialità espansiva: essa tocca un nervo scoperto per ordinamenti che tendono a manipolare in diversi modi il matrimonio e la famiglia, fino a prevedere l’adozione di minori per coppie gay, e si trovano chiamati in causa per una possibilità che farebbe tornare indietro le lancette della storia in ordine al principio di eguaglianza tra uomo e donna. Bisognerebbe riconoscere che la lenta dissoluzione che sta investendo il matrimonio nella cultura (anche giuridica) occidentale determina una mutazione genetica della famiglia naturale: se si segue il filo rosso che unisce la procreazione fuori dell’alveo naturale al cosiddetto "divorzio breve", al matrimonio gay, alla adozione per chiunque, si scorge che tutto ciò finisce per rendere il matrimonio una sorta di porta girevole dalla quale entra ed esce chi vuole, quando e come vuole.
È venuta meno ogni coerenza antropologica con i diritti dell’uomo, della donna, soprattutto dei figli che subiscono la confusione affettiva ed educativa che deriva dai vari modelli, a cominciare da quelli che prescindono dalla complementarietà maschile e femminile.
Stiamo assistendo a un corto circuito, una sorta d’impazzimento del sistema, che porta alla metamorfosi del matrimonio e della famiglia rispetto alle qualità naturali della persona. In aggiunta, mentre i diritti umani hanno guidato e favorito l’evoluzione e la crescita dei diversi soggetti, oggi ci troviamo di fronte a una specie di torre di Babele nella quale ogni manipolazione normativa provoca la violazione dei diritti delle diverse parti: dei minori nella procreazione extranaturale e nell’adozione gay, della donna nella prefigurazione poligamica, della famiglia nel caso del divorzio breve. Si rischia di tornare alla preistoria dei rapporti interpersonali, quando si lasciava campo libero a ogni scelta senza cercare di favorire la crescita umana e solidale delle aggregazioni elementari della società. Registriamo, insomma, un formidabile regresso sulla linea dell’evoluzione della tutela della persona, e il caso dell’Utah dovrebbe suggerire una seria riflessione sui rischi di manipolazione e stravolgimento di meccanismi strutturanti per la società e la vita collettiva.
«Avvenire» del 13 febbraio 2014

