30 gennaio 2014

Chomsky, nella mente c’è il mistero dell’uomo

Il dibattito
di Giovanni Ruggiero
Qualcuno si è pure stupito: Noam Chomsky, l’intellettuale anarchico e libertario, duro critico della politica estera americana a partire dagli anni del Vietnam, sale in cattedra in Vaticano. Chomsky per i suoi studi, a partire da Syntactic Structures del 1957, che resta ancora un testo importante di riferimento, è considerato il fondatore della grammatica generativa trasformazionale.
Più in sintesi, il cardinal Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura, lo chiama «principe dell’analisi linguistica». Un tramite tra lo scomodo studioso e l’appuntamento romano c’è, a parte i suoi contributi a filosofia e scienze cognitive, i cui temi sono al centro degli interessi dello Stoq (Science, Theology and the Ontological Quest), l’istituto del Consiglio presieduto dal cardinal Ravasi finalizzato allo sviluppo del dialogo fra scienza, filosofia e teologia. Questo tramite è la parola, che però dal significato corrente si veste di segno biblico teologico. Questa parola è il Verbo. Spiega appunto Ravasi che «la parola è l’incipit della Creazione, perché la parola è il segno dominante in tutta la cultura ebraico-cristiana per indicare Dio». Nella Genesi la Creazione è frutto della Parola che ritorna poi nel Nuovo Testamento con Giovanni (1, 1-14) che il cardinale cita: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio».
A sua volta, presentando Chomsky che è stato un suo professore, Andrea Moro spiega i nessi genetici tra il sistema immunitario e il linguaggio umano. Tra loro, le analogie per quanto superficiali sono sorprendenti. C’è chi ha poi detto che gli esseri umani sono progettati in modo speciale con una capacità di natura mistica, e così ci si accosta al nucleo centrale dell’idea che Chomsky ha offerto del linguaggio: la competenza linguistica, semplificando, si fonda su una conoscenza implicita innata delle regole della grammatica universale. Queste regole portano ad esempio a distinguere tra ciò che è corretto grammaticalmente da ciò che è sbagliato.
Un meccanicismo, dunque? Chomsky analizza la filosofia meccanicistica sviluppata da Cartesio secondo cui – spiega – «il mondo opera come una macchina, su principi delle leggi della meccanica, come oggi potremmo dire dei computer. Anche la lingua può essere costruita in questo modo con l’idea che tutto obbedisce a una sorta di legge meccanica».
Le obiezioni sono tante. L’aspetto creativo pure può essere disciplinato dalle leggi della meccanica e da una macchina? Allora l’arte? E l’estro? E la follia? Bisogna considerare dunque gli aspetti che non si spiegano con la sola meccanica. È il «fantasma nella macchina» la spiegazione, come l’ha inteso anche Ryle: questa macchina, il corpo, guidata non solo dalla mente ma anche da un insieme di entità mentali dotate di un autonomo status ontologico e di potere causale sul corpo.
Chomsky analizza e critica l’empirismo inglese, riprende il dualismo mente e corpo cartesiano, passa in rassegna Newton, Hume e Locke, e nella sua colta lezione esclude spiegazioni essenzialmente meccanicistiche o fondamentalmente chimiche. Occorre a un certo punto ammetterlo: «La mente e le facoltà mentali sono prodotte da principi del cervello che ancora non comprendiamo».
A Roma, in questa seconda lezione (la sera precedente è stato ospite del Festival delle Scienze), ha proposto un «Nuovo Mistero», una dottrina misterica – la definisce – «per andare oltre una certa scientificità molto limitata e ristretta». La suggestione fa dire poi a Ravasi: «Probabilmente è anche ammettere un’esistenza di Dio benché non sia possibile ricondurla a schemi, teorie o diagrammi». Chomsky accoglie l’ipotesi: «Non possiamo spiegarci tutto con la nostra mente, ma occorre guardare ai misteri del mondo, relativizzando tutto quello che la mente vorrebbe spiegare ma non può». E così anche l’evoluzione che – sostiene – «dipende anche da mutamenti casuali che non si possono prevedere».
Sollecitato poi dalle domande del pubblico, Chomsky si sofferma sulle tecnologie e sui nuovi strumenti del comunicare: «Questi – dice – hanno portato a una maggior vivacità rispetto ai media ortodossi, ma per effetto negativo hanno provocato la tendenza a sospingere gli utenti verso una visione molto più ristretta, perché quasi automaticamente le persone sono attratte verso quei nuovi media che fanno eco alle loro stesse vedute. Se uno si informa solo sui blog le prospettive saranno molto più ristrette». Fino a che punto, gli chiedono ancora, le tecnologie possono modificare il linguaggio? «Quando la tecnologia va oltre il senso comune – spiega – ha un impatto forte e causa nuovi sistemi simbolici».
«Avvenire» del 27 gennaio 2014

Memoria, un dovere europeo

Il dibattito
di Andrea Riccardi
Bisogna ancora ricordare la Shoah? Le memorie ufficiali possono diventare polverose. Talvolta l’ufficialità di tante «memorie» nel nostro Paese provoca fastidio tra i giovani. I testimoni ci hanno finora aiutato a sentire vicina la drammaticità della Shoah. Con la loro scomparsa, siamo in una nuova stagione. Tuttavia anche i testimoni hanno faticato nel dare la loro testimonianza.
Ho conosciuto bene un’ebrea romana, catturata nella razzia del 16 ottobre 1943 e tra i pochi ritornati dalla Germania, Settimia Spizzichino. Al ritorno constatò come la gente non volesse ascoltarla, perché si sentiva piena di problemi e vittima della guerra. Settimia tacque per decenni, silenziata dal vittimismo degli altri. Solo negli ultimi due decenni tanti testimoni hanno potuto parlare ed anche Settimia comunicò ai giovani l’orrore della Shoah.
Ho conosciuto un altro ebreo romano, sfuggito alla razzia, nascostosi in Laterano e poi altrove, temendo un’invasione tedesca nell’area lateranense: Michele Tagliacozzo. Michele, dalla fine della guerra, raccolse documenti sulla Shoah per provare quell’infamia: storico e amico degli storici più giovani, a cui forniva materiale. Spizzichino e Tagliacozzo hanno conosciuto stagioni e modi differenti in cui rendere testimonianza.
Sono convinto che abbia ragione lo storico Lucien Febvre, quando diceva: «Per vivere occorre anche dimenticare». Ma la vicenda della Shoah s’impone tra i tanti altri ricordi destinati a cadere. Non solo per l’orrore industriale della macchina di morte nazista. Ma anche perché segna l’inizio della storia contemporanea. Il processo di unificazione dell’Europa e il radicamento del continente nella democrazia partono da Auschwitz, anzi dal rifiuto della Shoah. Infatti la Shoah non è solo un fatto tedesco, come talvolta si dice. No, è una storia europea, cui hanno partecipato volenterosi collaboratori, italiani, francesi, austriaci, ucraini, croati, slovacchi, cechi, ungheresi, lituani, estoni, lettoni, polacchi ed anche altri. È una storia europea complessa, non riducibile alla sola vicenda delle vittime e dei carnefici.
Oggi ricordare vuol dire indagare la complessità storica e raccontarla. Tanti collaborarono al massacro. Ci fu l’appropriazione dei beni ebraici, su cui poco si è scritto. Molti europei hanno lucrato sulla Shoah. Non pochi hanno tradito o venduto gli ebrei. I «mostri» nazisti non erano soli. Di fronte al male, imposto da un regime totalitario, però si può scegliere da che parte stare. La storia della Shoah mostra che, anche in casi di estrema coercizione, si può resistere.
È la storia del riconoscimento dei «Giusti tra le nazioni», che nasce dall’iniziativa d’Israele dal 1962: piccoli e grandi hanno salvato gli ebrei lottando a mani nude. Ne sono stati individuati circa 25.000 con una procedura accurata. Ma il loro numero è maggiore. Aharon Appelfeld ha scritto: «Ogni uomo che si è salvato durante la guerra, si è salvato grazie a una persona che, in un momento di grande pericolo, gli è venuta incontro». Ha concluso: «Nei campi di concentramento non abbiamo visto Dio, ma abbiamo visto i giusti».
Ho studiato la Shoah a Roma dagli anni Settanta e ho avuto l’opportunità di incontrare parecchi «Giusti», specie chi nascondeva gli ebrei negli istituti ecclesiastici. Perché lo facevano, talvolta introducendo famiglie negli ambienti claustrali e creando convivenze inedite tra ebrei e religiosi? Rispondevano con naturalezza e senza senso eroico: «Come non farlo? Era volontà del papa». Alla mia richiesta di una prova della volontà di Pio XII, mi rispondevano con un sorriso: erano tempi calamitosi e nessuno creava una simile prova. Approfondendo negli anni successivi questa storia in cui «metà Roma nascondeva l’altra metà», mi sono reso conto della forte iniziativa spontanea (di religiosi, suore, preti, prelati) all’origine dell’ospitalità clandestina. Intorno alle parrocchie e agli istituti, si sviluppava anche quella di alcune famiglie romane. Molti scelsero di rischiare.
Non si può dividere la base dal vertice. L’iniziativa spontanea s’incrociava con la volontà dei «superiori»: Pio XII e i suoi collaboratori. In alcuni casi, costoro stimolarono l’ospitalità, in altri la consentirono (come nascondere uomini tra le monache di clausura senza permesso?), sempre la sostennero e la coprirono diplomaticamente di fronte ai tedeschi. È la storia di un mondo di «giusti» che si accorse (forse tardivamente) dell’orrore dell’antisemitismo e che resistette. Fu un piccolo popolo di giusti (anche organizzato: come nutrire tanti nascosti?). Il papa e i suoi collaboratori sentirono la responsabilità di gestire un ampio mondo clandestino di ebrei, antifascisti, renitenti alla leva, ricercati dai nazifascisti.
L’ha rilevato anche Anna Foa. L’imperativo era salvare vite umane. Il dibattito sui «silenzi di Pio XII» ha quasi nascosto questa realtà che ora ritorna alla luce. Parlarne non porta a diminuire il dramma, ma a capire meglio la storia di quello che Settimia Spizzichino chiamava «il più grande furto della storia»: gli anni rubati a milioni di esseri umani.
«Avvenire» del 27 gennaio 2014

Foibe, i Giorni del non Ricordo

10 febbraio
di Lucia Bellaspiga
Nessun negazionismo targato Rai: il Giorno del Ricordo s’ha da fare e si farà. Dopo giorni di polemi­che, annunci e smentite, sono i vertici della tivù di Stato a riferire la decisione definitiva: 'Magazzino 18', il musical ci­vile di Simone Cristicchi dedicato alle Foibe e all’esodo dei 350mila giuliano­dalmati, sarà trasmesso il 10 febbraio, Giorno (appunto) del Ricordo. In secon­da serata, è vero, ma su Rai1, la rete am­miraglia. D’altra parte lo spettacolo di Cristicchi si è guada­gnato un quarto d’o­ra di applausi inin­terrotti alla prima di Trieste e il tutto e­saurito nei teatri d’I­talia che la tournée sta toccando. «È uno spettacolo che ha la presunzione dell’e­quilibrio e l’intenzio­ne di pacificare, do­po decenni di scon­tri ideologici», ci ha detto il cantautore romano, da sempre vicino alla sinistra eppure deciso a rac­contare per la prima volta con una po­derosa opera teatrale la pagina più di­menticata della storia d’Italia, la strage di italiani da parte del dittatore comunista Tito dopo la seconda guerra mondiale.

DALLA RAI NESSUNA CENSURA. «La messa in onda di 'Magazzino 18' il 10 febbraio non era mai in dubbio – sostie­ne il direttore di Rai 1, Giancarlo Leone –. I palinsesti si chiudono di venerdì, ec­co perché non l’avevamo ancora an- nunciato». Ma a far sapere che la Rai a­veva «fatto dietro front» era stato proprio Cristicchi, che sulla pagina Facebook i giorni scorsi esprimeva il suo dispiace­re «per tutte quelle persone che, non a­vendo visto lo spettacolo nella propria città, aspettavano il 10 febbraio per po­terlo vedere in tv». Immediata la prote­sta del pubblico, che ha lanciato in rete una petizione alla Rai cui hanno aderi­to migliaia di persone. «Non ce n’era bi­sogno », rimarca però il direttore Leone, «prima andrà in onda un’anteprima di 'Porta a Porta' di venti minuti dedicata al Giorno del Ricordo, poi 'Magazzino 18'...». Seconda se­rata, dunque. Sem­pre meglio dello scorso anno, quando la Rai per celebrare la ricorrenza mandò in onda la solita fiction (stravista) 'Il cuore nel pozzo' alle 3.20 del mattino. «È un programma colto, raffinato, non gli fa­remmo un bel servi­zio a mandarlo in prima serata», spiega Leone. Esprime sollievo Cristicchi, che già in passato aveva affrontato temi come il manicomio o la guerra di Russia, e ora si cimenta in quella che definisce un’ope­ra di «educazione alla memoria» attra­verso «la magia del teatro, la potenza del­l’orchestra e una scenografia imponen­te », tra le masserizie dei 350mila istriani in fuga abbandonate dal 1947 nel Ma­gazzino 18 di Trieste. Va notato che Cri­sticchi il 27 gennaio, Giornata della Me­moria, è stato protagonista su Rai Scuo­la insieme a Moni Ovadia e alla storica Anna Foa di un programma sulla Shoah: «Odio tutti i negazionismi da qualsiasi parte arrivino, li trovo ugualmente diso­nesti ».

A MONZA IL PALCO AI NEGAZIONISTI. Non lo stesso si può dire di alcu­ne iniziative camuffate da celebrazio­ni per ricordare l’orrore delle foibe. A Monza è invitata Alessandra Kersevan, persona nota per le sue posizioni ne­gazioniste, secondo le quali nelle foibe furono gettati «quasi tutti adulti, e co­munque compromessi con il fasci­smo »: se ci è finito anche qualche bam­bino e qualche donna, magari anche le centinaia di sacerdoti, fu per «vendet­te personali» o addirittura si trattò di casi di suicidio. Comprensibile l’indi­gnazione degli esuli monzesi, che chie­dono l’annullamento dell’incontro: «Vi immaginate per la Giornata della Me­moria se invitassero chi deride la Shoah?».

LUCCA: LA STRAGE COMUNISTA DIVENTA NAZIFASCISTA. Va anche peg­gio a Lucca, il cui Comune (a differenza di Roma, dove la giunta Marino ha can­cellato tutti i Viaggi del Ricordo) porterà i suoi studenti in visita guidata... Pecca­to che il programma sembri uno scher­zo: 'Per l’approfondimento delle vicen­de degli esuli istriani', ovvero delle vitti­me del comunismo, i ragazzi verranno portati 'a Gonars e all’Isola di Rab' (che poi è Arbe, ma si preferisce il nome croa­to a quello italiano), 'nei luoghi che fu­rono teatro della repressione fascista de­gli Slavi'. «È vero che Gonars e Arbe fu­rono i due campi di internamento in cui il fascismo deportò sloveni e croati tra il 1942 e l’8 settembre del 1943, durante la guerra – spiega Paolo Radivo, direttore di 'L’Arena di Pola', il periodico degli e­suli istriani –. A Gonars (Udine) moriro­no 453 civili su 6.000 internati e nel mu­sical di Cristicchi c’è anche una bambi­na slovena che legge la lettera autentica di un internato di Arbe, ma la sua è un’o­perazione onestissima. Altro invece è creare apposta confusione alimentando l’antica equazione infoibati=fascisti, fal­sa e superata da tempo, anche perché in foiba morirono cittadini comuni, tra cui anche tanti antifascisti ed ebrei. Ferisce tanta malafede e faziosità».