Eutanasia minori, la dimensione nuova di un duro potere

Belgio
di Francesco D'Agostino
Dobbiamo ancora una volta scendere nei particolari e mostrare le tante, diverse, vere e proprie aberrazioni che caratterizzano la legge belga sull’eutanasia pediatrica? Sono mesi e mesi (anzi, anni ed anni) che vengono sistematicamente e analiticamente denunciati i rischi di una legalizzazione dell’eutanasia, senza che si siano ottenute risposte significative, ma solo le più svariate forme di indifferenza. Questa indifferenza sulle prime potrebbe essere interpretata come segno di una assoluta mancanza di volontà dialogica: cosa particolarmente grave, in un sistema culturale, come quello secolarizzato, che assume a proprio vanto il pluralismo ideologico e valoriale, l’attenzione e il rispetto per tutte le visioni del mondo e per i più diversi stili di vita e soprattutto l’antidogmatismo. In realtà, questa indifferenza ha una valenza ben più grave, che è in genere poco percepita e che proprio per questo va risolutamente alla luce. Essa è il segno esplicito – un segno che più esplicito non si potrebbe immaginare – del fallimento della bioetica.
Comunque infatti la si voglia mettere a fuoco o definire, è un fatto che la bioetica, come orizzonte di riflessione interdisciplinare sulla vita, è nata dall’esigenza di dare una risposta ragionata, condivisa e soprattutto non ideologica alle nuove sfide poste nella nostra epoca dal progresso della biomedicina. In pochi decenni si sono moltiplicate le cattedre di bioetica, le e è entra associazioni nazionali e internazionali nonché i comitati di bioetica, i libri e le riviste formalmente dedicati a questa disciplina. L’interesse per la bioetica e i processi di globalizzazione si sono sviluppati di pari passo. Si è consolidato un lessico, si sono oggettivati paradigmi, si sono strutturate scuole di pensiero. Con quale esito? Con quello che abbiamo sotto gli occhi. In primo luogo, il pieno rovesciamento dell’etica medica, che – abbandonato il principio ippocratico della difesa della vita – affida ormai al medico, accanto alle tradizionali funzioni terapeutiche, le nuove e ben più sottili funzioni di avviamento alla morte. In secondo luogo, la cristallizzazione (probabilmente irreversibile) di nuove forme di ipocrisia. È ipocrisia presentare come nobile forma di ossequio alla volontà del paziente la decisione di sopprimerlo (decisione motivata il più delle volte da ragioni economiche, pubbliche o private che siano). È ipocrisia sostenere (come fa la nuova legge belga) che un bambino possa chiedere l’eutanasia liberamente e consapevolmente, senza cioè essere indotto o comunque suggestionato dall’atteggiamento dei genitori o dei medici nei suoi confronti.
È ipocrisia minimizzare il rilievo statistico dell’eutanasia pediatrica, come se la questione fosse appunto meramente statistica e non piuttosto etica e simbolica. Ma accanto al rovesciamento dell’etica medica e alle diverse forme di ipocrisia che questa legge cristallizza, c’è un ulteriore esito che ad essa sarà inevitabilmente da ricondurre. La legge chiede l’assenso dei genitori alla soppressione del bambino malato! Mi chiedo chi avvertirà quanto di malsano c’è in questo principio, che, sotto l’apparenza di rispettare il prioritario interesse dei genitori verso i bambini da essi messi al mondo, in realtà formalizza la forma più cieca di potere che un essere umano possa avere verso un altro essere umano, quello di decidere in forma ultimativa sulla sua vita.
Da più di due millenni nella tradizione giuridica occidentale lo jus vitae ac necis, il diritto di vita e di morte del padre sui figli, appariva cancellato come barbarico e immorale. Ora viene reintrodotto e per di più in forma politicamente corretta, perché non viene attribuito più solo al padre, ma congiuntamente al padre e alla madre. Qualche amante della casistica si è già posto la domanda su quale dovrebbe essere la volontà prevalente, ove i genitori siano di diverso avviso e l’uno indichi la morte e l’altro la vita per il bambino. Ma il solo lasciarsi coinvolgere in un dibattito di tale natura è sconfortante. Cosa hanno detto, cosa stanno dicendo, cosa diranno i bioeticisti, le associazioni, i Comitati di bioetica sull’eutanasia pediatrica? Probabilmente nulla: ci troveremo ancora una volta davanti a un silenzio assordante. La bioetica è fallita, è fallita da tempo e per di più senza che nessuno se ne sia reso conto. Quella che doveva essere pensata come etica della vita si è trasformata in un’etica del potere: il potere di chi vuole creare artificialmente e a suo piacimento la vita in provetta, di chi vuole artificialmente e a suo piacimento manipolarla, e di chi pretende, sempre a suo piacimento e artificialmente, sopprimerla. A chi si fosse illuso che nel mondo contemporaneo attraverso la bioetica si stesse aprendo una nuova fase della coscienza morale dell’umanità, la legge belga dovrebbe aprire definitivamente gli occhi. Ciò che si è aperto davanti a noi e nelle forme più dure e imperative, quelle della legge, è semplicemente una nuova e inaspettata dimensione del potere. Chi credeva che la vocazione della bioetica fosse quella di elaborare nuove forme di difesa della vita deve ormai ricredersi: la bioetica sta diventando (e probabilmente è già diventata) la forma più sottile della burocratizzazione legalistica del morire.
«Avvenire» del 14 febbraio 2014