VIVA LE FOIBE! Non sorprende a que­sto punto che, dopo dieci anni di pacifi­cazione (la legge istitutiva del Giorno del Ricordo è del 2004), atti di violenza ri­portino la storia indietro di decenni: gior­ni fa a Pisa la lapide per i Martiri delle Foibe è stata distrutta, mentre ad Alba­no Laziale i giovani dei centri sociali han­no indossato magliette con la scritta 'I love foiba'. 10 Febbraio Sciolta la querelle di Rai1 Leone: «In onda Magazzino 18 di Cristicchi» (ma in seconda serata). Esauditi gli appelli del pubblico Il cantautore romano Simone Cristicchi nel Magazzino 18 al porto di Trieste, tra le masserizie abbandonate nel 1947 dagli italiani in fuga. Scappavano dal genocidio operato dal maresciallo Tito in Istria, Fiume e Dalmazia.
«Avvenire» del 30 gennaio 2014

28 gennaio 2014

Ogni storia è unica: scelte senza paura

Il percorso scolastico alle superiori
di Luigi Ballerini
Il passaggio alle superiori rappresenta veramente un momento di svolta nella storia personale di un ragazzo. Infatti, è il primo snodo che nel percorso scolastico non avviene in modo automatico, ma per il quale si deve operare una scelta tra diverse opzioni. Come a volte accade quando ci si trova davanti a un bivio, può assalirci la preoccupazione di sbagliare strada. Su una mappa ideale possiamo identificare le indicazioni capaci di guidarci e orientarci così come quelle che invece confondono e inquinano il campo. Spazziamo subito via queste ultime. Innanzitutto, non esistono miti familiari o sociali da rincorrere.
La storia di ciascun ragazzo, il suo futuro scolastico e professionale non possono essere segnati inesorabilmente dalle scelte di chi l’ha preceduto. Che in famiglia abbiano tutti fatto il liceo piuttosto che una scuola professionale non dovrebbe interferire con il nuovo percorso che si sta aprendo: ogni storia è singolare. Allo stesso modo nemmeno il pregiudizio che un laureato conti più di un tecnico, o viceversa, rappresenta un valido criterio di orientamento. Occorre invece guardare il ragazzo nella sua totalità e conoscerlo bene, per poterlo aiutare.
Tra i fattori da considerare, è rilevante la sua effettiva propensione a un esercizio più di tipo teorico che pratico, così come la sua disponibilità a trascorrere ore sui libri, impegno richiesto da uno studio tipicamente liceale. Sono fondamentali anche le discipline che verranno studiate: laddove esse incrociano al meglio i campi di interesse dello studente, risulteranno più gradite e in certo modo più accessibili. Occorre tenere presente che se il vero protagonista della scelta è il ragazzo, ciò non significa che debba essere abbandonato a se stesso. Scuola e famiglia in questo delicato momento rappresentano per lui degli importanti alleati.
Dagli insegnanti può arrivare la condivisione del giudizio maturato nei tre anni di scuola media: i professori che hanno conosciuto e, si spera, ben accompagnato lo studente nelle diverse discipline in genere sono in grado di fornire un punto di vista autorevole da tenere in conto. Dai genitori può invece arrivare l’invito a essere ambiziosi e a non abbassare troppo il tiro, sempre restando su un piano di realtà. Inoltre, aiuteranno a non considerare solo il tipo di indirizzo, ma anche la qualità e la bontà dell’ambiente della scuola. È un dato di fatto che non tutte le scuole sono uguali quanto a possibilità di esperienza e incontri, a volte si assiste a vistose differenze persino fra sezione e sezione di uno stesso istituto. Per questo vale la pena che un adulto introduca anche questo elemento che magari non viene immediatamente considerato dai più giovani.
La decisione finale comunque resta in mano al ragazzo, dentro un concetto di autonomia che non esclude affatto l’apporto dell’adulto, che anzi lo valorizza in quanto lo riconosce come aiuto pertinente e interessante. Se la scelta è consapevole e condivisa, anche la possibilità di errore non deve fare più paura. Il peggio che può accadere è che ci si renda conto di aver sbagliato. Persino l’infausta ipotesi di una prima da ripetere altrove, in un clima di serenità familiare non rappresenta affatto una sciagura; non si tratterebbe di tempo perso, sarebbe piuttosto tempo speso per individuare meglio la propria strada. Nell’economia di una vita intera un inciampo di questo tipo risulta davvero ininfluente; almeno noi adulti dovremmo esserne consapevoli.
Sosteniamo allora i ragazzi a scegliere la nuova scuola con slancio ed entusiasmo, senza inutili paure a fare da zavorra, in modo che il loro cammino parta spedito e leggero con una baldanza che potrebbe insegnare qualcosa anche a noi.
«Avvenire» del 26 gennaio 2014