12 febbraio 2014

Più attenti per salvare lo studio a scuola

Dibattito
di Daniele Zappalà
Negli ultimi anni, il dibattito fra "apocalittici" e "integrati" sull’impatto cognitivo e sociale della rivoluzione digitale ha preso tante strade, sfociando talora in pantani zeppi di stereotipi stucchevoli. Ma quando la controversia tocca la scuola e gli effetti dell’immersione quotidiana nella "blogosfera" e nel "cyberspazio" sulle capacità di apprendimento dei ragazzi, la platea degli interessati si allarga. Nei periodi di mutazione tecnologica, ricordano gli storici, dopo il clangore iniziale fra le utopie dei "pionieri" e il catastrofismo di accesi conservatori, un confronto più lucido e sano può spiccare il volo.
Così, da qualche tempo, replicando all’entusiasmo dei teorici dell’"intelligenza collettiva" propiziata da Internet e della futura "scuola iperconnessa", gli esperti di scienze dell’educazione cominciano ad uscire allo scoperto con argomenti circostanziati anche all’insegna dello scetticismo. È il caso del francese Philippe Meirieu, docente universitario a Lione e autore di saggi sulla pedagogia tradotti in molte lingue, il quale ha appena denunciato una «scuola in preda alla distrazione" in un lungo intervento sulla prestigiosa rivista "Esprit", fondata da Emmanuel Mounier.
Le tecnologie a scuola sono un bene? Possono divenirlo, risponde Meirieu, ma solo a condizione di elaborare una «necessaria pedagogia dell’attenzione». Quest’ultima, per lo studioso, s’impone ormai come la principale posta in gioco per garantire una transizione felice ed evitare di dilatare al contrario certe fessure già oggi ben visibili: «La minaccia sulla scuola non viene più, prevalentemente, da una sovversione brutale del modello, ma da una sorta di crollo interno di ciò che permetteva all’istituzione – persino all’insaputa dei suoi attori – di perpetuarsi: l’attivazione psichica dei soggetti che la frequentano sugli oggetti che essa propone loro». Fra l’altro ciò accade nel momento in cui la scuola (e i docenti in primo luogo) fa di tutto per avvicinare l’insegnamento alla realtà quotidiana e ai problemi della vita contemporanea.
Si tratta di una sfida quotidiana che può spiazzare gli insegnanti alle prime armi, i quali «paiono soverchiati dai comportamenti incontrollabili dei loro studenti, dalla loro distrazione permanente che anche la trovata più originale non riesce ad annullare per più di qualche secondo». Per Meirieu, rischia così di prodursi a scuola quanto avviene già da tempo nella fruizione televisiva. La tendenza allo zapping degli spettatori spinge vieppiù sceneggiatori e programmatori a replicare con una sorta di "contro-zapping", rompendo e talora stravolgendo i canoni drammaturgici tradizionali.
Citando anche studi sperimentali internazionali come quelli dell’americana Khaterine Hayles, Meirieu sottolinea il progressivo deterioramento di quell’«attenzione profonda» sulla quale un tempo la scuola puntava in vista di traguardi intellettuali ritenuti "alti", come l’immersione nelle grandi opere letterarie o la contemplazione dei capolavori artistici. Attività che, grazie a un allenamento mentale costante, potevano pure divenire, per non pochi studenti, fonti profonde di piacere. Ma oggi, per il saggista francese, le premesse di base di questa ginnastica mentale sono a rischio.
Le reazioni più frequenti dei docenti a un simile scenario nuovo e fluttuante sono di quattro tipi. C’è chi aumenta le cadenze e cerca di "compensare", rischiando così lo sfinimento. Altri adottano uno stile d’insegnamento più severo, se non minaccioso. In altre scuole, si preferirà invece fare maggior ricorso a insegnanti di sostegno o altre figure previste normalmente in casi eccezionali, orientando ad esempio i genitori verso strutture private di doposcuola. In un certo senso, in questo caso, si accettano come studenti "normali" solo quelli già riconosciuti ad un livello potenziale che in realtà la scuola dovrebbe considerare come proprio traguardo. Si cede dunque alla «tentazione di trasformare gli obiettivi della scuola in premesse», con possibili effetti deplorevoli all’insegna di un chiuso elitismo, se non dell’esclusione. L’ultima soluzione, eticamente auspicabile ma concretamente difficile, è quella di forgiare una pedagogia dell’attenzione.
Secondo Meirieu, quest’ultima via di uscita può poggiare solo su un rapporto vero e stimolante dell’insegnante con il sapere. L’arte di far apparire quest’ultimo come una «fonte di molteplici possibili soddisfazioni» dovrebbe in teoria far parte della vocazione stessa di ogni insegnante. Ma oggi, anche quando questa nobile disposizione è presente, rischia di non bastare. Occorre pure saper nutrire e far crescere di continuo, giorno dopo giorno, una motivazione realmente condivisa. Sta proprio qui, secondo Meirieu, la fonte viva per irrorare l’attenzione profonda degli studenti. E in fondo, pure la via per trasmettere ai ragazzi il gusto di «offrire tempo al pensiero», il piacere dell’accesso al simbolico, la bellezza della creatività.
«Avvenire» dell'11 febbraio 2014