Su anima e corpo san Paolo batte i Greci

di Gianfranco Ravasi
Come spesso gli accadeva, san Girolamo era stato sbrigativo: san Paolo «non curabat magnopere de verbis cum sensum haberet in tuto», “non si preoccupava più di tanto delle parole quando aveva messo al sicuro il significato”. Questo può essere vero per lo stile, meno per l’uso della lingua greca che egli aveva in realtà assunto e plasmato con molta originalità, assegnando a vari termini nuove e originali accezioni.
Questo atteggiamento brilla soprattutto nella sua antropologia teologica che vorremmo approfondire tenendo conto in particolare dell’esito escatologico del cristiano, ossia del suo destino ultimo oltre la morte.
A sorpresa l’apostolo si è scarsamente interessato alla questione della psyché, l’“anima” in senso greco classico, un termine secondario nel suo epistolario. La sua vera originalità è, invece, nell’aver puntato l’attenzione su un altro contrasto, quello tra spirito e carne, in greco pneuma e sarx, contrasto che si sostituisce a quello classico greco tra psyché e sôma, anima e corpo.
A quella coppia di vocaboli egli, però, attribuisce un nuovo significato. La sarx, infatti, non è la “carnalità” in senso sessuale, né la “carne” fragile, finita e caduca della creatura umana. È, invece, per Paolo un principio negativo efficace e deleterio che si annida nella coscienza dell’uomo, divenendo terreno per il peccato.
Al contrario, lo pneuma non è tanto il principio della vita psicofisica, ma è lo spirito divino che si effonde nella persona rendendola figlia adottiva di Dio (Rm 8, 16). Illuminante è un passo della Lettera ai Galati ove si oppongono questi due principi: «Camminate secondo lo spirito [pneuma] e non sarete condotti a compiere i desideri della carne [sarx]. La carne [sarx], infatti, ha desideri contrari allo spirito [pneuma] e lo spirito [pneuma] a sua volta è contro la carne [sarx], poiché queste due realtà sono vicendevolmente contrapposte» (5, 16-17).
L’uomo, quindi, può ridursi alla qualità di essere “carnale”, impigliato nelle reti della sarx e del peccato; ma può anche elevarsi alla dignità di essere “spirituale”, animato dallo Spirito di Dio e dalla grazia salvatrice. In questa impostazione, che rivisita in chiave squisitamente teologica l’interiorità della persona, si riesce a decifrare un’altra coppia di termini usati da Paolo, termini palesemente applicati in modo contraddittorio agli occhi della cultura greca. L’apostolo, infatti, parla di sôma psychikón “corpo psichico”, e di sôma pneumatikón, “corpo spirituale”, espressioni paradossali se non assurde per un greco, considerata la ben nota antitesi e incompatibilità tra anima, spirito e corpo. In realtà, come vedremo, il retroterra di queste locuzioni paoline è biblico ed è modulato da Paolo secondo la sua teologia del peccato e della grazia.
Da un lato, infatti, il “corpo psichico” è la persona chiusa nella sua creaturalità di essere vivente limitato, finito e colpevole. D’altro lato, il “corpo spirituale” è la persona aperta all’irruzione dello Spirito di Dio, che trasfigura la povertà della nostra condizione umana e ci introduce nella gloria e nell’eternità. Per questo, il corpo del Cristo risorto è per eccellenza “spirituale”, non certo perché etereo o incorporeo ma perché immerso nell’infinito e nell’eterno. In pratica, è la piena manifestazione del nostro essere “immagine di Dio”, come aveva insegnato Genesi 1, 27, che l’apostolo così sviluppa e parafrasa: «Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste« (1Cor 15, 49).
Questa distinzione può aprire un varco all’interno del delicato e complesso problema dell’immortalità dell’anima o della risurrezione dei corpi: ricordiamo che il Credo apostolico, che è una professione di fede cristiana degli inizi del III secolo, preferisce la formula «risurrezione della carne», mentre il Credo niceno-costantinopolitano del 381, che si recita ogni domenica nella liturgia eucaristica, parla di «risurrezione dei morti». Apriamo solo una finestra su questo tema che affascina non soltanto il teologo o il filosofo, ma anche la persona comune, protesa verso il futuro e desiderosa di gettare uno sguardo oltre la frontiera della morte. Il pensiero generale di Paolo è, infatti, piuttosto ampio: il corpus delle tredici lettere che recano il nome dell’apostolo (anche se non tutte sono direttamente da ricondurre a lui) occupa ben 2003 versetti sui 5621 dell’intero Nuovo Testamento.
Ebbene, in qualche passo paolino sembra occhieggiare la concezione greca quando si parla di un «esulare dal corpo […], quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra» (2 Cor 5,1.8-9); tuttavia, subito dopo si aggiunge che «riceveremo un’altra abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mano d’uomo«, facendo riemergere l’idea di un corpo risorto. Ecco, proprio a quest’ultima notazione ci connettiamo per la nostra breve considerazione che ripropone l’antitesi sopra indicata tra “corpo psichico” e “corpo spirituale”. Nella risurrezione è la creazione intera che viene ricondotta, attraverso l’intervento divino, a un nuovo progetto “cosmico” (nel senso etimologico di “ordine, armonia”). In esso cadranno le coordinate limitative del tempo e dello spazio e, quindi, della finitudine, in cui ora siamo immersi, e della corruzione materiale e morale.
Alcuni teologi, soprattutto protestanti, pensano che nella morte avvenga una fine totale, così come nella conclusione dell’intera realtà creata: la risurrezione sarebbe, allora, una vera e propria “ri-creazione” divina, condotta ex novo. Ma in realtà nella visione paolina, esplicitamente modellata sulla risurrezione di Cristo, la cui identità personale permane, si sottolinea una continuità, anche se di difficile definizione e descrizione: l’essere attuale, individuale e cosmico sotto l’azione divina viene trasformato in un nuovo statuto di essere e di esistere, immesso nell’eterno e nell’infinito. Tra presente e futuro dell’uomo e del mondo c’è, allora, un rapporto di continuità nell’identità individuale, ma anche di discontinuità nella qualità dell’essere.
Non è certo facile delineare in modo puntuale e accurato questa transizione e lo stesso Paolo nel capitolo 15 della Prima lettera ai Corinzi fatica nel rappresentare questa uscita dalla prigione dello spazio e del tempo e l’evolversi della realtà presente e storica verso quell’orizzonte trascendente. Infatti, fa ricorso a immagini come quella del nesso tra seme e albero, un nesso di continuità, ma anche di novità e di diversità, e conclude: «Si semina corruttibile e risorge incorruttibile, si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza, si semina un corpo psichico [sôma psychikón] e risorge un corpo spirituale [sôma pneumatikón]» (15,42-44).
Si riaffaccia, dunque, il contrasto tra il “corpo psichico”, che indica la creatura umana con la sua psyché, la sua interiorità, inserita però nello stato presente, storico della realtà, e il “corpo spirituale” che è quello del futuro escatologico, ossia della pienezza di vita della nuova creazione, oltre lo spazio e il tempo. “Corpo spirituale” non è, allora, qualcosa di evanescente o simile a un ectoplasma; con questa espressione Paolo intende il corpo risorto, cioè la persona umana pienamente pervasa dallo Pneuma, lo Spirito di Dio operante nel Cristo risorto. Per l’apostolo il modello e il principio della nostra futura trasfigurazione è proprio Cristo risorto che incarna lo statuto dell’uomo redento, in comunione perfetta con l’eterno e l’infinito divino.
Si potrebbe, quindi, concludere affermando che Paolo ha considerato l’“anima” (psyché) come il segno della nostra umanità terrena e lo “spirito” (pneuma) come emblema della nostra meta oltremondana quando «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor 15, 28). La redenzione futura coinvolge tutto l’essere creato e, quindi, anche la materia che è in noi e fuori di noi. Con una battuta si potrebbe dire che, mentre nella concezione greca l’oltrevita è liberazione dalla materia considerata come un gravame maligno, nel cristianesimo l’oltrevita è liberazione anche della materia destinata a essere trasfigurata e integrata in una creazione rinnovata.
È per questo che nella Lettera ai Romani si legge: «La creazione stessa [quindi anche la materia] attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio. Essa, infatti, è stata sottomessa alla caducità […] ma nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloria dei figli di Dio» (8, 19-21).
«Avvenire» del 20 gennaio 2014

19 gennaio 2014

Contro la crisi, elogio degli eroi

«Bertolt Brecht si sbagliava, oggi sono più utili di ieri»
di Guido Ceronetti
Una frase iniqua, falsissima, di una gridante inattualità, - e spesso citata con reverenza - di Bertolt Brecht, drammaturgo passato di moda, mi ha indignato sempre: «Beato il popolo che non ha bisogno di eroi».
Ma abbiamo in verità più bisogno di eroi e di eroismo che di pane e di maccheroni malcotti. Fortunatamente non ci hanno abbandonati, e ci sono eroi dovunque, esemplari o tragici, e che smentiscono e contrastano quotidianamente, in ogni circostanza che lo richieda, l'ignavia, la vigliaccheria, la fuga dal pericolo, dalla necessaria protezione del debole, il battere in ritirata, il rinnegamento del coraggio, la nefanda ripugnante negazione-rimozione, esplicita o mascherata, della morte. Senza l'eroe una vergogna infinita coprirebbe l'umanità planetaria, più nera, più mortale, più carcinomatogena dello smog di anidride carbonica che calza ormai la Terra come un guanto d'irrespirabilità.
Per la legge naturale, l'eroe non è una anomalia, è la regola. I popoli primitivi furono eroici tutti. Nei popoli evolutissimi, tecnicizzatissimi, l'eroe è una forzatura, un fenomeno relativamente raro; il resto è una massa di passivi e di vili. L'aveva ben capito Mishima! Ci obbligano perfino a morire in monumentali policlinici, e chi riesca volontariamente a morire in casa diventa eroe.
Silenziosamente, tutta la medicina è diventata implacabilmente antieroica. Quando, ragazzini, ci estraevano i dentini senza anestesia era impartirci un insegnamento; ma il risultato di infiniti interventi anestetizzanti è, a lungo termine, la propensione in tutti i popoli, dove sempre più il dolore fisico è vinto dalla conoscenza, ad accettare illimitatamente forme di schiavizzazione mentale senza misura.
Quella dell'ordinatore (mi è duro scrivere compiuter) è una dittatura totalitaria universale, che a poco a poco va strangolando tutto, proprio tutto, quel che ci resta di libero, di autonomia mentale, in una parola: la vita.
L'eroe essendo iscritto nella legge naturale, formidabile rottura dalla passività animale, perciò dono degli Dei, la perdita di eroi sempre più ci avvicina alla condizione di esseri non pensanti, dunque di bestie vestite bene; sfruttandone colpevolmente innumerevoli altre.
Confesso una lunga angoscia, alla quale si è avvinghiata la vecchiaia come i draghi del Laocoonte vaticano: quella di uno che, educato ad aver paura da madre apprensiva e da congiura d'astri, vissuto pauroso eccetto in un punto (non insignificante) riguardo alle idee, ha bramosia di una fine eroica, di un atto di vita buttata con noncuranza per soccorrere qualcuno. E qui è infilabile il mio speciale rapporto, non storiografico, non letterario, con la guerra civile spagnola, che è per me una paradossale anamnesi, il ricordare di un combattente dei due campi, con qualche benevolenza in più, e permanenza più lunga, fino all'esilio in Francia o Messico, in quello repubblicano. In verità, quando cominciò quell'evento degno di essere meditato, avevo otto anni e giocavo con altri gorbetti in vacanza in un paesino canavesano.
Visto e comprato, da un piccolo antiquario, un volume della collana «Presa Diretta» Mondadori (L'assedio dell'Alcázar, 1962, di Cecil Eby, storico americano, con prefazione di Carlo Fruttero): lettura recentissima e appassionante. In copertina, la scritta Settanta giorni inimmaginabili non mente a chi entra e ci resta aggrovigliato.
Nel 1940 un film ovviamente fascista fu fatto da Augusto Genina, per vincere senza contrasti la Coppa Mussolini di quell'anno a Venezia. Aveva un bel cast: Fosco Giachetti, Rafael Calvo, Maria Denis, Andrea Checchi. Lo rivedrei volentieri, con tutta la sua data addosso, e va ricordato che piaceva ad Antonioni. L'allora amatissimo Giachetti interpretava il capitano Vela, uno degli animatori della resistenza, Rafael Calvo il comandante della guarnigione nazionalista, l'ultracattolico colonnello Moscardò. Quell'assedio, due muraglioni di odio contrapposti, resta come epopea e delirio dell'eroismo umano.
Il racconto dello storico è ben più grandioso e straordinario, fornito di mappe e fotografie; non credo difficile procurarselo, da chi non voglia leggere del superfluo.
Io non voglio, qui, difendere le stragi cui era predestinato, in quella definitiva guerra tra due Spagne, il formidabile complesso architettonico dell'Alcázar di Toledo: mi preme rilevare soltanto di quale impressionante capacità di disprezzo della morte (terrorizzati, uomini e donne, più dal disonore di morire de cobarde , o di vivere de rodillas - in ginocchio - come proclamava la Pasionaria) assediati e assedianti diedero prova. L'ultima lettera di Cesare Battisti alla moglie Ernesta, nel 1916, nel suo laconismo estremo di testimone mite in vista della forca trentina, vale a definire altrettanto bene quel che il termine EROE accoglie di umani significati.
Per non doverci sputare, guardandoci allo specchio, in faccia, abbiamo, sempre più avremo, bisogno di eroi.
«Corriere della Sera» del 3o novembre 2012

Brecht sapeva quanto vale un ero

Vita di Galileo torna in scena. Con Virginio Gazzolo e la regia di Garella
di Franco Cordelli
Vi sono opere, I tre moschettieri di Dumas o l'Angelus di Millet nel XIX secolo, Lo straniero di Camus o Vita di Galileo di Brecht nel XX, che pur non essendo capolavori, nelle rispettive discipline, lo sono di fatto, si sono conquistati sul campo quella eccellenza che scaturisce dal situarsi in punti nevralgici dell'immaginario del tempo loro, e del nostro. (...)
Su Brecht pesa una specie di «damnatio memoriae». Fu o non fu un ideologo? Lo fu. Cioè, secondo alcuni, non fu un grande artista. Ma Vita di Galileo si sottrae al dubbio per la qualità che dicevo prima: mette a fuoco, in modo canonico, un dilemma che coinvolge gli intellettuali di ogni tipo nei loro rapporti con le società di cui dovrebbero essere coscienza. C'è di più, nella canonicità di Vita di Galileo. E' il dramma in cui Brecht definisce in modo lapidario il valore, o disvalore, dell'eroismo. «Sventurata la terra che ha bisogno di eroi» replica Galileo all'allievo Andrea Sarti che aveva appena detto: «Sventurata la terra che non ha eroi». Con la celebre frase di Galileo, Brecht prefigurava una società futura e migliore. Ma, nello stesso tempo, è incerto se fosse più la celebrazione di un utopistico mondo a venire o la liquidazione di un luogo comune, appunto la virtù eroica. Forse Brecht voleva dire: chi se ne frega degli eroi, non sono gli eroi che ci stanno a cuore.
Questa ambiguità si vede nell'elaborazione del testo. Scritto nell'esilio danese, nel 1938, esaltava l'astuzia di Galileo, che si sottrae al giudizio dell'Inquisizione romana per continuare la propria ricerca della verità. Dieci anni dopo - dopo l'interrogatorio da parte delle attività antiamericane e il ritorno in Europa, ma soprattutto dopo Hiroshima - Brecht riscrisse la scena XIV, penultima del dramma. Galileo rifiuta di riconoscere qualunque eccellenza all'idea di avere le mani sporche ma libere. Se la scienza è al servizio dell'umanità, se essa serve la causa della lotta contro la sofferenza degli uomini, non può dagli uomini staccarsi, come Galileo se ne è staccato, privilegiando il proprio bene personale. Del resto, gli opposti giudizi che si danno dell'eroe rivelano, di una società, il suo sviluppo. Alle esaltazioni, nelle società totalitarie, di tutto ciò che appare eroico, fino alla suprema ambiguità eroismo/fanatismo, si contrappone la disillusione delle società democratiche. Penso a un libro recente, Il ribelle di Massimo Fini, nel quale, dice l'autore, il maggior eroe dell'Italia repubblicana, Nicola Calipari, era una spia! Qui la disillusione è davvero troppa. Tutto dipende dal linguaggio. L'uso della parola spia, con il suo connotato negativo, il suo alone perfino psicologico, indica più un'inclinazione di Fini che la descrizione obiettiva dei fatti. (...)

Nota bene: ho omesso i brani dell'articolo più legati alla messa in scena, perché meno pertinenti con la tematica dell'eroe
«Corriere della Sera» del 7 maggio 2006