05 febbraio 2014

Le quattro regole per far leggere i giovani

di Florence Noiville
In Francia, come credo in Italia, e nella maggioranza dei paesi eu­ropei la situazione è difficile. Al­meno per 4 motivi: 1) Il gusto del­la lettura cala nel corso del tem­po. Nel 2002 leggere era al terzo posto (40%) dietro 'fare sport' (75%) e 'praticare un’attività artistica' (54%). Nel 2010, la lettura si collocava sempre al terzo posto, ma aumentava lo scarto rispetto alle due attività che lo pre­cedevano. Nel 2012, il posizionamento della lettura è peggiorato passando al quarto posto tra le attività preferite (ma assai più indietro rispetto a stare al com­puter, ascoltare musica e praticare sport); 2) Ragazze e ragazzi non hanno gli stessi comportamenti rispetto alla lettura. Nel­l’insieme i ragazzi leggono meno. Que­sta femminizzazione della lettura esiste fin da piccoli, ma lo scarto reale avviene soprattutto nei ragazzini a partire dagli 11 anni, quando entrano alle scuole me­die. In altri termini, quando ci poniamo l’interrogativo: 'I giovani di oggi saranno i lettori di domani?', dobbiamo sapere che ragioniamo già su metà della popo­lazione giovanile, cioè sulla popolazione femminile e non su quella maschile. Si tratta, a mio parere, di un problema rea­le; 3) La posizione simbolica della lettu­ra dei libri nel mondo sociale è venuta meno. Le élite letterarie sono state sop­piantate dalle élite tecnico-commerciali ; cioè leggere non 'apporterebbe' più al­cun vantaggio. Nella testa del pubblico «l’investimento non dà abbastanza ren­dimento ». Per i giovani leggere è uno sfor­zo. E in un mondo dominato dalla reddi­tività, leggere non è abbastanza 'redditizio' rispetto all’investimento attuato. Grossomodo, si dice: «Non è perché leg­go che me la caverò nella vita»; 4) Infine, chi dice lettura dice lentezza, solitudine, immersione e soprattutto attenzione. «In uno spazio pubblico saturo di tecnolo­gie si esaurisce l’attenzione»: è questo il grido di allarme che ha lanciato il filosofo americano Matthew Crawford su Le Mon­de del 27 luglio 2013.
Continuamente sollecitati dai nostri smartphone e dai nostri pc, siamo tutti ­e in particolare i giovani - ipercollegati. Capaci di guardare la televisione e, simultaneamente, di parlare con gli amici con sms o su Facebook e di giocare su un tablet, diamo l’impressione di praticare agevolmente il multi-tasking.
Oppure questo sentimento di grande competenza che il multi-tasking può su­scitare in noi è ampiamente illusorio. In realtà - ed è provato da studi scientifici -, l’invasione degli schermi, della musi­ca diffusa dagli altoparlanti o della pub­blicità che attirano incessantemente il nostro sguardo o sollecitano il nostro u­dito indebolisce considerevolmente le nostre capacità di attenzione e di con­centrazione.
La questione che si pone è allora: come agire per fare ripartire la macchina che forma i lettori? Che cosa è efficace per sti­molare la voglia di lettura nei giovani? In mancanza di una risposta semplice, in­sistiamo almeno su quattro piste fonda­mentali e di buon senso. È importante:
1) che il libro sia fisicamente presente ne­gli ambienti frequentati dai ragazzi. Che ci siano, il più possibile, libri in casa e in tutti gli altri luoghi. Che il libro non sia marginalizzato. I sociologi hanno dimo­strato che il fenomeno del mimetismo ri­veste un ruolo fondamentale in materia di lettura. Il ragazzo che vede un genito­re o un adulto leggere e divertirsi avrà più propensione a imitarlo naturalmente che nel caso contrario. Perché i nostri figli leg­gano è capitale che anche noi leggiamo!
2) che i libri arrivino là dove solitamente sono assenti. Uno dei migliori esempi è quello di una ong francese, Atd Quart Monde, e delle sue 'biblioteche di stra­da'. Il principio è semplice: dei volonta­ri si installano per strada, sempre nello stesso giorno della settimana, e leggono. Pian piano s’instaura un appuntamento con i giovani o i meno giovani. Poco alla volta i ragazzi si familiarizzano con i libri e gli animatori finiscono per aiutarli a i­scriversi in biblioteca o a entrare in li­breria.
3) che fin dalla tenera età, compresi i neo­nati, si possa manipolare dei libri, gustarsi dei veri e propri universi di autori e illu­stratori, deliziarsi della lingua e delle im­magini fin dalla nascita.
4) che il libro smetta di far rima con iso­lamento e mediocrità e cominci a farla con piacere e condivisione. A tal fine è importante che chi ne parla lo faccia in modo convincente e allettante. In altre parole, che tutti i mediatori - librai, ma anche bibliotecari, giornalisti e gli stessi genitori - siano formati adeguatamente per essere non dei 'prescrittori' di lettu­re obbligatorie ma, per riprendere la for­mula di Philip Roth, degli «insegnanti di desiderio«.
La cosa non è fuori dalla nostra portata. In tutta Europa ci sono centinaia di ini­ziative che tutti i giorni dimostrano la lo­ro efficacia nel suscitare nelle generazio­ni a venire la voglia di leggere. Nei Paesi Bassi le gare di lettura ad alta voce, in Sve­zia le trasmissioni televisive come Car doctor che conducono al libro senza a­verne l’aria, in Germania la giornata na­zionale per la lettura: 12.000 persone quel giorno si mettono a disposizione per leg­gere in luoghi diversi, dalle scuole ma­terne alle biblioteche passando dagli o­spedali e in tutti quei luoghi dove si può incontrare il pubblico…
Una cosa è certa: chi non è un lettore og­gi probabilmente non lo sarà domani (il contrario non è vero). C’è l’urgenza di for­mare dei lettori. Di attuare politiche pub­bliche della lettura innovative e volonta­ristiche, sia a livello nazionale sia a livel­lo europeo. Non soltanto perché si ven­dano più libri ma perché il libro, oggetto di cultura, è anche un formidabile stru­mento poco costoso d’integrazione, di le­game sociale, di comprensione dell’altro e di democrazia in un momento in cui l’Europa ne ha bisogno.