08 gennaio 2014

La difficile sfida degli eroi agli dèi tiranni dell'Olimpo

Achille, Ulisse, Eracle in bilico tra fama e senso del destino
di Pietro Citati
Il mito greco, a cura di Giulio Guidorizzi, è un libro bellissimo. Il primo volume, Gli dèi, è uscito nel 2010: il secondo, Gli eroi, è in uscita (I Meridiani, Mondadori). Non saprei se elogiare di più la conoscenza illimitata della letteratura greca e latina, che Guidorizzi possiede, o la sapienza nella costruzione del libro, divisa in parti mentali, o la bontà della maggior parte delle traduzioni, o la precisione delle note, o la liquidità e l'eleganza dello stile, che cercherò di imitare. Ciò che incanta i lettori è poter percorrere il libro non come un manuale, sia pure ottimo, come quello antico dello Pseudo-Apollodoro o quello moderno di Karl Kerenyi: ma come un corpo vivo, che vibra, si muove, ha echi e aloni, dove la Grecia racconta se stessa e la sua sterminata fantasia mitica.
La mitologia greca non è una costruzione sistematica: non lo è almeno nei grandi poeti, come Omero e Ovidio; se mai, lo è soltanto nei tardi (e spesso eccellenti) mitografi, che razionalizzano ciò che non dovrebbe venire razionalizzato. Non si può immaginare una costruzione più mobile e vasta. Tutti gli dèi ed eroi hanno rapporti con altri dèi ed eroi: ogni personaggio ed evento trova un'eco in una parte lontanissima della costruzione; e persino ogni figura è mobile, perché si presenta in molte forme e varianti, che posseggono tutte lo stesso grado di realtà e verità, non importa se registrate in un grande poema o in un meticolosissimo manuale come la Guida della Grecia di Pausania o in uno scolio in margine a un testo minore. Le vicende e i personaggi hanno conosciuto dapprima una lunga esistenza orale, poi una lunghissima esistenza scritta. Non sono state raccolte per essere credute (non esiste una fede negli dèi greci), ma per venire raccontate senza interruzione, con sempre nuove aggiunte e metamorfosi. Sono trascorsi più di tremila anni dalla mitologia del periodo miceneo; eppure tutto vive, muove, palpita, si agita, si esibisce, si contraddice, come nel libro di Guidorizzi che ricostruisce così fedelmente il mito greco.
Sia gli ebrei sia i cristiani hanno dedicato un culto ai primi capitoli della Genesi, che raccontano la creazione dell'universo, la separazione delle cose, la doppia creazione, spirituale e fisica, dell'uomo, quella della donna, e il peccato di Adamo ed Eva, che generò una specie di seconda creazione. Nella mitologia greca, non esiste nulla di simile alla creazione biblica originaria: esistono creazioni o ricreazioni successive, come quella di Deucalione e Pirra, mirabilmente raccontata da Ovidio nelle Metamorfosi. Ma i rapporti tra dèi, eroi e uomini sono complicatissimi. Da un lato, la distanza tra loro resta incolmabile: dall'altra, sebbene non sia stato creato dagli dèi, l'uomo e tanto più l'eroe è una creatura nobilissima, che leva lo sguardo verso il cielo e le stelle; mentre gli dèi osservano le sue vicende, vi partecipano con passione, lo proteggono, lo guidano, lo sorreggono, lo condannano, talvolta senza ragione o per ragioni che ci restano incomprensibili.
Nei tempi più antichi, gli dèi, gli eroi e gli uomini vivevano insieme. Discendevano dalla stessa razza: conducevano un'esistenza comune; avevano comuni «le mense e i concili». Allora gli uomini vedevano gli dèi nel loro «sembiante» e nel loro «splendore». Ancora ai tempi dell'Iliade e dell'Odissea, popolazioni arcaiche, gli Etiopi e i Feaci, vivevano insieme agli dèi, banchettavano con loro, e li guardavano nel loro «sembiante». Il più famoso tra gli eroi greci, Achille, forma un caso particolare. Come dice il primo verso dell'Iliade, che è al tempo stesso il primo verso della letteratura greca, viene posseduto da una passione, la mènis, l'ira, che appartiene soltanto agli dèi: è una parola tabù che né gli dèi né gli uomini possono pronunciare. Questa passione, in Achille, esclude tutte le altre, ed egli non può trascurarla o dimenticarla un solo istante. Omero considera la mènis con un doppio sguardo. Da un lato, essa rivela lo splendore divino di Achille: la sua identità con gli dèi; e Omero, come tutti i greci, venera la rivelazione divina negli spiriti eroici e umani. D'altra parte, Omero sa che gli eroi e gli uomini non sono dèi e non possono nutrire i loro stessi sentimenti: quindi la mènis incombe su di lui come una colpa sinistra, una catastrofe.
Se dèi e uomini appartengono alla stessa razza, tanto più gli eroi sono affini alla natura umana. Non posseggono poteri soprannaturali, non sono polimorfi, non compiono nulla che un uomo non possa compiere, sia pure con le sue forze limitate. Poche generazioni separano l'eroe capostipite dai suoi discendenti, che nei tempi storici abitano la città. Dal profondo della tomba, gli eroi emanano le loro forze sotterranee: proteggono il territorio, guariscono, compiono miracoli, rendono oracoli: ma possono anche inviare malattie e punire gli empi. In primo luogo, gli eroi sono dei mediatori. Sebbene la differenza tra mondo divino e umano sussista, gli uomini entrano in rapporto con gli dèi attraverso il riflesso, il barlume, il profumo che colma il mondo eroico. Col passare del tempo, gli eroi si trasformano: i guerrieri di Omero, dominati dal senso della gloria e dell'onore, diventano, nella tragedia classica, uomini lacerati e sofferenti. Così Eracle arcaico è colui (come dice Bacchilide) che mai nessuno vide asciugarsi una lacrima: mentre l'Eracle tragico esperimenta nella propria anima i morsi del dolore, che piega l'uomo più forte e temprato.
Infine, avviene la totale separazione tra i mondi. Il sacro diventa proibito. Se qualcuno compie la follia di fissare gli dèi negli occhi si perde senza rimedio. Con l' Odissea, gli dèi si allontanano, si ritirano, abbandonano la terra: nessuno li vede più nella loro figura, ma soltanto nella loro maschera umana. Quando appare Ulisse, l'eroico si scioglie completamente nell'umano: egli è l'ultimo degli eroi, il primo degli uomini. Non appartiene né al mondo degli dèi, come Achille con la sua mènis, né a quello per metà utopico dei Feaci. Vuole essere uomo: nient'altro che uomo: uomo effimero; sebbene il suo orizzonte sia attraversato dalle lampeggianti rivelazioni divine. Nemmeno noi uomini, che non discendiamo come lui da Ermes, possiamo rinunciarvi. La nostra vera esistenza consiste in questi bagliori, che ci giungono dall'alto.
Come racconta Angelo Brelich in un libro famoso, la luce radiosa o sinistra dell'eccezionale avvolge spesso gli eroi greci. Talvolta sono reietti: figli di amori irregolari, bambini abbandonati, rischiano di venire uccisi appena nati, oppure sono salvati e sopravvivono in modo prodigioso. Alcuni sono segnati, mutilati: zoppi o ciechi, o portano nel corpo l'impronta di una ferita, come Ulisse, o punti vulnerabili, come Achille; oppure la loro mente è visitata da una follia intermittente o continua. Non sono virtuosi. Compiono incesti o parricidi o matricidi o stupri o assassinii: o massacrano i figli. Sempre, o quasi sempre, sono vittime della hybris: si scontrano contro i limiti del destino, della natura o degli altri esseri umani; e lo scontro è così terribile, che ne vengono travolti: travolti dagli altri, ma in primo luogo dalle forze immense che portano dentro se stessi. Tutto, in loro, è eccessivo: passioni, imprese, io, destino. Cercano di realizzare l'impossibile, e talvolta, attraverso strade straordinarie, ci riescono. Così diventano i grandi colpevoli, e debbono venire purificati dagli dèi, che spesso, come Apollo, hanno conosciuto le loro stesse colpe. Nemmeno la loro morte è comune: fulminati, smembrati vivi, inghiottiti dal terreno.
Non tutti gli eroi sono guerrieri, come insegna persino l'Iliade. Tra di essi, ci sono inventori, medici, sciamani indovini, profeti; Palamede inventa le leggi scritte, le lettere, i metri e le misure, il numero, i segnali di fuoco, i dadi, gli scacchi. Alcuni, tra i più venerati, fondano città: vengono da molto lontano, fuggiaschi o esiliati, e portano con sé il ricordo di un delitto compiuto, o il presagio di sciagure nelle quali saranno coinvolti. Appena giunti sulla nuova terra, aboliscono il passato: i criminali diventano prescelti, i perseguitati indossano le vesti dei re; e la terra selvaggia e incolta riceve una legge, un ordine, un'armonia.
Tutti gli eroi greci, senza eccezione, desiderano la gloria, nella quale vedono il solo compimento e la sola giustificazione della loro esistenza terrena. In primo luogo, la ama Achille: con la stessa purezza e intensità con cui la amava Hölderlin. Come a esaudire la sua attesa, l'ultimo libro dell'Odissea gli edifica il supremo monumento. I Greci lo piangono: dal mare vengono la madre e le ninfe marine, gridando: le Nereidi gemono: le nove Muse intonano il lamento, «per diciassette giorni e diciassette notti ininterrottamente»; e la diciottesima notte i Greci lo ardono insieme a pecore e buoi. Achille viene cremato: bagnato di unguento e di miele; le sue ossa sono raccolte nel vino e chiuse in un'anfora insieme a quelle di Patroclo. Infine i Greci innalzano sopra di esse un tumulo nell'Ellesponto:
«perché da lontano fosse visibile agli uomini in mare,
a quanti vivono ora, e a quanti vivranno in futuro».
Come vuole la legge della gloria, il tempo è vinto, l'immortalità conquistata. Eppure Achille, che ama ed esalta la gloria e in apparenza non può fare a meno di lei, denigra la religione della gloria nella quale credono gli eroi greci. «Che peso hanno - dice nell'Iliade ai messi di Agamennone - la gloria, la ricchezza, lo splendore? Ciò che conta è soltanto la vita: questa cosa così fragile e leggera: dura un istante: esce così presto dalla bocca; vale così poco davanti alla forza e alla bellezza degli dèi - ma niente vale la vita. Nulla può pagarla, o sostituirla o farla dimenticare». Questo è il più sublime paradosso della civiltà eroica greca, che Giulio Guidorizzi ha così accortamente fatto rivivere.


Il libro e l’autore

Un’indagine lungo il percorso della classicità
• Uscirà il 7 febbraio il secondo volume di «Il mito greco», a cura di Giulio Guidorizzi. Il primo volume, «Gli dèi», è uscito nel 2010; il secondo, «Gli eroi», esce ora nella prestigiosa collana «I Meridiani» Mondadori (pp. 688, e 30. I due volumi insieme: pp. LV-1758, e 60).
• Giulio Guidorizzi è professore di Teatro e Drammaturgia dell’antichità presso l’Università di Torino. È condirettore della rivista «Studi Italiani di Filologia Classica» e dirige il «Centro studi per il teatro classico» dell’Università di Torino.
• Giulio Guidorizzi ha pubblicato un’edizione delle «Baccanti» di Euripide (1989), l’edizione e il commento delle «Nuvole» di Aristofane (1995), la traduzione dello «Ione» di Euripide (2001), le traduzioni commentate della «Biblioteca» di Apollodoro (1995) e dei «Miti di Igino» (2001), il volume «La Metafora» (con Simone Beta, 2001), il «Mito di Edipo» (con Maurizio Bettini, 2004) e una «Letteratura Greca» (2003).
«Corriere della Sera» del 2 febbraio 2012

05 gennaio 2014

Mostri: quanta bellezza!

di Maurizio Cecchetti
Sarà perché siamo tutti un po’ eredi di quella cultura dell’orrore e del sangue che ha fatto del Seicento un secolo di passioni forti, spesso terribili (ma qui dobbiamo qualcosa anche a Michelangelo, al quale Vasari riconosce quello stile potente che si spinge fino alla terribilità); sarà perché, quando vediamo la testa di Medusa del Caravaggio che grida, quasi fino a slogarsi la mascella, ci prende un moto di inquietudine, come se vedessimo la nostra morte riflessa in quello “specchio” che simula la fine della gorgone con impressionante realismo; sarà perché i secoli moderni, quelli più vicini a noi, di orrore si sono nutriti frequentando gli abissi del mondo, che poi sono una proiezione di quelli umani come sapevano bene i romantici, profondità nere e insondabili popolate di corpi sacrificati, teste decollate, esibizioni “pedagogiche” di cadaveri sulle piazze, con annesse torture fisiche e psicologiche prima del colpo di grazia, fatti reali e immaginari che si mischiano nello sguardo del nostro tempo.
Sarà per tutto questo e per molto altro ancora, che addentrandomi nel labirintico e segmentato percorso negli spazi di Palazzo Massimo, dove ha sede il Museo Nazionale Romano e dove ora sono esposti i reperti archeologici di una singolare rassegna intitolata Mostri/Monster, ovvero «creature fantastiche della paura e del mito», a cura di Rita Paris, Elisabetta Setari e Nunzio Giustozzi (catalogo Electa), ecco, per tutto quanto di oscuro e tenebroso ci hanno trasmesso i secoli a noi prossimi, mi pare quasi di fare una passeggiata in una galleria delle meraviglie, dove la paura è proprio l’ultimo pensiero che viene di fronte a queste cose di duemila e più anni fa spesso di una bellezza incomparabile.
Il titolo, che sulla cancellata d’ingresso viene riportato anche in inglese, è una implicita allusione alle mostruosità cinematografiche e fumettistiche che piacciono alle generazioni più giovani, forse perché allevate a effetti speciali che suscitano continuamente brividi calcando la mano sulla bruttezza e sulla violenza del mostro, dall’horror al fantasy cruento e sanguinario (per non dire, poi, di certi videogame che diffondono un culto della morte pressoché fascista) . Questo nostro tempo cerca nei mostri immaginati da menti sempre più disinibite, quegli specchi che mettano a tacere l’orrore che ci assale vivendo in una realtà che supera di gran lunga, quanto a violenza e bruttezza, le proiezioni che possono venire dall’immaginazione.
La cosa stupefacente – ma non tanto, a pensarci bene – è che di fronte a questi frammenti che provengono da vari musei archeologici italiani, ma anche da prestigiose istituzioni straniere, e spaziano dal mondo greco a quello asiatico, da quello etrusco a quello egizio, con un percorso comparativo e quasi didattico che distingue le creature mitiche secondo l’iconografia e i supporti materiali (sculture, vasi, affreschi, armi, metalli...), viene da porsi la medesima questione sollevata in catalogo dalla direttrice del Museo, Rita Paris: perché paura e orrore sono governati, in queste opere, da una suprema eleganza e nobiltà?
Ma è proprio questo apparente conflitto fra forma e significato il dispositivo che collega quelle opere d’arte al mito: la descrizione del mostro di turno, che talvolta può giocare sul polimorfismo e sulla polisemia, è tipica di un sapere che non ha nulla di irrazionalistico: furono filosofi come Cassirer e, più vicino a noi, Blumenberg, ovvero studiosi delle immagini come Warburg, a intuire che la condanna del mito da parte dell’illuminismo era, a suo modo, irragionevole, e forse frutto di timori per l’avverarsi di nuove e pericolose mitologie sociali e politiche (e non erano timori infondati, come si è visto negli ultimi due secoli); irragionevole, nondimeno, pur in un richiamo alla ragione e alla demitizzazione, in quanto il mito, fin dai tempi più antichi, è stato un modo di parlare di ciò che non è dato conoscere nelle sue origini; il mito occupa lo spazio vuoto che lega gli usi culturali e le inclinazioni umane a qualcosa che rimonta fino alla notte dei tempi.
E pertanto è un modo di pensare, più che di idolatrare; è un linguaggio che racconta prima ancora che una credenza: nel catalogo ben lo spiega Maurizio Bettini analizzando, nelle variazioni del mito di Edipo, la prossimità strutturale dei meccanismi simbolici che fanno capo a “incesto” ed “enigma”, che nella Sfinge trovano il testimone che “confonde” i piani.
Così il linguaggio che si articola attorno ai mostri, come già quello delle zoologie simboliche, consente, combinandone gli elementi, di parlare dell’uomo. E qui subentra la questione elementare sulla “bellezza” dei mostri: il mostro, come ogni cosa che rimanda oltre, al divino o, se si preferisce, al trascendente, evoca qualcosa di oscuro o di minaccioso, che ci respinge e ci attrae al tempo stesso, scrive Rita Paris. Si colloca, cioè, nel diapason delle categorie studiate da Rudolf Otto a proposito del sacro: il fascinans e il tremendum.
Come, in effetti, definire mostri nel senso banale e negativo oggi dominante, le sirene che vediamo in due meravigliose statuette in terracotta provenienti da Myrina (Turchia) del I secolo a.C., o prendersi uno spavento per le boccacce e le linguacce delle gorgoni (anche quelle più aggressive che mostrano i denti, come sul pettorale di cavallo in bronzo e avorio del VI secolo a.C. proveniente dagli scavi di Ruvo in Puglia), tanto più che un’antefissa semiellittica in terracotta del IV secolo a.C. proveniente da Taranto, pur mostrando la criniera anguiforme di Medusa la compone elegantemente in un’acconciatura che la rende più somigliante a una venere che alla divinità terribile.
Evidentemente, l’iconografia di questi miti ottempera all’obbligo di essere “bella” e al tempo stesso “significativa” nelle forme. Le due cose si fondono in un ibrido la cui funzione primaria è memento sacro e morale. Il mito, interpellato, replica con una domanda: se la risposta è giusta, accade, come a Edipo, che il mito apparentemente annulli la propria valenza negativa, in realtà la rifonde in un nuovo enigma, come in labirinto dove una porta superata si apre su un’altra stanza e così fino al manifestarsi di un segreto che, però, muta continuamente nelle forme, anzi diventa performativo della propria stessa ingannevole apparenza.
Ma la seduzione dell’oggetto mitico, come la maschera nelle culture tribali, copre altre identità, le porta oltre lo spazio fisico e le rende vieppiù potenti. E viceversa: quando la maschera introduce nello spazio terreno elementi sacri. E in questa meravigliosa attrazione, che nei reperti archeologici si camuffa sotto la loro bellezza (che è tale perché, come nell’arte tribale extraeuropea, non possediamo i codici che svelano il condensato simbolico di quegli oggetti), la vera minaccia nascosta: la stessa che la Sfinge rappresenta per Edipo. Ma non è un banale rebus, se non quanto lo può essere la vita stessa per noi.