(traduzione di Isabella Negri)
«Avvenire» del 30 gennaio 2014

01 febbraio 2014

Quanto è importante la memoria per non vivere in un mondo appiattito

Ai giovani mancano certe competenze nozionistiche. Lo dimostra il caso dell'Eredità e della domanda su Hitler, sbagliata da tutti i concorrenti del quiz. Per molti di loro il passato si appiattisce in una nebulosa indifferenziata. Ecco perché consiglio la Vispa Teresa a memoria a mia nipote
di Umberto Eco
Nell’ultimo “Espresso” è apparsa una mia lettera a un nipotino, in cui lo esortavo all’esercizio della memoria, invitandolo a mandare a mente “La vispa Teresa”, perché la sua generazione rischiava di perdere sia la memoria personale che quella storica e già molti studenti universitari (citavo da alcune statistiche) pensavano che Aldo Moro fosse il capo delle Brigate Rosse. Avevo scritto la lettera verso la metà di dicembre; proprio in quei giorni appariva un video su Youtube, subito visitato da 800 mila persone, mentre la notizia tracimava su vari quotidiani.
La faccenda riguardava “l’Eredità”, la trasmissione di quiz condotta da Carlo Conti, in cui vengono invitati concorrenti certamente scelti in base alla bella presenza, alla naturale simpatia o ad alcune caratteristiche curiose, ma selezionandoli anche in base a certe competenze nozionistiche, per evitare di mettere in scena individui che se ne stiano pensosamente a bocca aperta di fronte alla sfida se Garibaldi fosse un ciclista, un esploratore, un condottiero o l’inventore dell’acqua calda. Ora, in una serata televisiva Conti aveva proposto a quattro concorrenti il quesito “quando era stato nominato cancelliere Hitler” lasciando la scelta tra 1933, 1948, 1964 e 1979. Dovevano rispondere tale Ilaria, giovanissima e belloccia, Matteo, aitante con cranio rasato e catenina al collo, età presumibile sui trent’anni, Tiziana, giovane donna avvenente, anch’essa apparentemente sulla trentina, e una quarta concorrente di cui mi è sfuggito il nome, occhiali e aria da prima della classe.
Siccome dovrebbe essere noto che Hitler muore alla fine della seconda guerra mondiale, la riposta non poteva essere che 1933, visto che altre date erano troppo tarde. Invece Ilaria risponde 1948, Matteo 1964, Tiziana azzarda 1979 e solo la quarta concorrente è costretta a scegliere il 1933 (ostentando incertezza, non si capisce se per ironia o per stupore).
In un quiz successivo viene domandato quando Mussolini riceva Ezra Pound, e la scelta è tra 1933, 1948, 1964, 1979. Nessuno (nemmeno un membro di Casa Pound) è obbligato a sapere chi fosse Ezra Pound e io non sapevo in che anno Mussolini l’avesse incontrato, ma era ovvio che – il cadavere di Mussolini essendo stato appeso a Piazzale Loreto nel 1945 – la sola data possibile era 1933 (anche se mi ero stupito per la tempestività con cui il dittatore si teneva al corrente degli sviluppi della poesia anglosassone). Stupore: la bella Ilaria, richiedendo indulgenza con un tenero sorriso, azzardava 1964.
Ovvio sbigottimento di Conti e – a dire la verità - di tanti che reagiscono alla notizia di Youtube, ma il problema rimane, ed è che per quei quattro soggetti tra i venti e trent’anni - che non è illecito considerare rappresentativi di una categoria - le quattro date proposte, tutte evidentemente anteriori a quelle della loro nascita, si appiattivano per loro in una sorta di generico passato, e forse sarebbero caduti nella trappola anche se tra le soluzioni ci fosse stato il 1492.
Questo appiattimento del passato in una nebulosa indifferenziata si è verificato in molte epoche, e basti pensare a Raffaello che raffigurava il matrimonio della Vergine con personaggi vestiti alla foggia rinascimentale, ma ora questo appiattimento non dovrebbe avere giustificazioni, visto le informazioni che anche l’utente più smandrappato può ricevere su Internet, al cinema o dalla benemerita Rai Storia. Possibile che i nostri quattro soggetti non avessero idea delle differenze tra il periodo in cui entrava in scena Hitler e quello in cui l’uomo era andato sulla Luna? Per Aristotele è possibile tutto quello che si è verificato almeno una volta, e dunque è possibile che in alcuni (molti?) la memoria si sia contratta in un eterno presente dove tutte le vacche sono nere. Si tratta dunque di una malattia generazionale.
Nutrirei qualche speranza perché la notizia di Youtube mi è stata segnalata, tra sghignazzi e cachinni, da un mio nipote tredicenne e dai suoi compagni di scuola, che forse sapranno ancora imparare “La vispa Teresa” a memoria.
«L'Espresso» dell'8 gennaio 2014

È Internet la causa dell’ignoranza

Umberto Eco sostiene che la Rete è uno stimolo per i giovani. E invece la tecnologia della memoria artificiale è l’origine dell’appiattimento sul presente: non c’è bisogno di ricordare. E poi ha ridotto al minimo la parola scritta
di Eugenio Scalfari
Nella sua “Bustina di Minerva” sull’ultimo “Espresso” Umberto Eco racconta un fatto al tempo stesso esilarante e preoccupante. In una trasmissione televisiva di quiz condotta da Carlo Conti erano stati scelti quattro giovani e gli erano state poste alcune domande apparentemente assai facili: in che anno Hitler fu nominato cancelliere della Germania e quando avvenne l’incontro di Benito Mussolini con Ezra Pound. La facilità delle domande consisteva nel fatto che le date proposte dal conduttore consentivano ai concorrenti risposte abbastanza sicure perché alcune superavano largamente la morte sia di Hitler sia di Mussolini. Sicché i giovani prescelti, anche se ignoravano la data esatta, avrebbero dovuto escludere quella decisamente sbagliata. Invece non fu così. La risposta di una dei giovani invitati al gioco collocò l’incontro di Mussolini e Pound nel 1964, cioè vent’anni dopo la morte del Duce.
Eco così commenta l'accaduto, registrato su “You Tube”: «Quest’appiattimento del passato in una nebulosa indifferenziata si è verificato in molte epoche, ma ora non dovrebbe avere giustificazioni visto le informazioni che anche l’utente più smandrappato può ricevere su Internet. Evidentemente la memoria in alcuni (molti) giovani si è contratta in un eterno presente dove tutte le vacche sono nere. Si tratta dunque d’una malattia generazionale». Del resto lo stesso Eco qualche settimana fa aveva segnalato che, usando attendibili sondaggi, risultava che molti studenti universitari fossero convinti che Aldo Moro era il capo delle Brigate Rosse. Altro che malattia generazionale! Ma perché è accaduto questo? E perché colpisce (o almeno così sembra) soprattutto i giovani?
Il motivo per il quale riprendo su questa pagina le preoccupazioni di Eco (che ovviamente condivido) segnala le cause che hanno determinato la malattia. Eco l’attribuisce soprattutto alle carenze della scuola, delle famiglie, dei vari centri educativi, che non si curano della memoria. La memoria un tempo veniva esercitata obbligatoriamente: i giovani dovevano imparare a memoria una serie di poesie indicate dagli insegnanti. Non importava se capissero o no il loro contenuto, importava di tenere in esercizio le mappe cerebrali dove la memoria ha la sua sede. In seguito quest’obbligo è stato abolito: sembrava che una memoria meccanica non servisse a nulla e anzi fosse disdicevole. Ed ecco le tristissime conseguenze. Osservo tuttavia che Eco considera Internet, e in generale la memoria artificiale affidata alla tecnologia, una risorsa per stimolare i giovani mettendo a loro disposizione una massa enorme di informazioni. Su questo il mio pensiero differisce molto dal suo. Secondo me, infatti, la tecnologia della memoria artificiale è la causa prima dell’appiattimento sul presente o almeno una delle cause principali. La conoscenza artificiale esonera i frequentatori della Rete da ogni responsabilità: non hanno nessun bisogno di ricordare, il clic sul computer gli fornisce ciò di cui in quel momento hanno bisogno. C’è chi ricorda per te e tanto basta e avanza.
Ma c’è di più: la possibilità di entrare in contatto, sempre attraverso il clic, con qualunque abitante del mondo, di parlare con un residente in Australia e, a tuo piacimento, con uno che vive nei Caraibi o in Brasile o nel Sudafrica o a Pechino; sembra inserirti in una folla di contatti e di compagnia. In realtà è l’opposto: ti confina nella solitudine. Molti fruitori della Rete infatti hanno smesso di frequentare il prossimo e restano ritirati in casa a “navigare” sulle onde della nuova tecnologia. L’amore anche fisico attraverso la Rete è diventato abituale per molti. Si chiama da tempo “amore solitario” e infatti lo è.
Infine la rete ha modificato il pensiero, ha ridotto al minimo la parola scritta. Perfino il Papa si serve del linguaggio “twitter” e comunica in questo modo con molti milioni di persone con frasi che non superano i 140 caratteri. Tra il pensiero e la parola scritta c’è un rapporto interattivo. I nostri giovani leggono i giornali e i libri attraverso la Rete. Cioè leggono notizie e cultura ridotte a poche parole. Il numero delle parole usate è ormai al minimo e poiché tra il pensiero e il linguaggio c’è una interazione, ne deriva che il pensiero si è anchilosato come il linguaggio. La malattia è estremamente preoccupante e segna un passaggio di epoca. Caro Umberto credimi, è qualcosa di più che non una malattia generazionale.
22 gennaio 2014
«L'Espresso» del 22 gennaio 2014