Roma, Palazzo Massimo - Mostri - Fino al 1° giugno
«Avvenire» del 3 gennaio 2014

Galileo «giullare» umanista: l’altra faccia di una vittima

È riduttivo ritrarre l'astronomo come un eroe della rivoluzione scientifica. Un’immagine fuori dagli stereotipi nella ricerca dello storico americano Heilbron
di Paolo Mieli
Brillante cortigiano dei Medici, amava filosofia e poesia. Considerava «magnifico, ricco e mirabile» l’«Orlando furioso» di Ludovico Ariosto, mentre si faceva beffe di Torquato Tasso e della sua «Gerusalemme liberata». Nelle dispute pubbliche la sua specialità era far proprie le posizioni dell’interlocutoreper poi confutarlo e umiliarlo all’improvviso
È assai riduttivo dipingerlo come un eroe o l’eroe della rivoluzione scientifica. Galileo Galilei, scrive John L. Heilbron in Galileo. Scienziato e umanista, che Einaudi pubblica in un’edizione magnificamente curata da Stefano Gattei, non fu semplicemente un matematico. O meglio non lo fu «più (o meno!) di quanto non fosse un musicista (come suo padre e suo fratello, Michelangelo, ndr), un artista, uno scrittore, un filosofo o una persona che si dilettava a costruire arnesi». Alla filosofia, volle precisare lui stesso, dedicò più anni dei mesi in cui si era impegnato con la matematica. Nel suo studio della Luna, del Sole e dei pianeti negli anni 1609-10, «quando era l’unico uomo sulla Terra a scrutare minuziosamente il volto della Luna e i satelliti di Giove», si giovò del poter fare ricorso «alle proprie capacità di osservatore e di disegnatore, alla propria abilità manuale di artigiano e alla propria conoscenza della prospettiva e dell’ombreggiatura, assai più che alle proprie capacità come matematico». I suoi libri devono tutto ad «anni passati a leggere i poeti e a sperimentare varie forme letterarie che gli permisero di scrivere in modo chiaro e plausibile delle cose più implausibili». Avrebbe potuto essere «un uomo di lettere, il segretario confidenziale di un duca o di un cardinale, e perfino di un granduca o di un Papa». Suo padre lo aveva avviato alla medicina, disciplina alla quale non si sentiva portato; scelse la matematica unicamente per sottrarsi ai progetti paterni. Spesso «metteva da parte le buone maniere», in particolare quando entrava in una disputa con qualcuno che non era d’accordo con lui. Questa «debolezza», insieme «ad un originale senso dell’umorismo e al piacere adolescenziale, che non perse mai, di battere le persone, gli procurò nemici potenti persino tra quanti rispettavano le sue doti». Questo per dire, sostiene Heilbron, che «Galileo non somigliava molto al tormentato inventore della scienza moderna descritto dalle storie abituali». I suoi conoscenti mai «si sarebbero aspettati che divenisse il nemico giurato di Aristotele, il paladino di Copernico, l’alfiere della matematica, la bestia nera dei gesuiti, o il più famoso di tutti i martiri della libertà accademica»: Galileo «non sarebbe diventato alcuna di queste cose se non avesse dovuto lavorare per vivere». I biografi di Galileo sono accusati da Heilbron di avere ceduto alla tentazione «di spingere troppo presto il loro gladiatore in un’arena immaginaria piena di filosofi testardi e di preti che sputano fuoco». È sì vero che egli «ha passato del tempo a discutere con persone del genere, soffrendone le conseguenze», ma «il Galileo gladiatore e martire della scienza iniziò come Galileo l’umanista patrizio». Ed è a descrivere questo secondo personaggio che si impegna Heilbron. A colui che, «armatosi del telescopio, disse apertamente tutto quello che conosceva e anche di più»; all’uomo che, sorprendendo i suoi colleghi e senza tener conto dei loro consigli, attaccò filosofi, teologi e matematici, derise i gesuiti e duellò con chiunque contestasse la sua supremazia o le sue opinioni. Divenendo «un cavaliere errante, donchisciottesco e senza paura», come uno dei paladini del suo poema preferito, l’Orlando furioso di Ariosto. Questo suo comportamento, «che gli conquistò una sempre più numerosa schiera di nemici, rese comprensibile e perfino inevitabile il suo disastroso scontro con un Papa (Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini) che per moltissimi anni era stato suo amico e ammiratore».
Il nostro scienziato, ricostruisce Heilbron, nacque lo stesso giorno, quasi alla stessa ora, della morte di Michelangelo, il 9 febbraio 1564 (ma la madre ne ritardò la dichiarazione di nascita al 16 dello stesso mese); poi visse 78 anni, «molti dei quali nell’occhio di un ciclone». Gli ultimi, dal 1610 in poi, in preda a «una forma avanzata di malinconia». Da giovane il suo libro preferito fu, come s’è detto, l’Orlando furioso ; si fece beffe, invece, della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (1581) che, data alle stampe dieci anni dopo la battaglia di Lepanto (1571), era divenuta uno dei componimenti preferiti dai gesuiti e il «poema ufficiale» della Controriforma. Per Galileo, Tasso era «gretto, povero e miserabile» tanto quanto Ariosto era «magnifico, ricco e mirabile». Ironizzava sul verso della Gerusalemme in cui, riferendosi al viso di Rinaldo, Tasso scriveva «fan biancheggiando i bei sudor più vivo»: «Non ho mai visto biancheggiare i sudori, se non intorno a i testicoli dei cavalli», fu la sferzante chiosa galileiana. Heilbron, grande estimatore per parte sua della Gerusalemme liberata , prende le distanze da questi giudizi di Galileo, imputandoli a «conservatorismo» e a «insensibilità alla profondità psicologica del Tasso».
Maestro di Galileo a Pisa fu Girolamo Borro, autore di Del flusso e reflusso del mare, elogiato da Michel de Montaigne, un testo molto irriverente nei confronti del potere ecclesiastico. Quando la Chiesa gli ordinò di inserire un paradiso cristiano nel suo firmamento, Borro rispose: «Ho sostenuto e dimostrato che non esiste nulla al di là della sfera (le stelle); mi è stato detto di ritrattare; vi assicuro che se c’è qualcosa, può essere solo un piatto di tagliatelle per l’inquisitore». Dopodiché fu immediatamente mandato in prigione.
Altro maestro pisano di Galileo fu il professore di filosofia Francesco Buonamici. Anche lui anticlericale, introdusse i «frati» nella classificazione aristotelica della vita senziente, come anello di congiunzione tra l’uomo e le bestie. In nessuno di questi esseri Buonamici ammetteva la presenza di un’anima immortale. Una volta gli chiesero se conosceva l’opera di san Tommaso e lui rispose che non leggeva «libri di frati». Era però protetto dal granduca di Firenze Cosimo I e questo valse ad evitargli guai seri. Nemico della Chiesa era anche Gianfrancesco Sagredo, il più caro amico di Galileo nel periodo successivo alla formazione, quello in cui soggiornò a Venezia. Quel Sagredo di cui è rimasta una lunga corrispondenza con un gesuita, nel corso della quale, a stuzzicare l’interlocutore, aveva finto di essere una vedova colta da dubbi teologici e con una gran quantità di denaro a disposizione.
Galileo stesso era un buontempone: «Si sbellicava dalle risate davanti all’umorismo di bassa lega di Ruzzante nonché al rude ed espressivo dialetto dei suoi personaggi». Teneva allegri i propri amici fiorentini con le sue letture in «lingua padovana». Uno dei modi con cui Galileo si guadagnava da vivere (probabilmente il più redditizio) era quello di fare oroscopi. Li faceva anche Keplero, che previde la morte del comandante boemo Albrecht von Wallenstein (1634), al servizio dell’imperatore Ferdinando II nella guerra dei Trent’anni. Ma quest’«arte» per Galileo era anche (se non soprattutto) un diletto: «Il fatto che si dedicasse a questa attività anche quando non era pagato per farlo», scrive l’autore, «suggerisce che egli vi attribuisse un qualche valore».
Fu Cristina, granduchessa di Toscana, che invitò Galileo alla villa Medici sulle colline di Pratolino, dove, qualche tempo dopo, sarebbe divenuto maestro privato di Cosimo. E fu sotto la protezione di quella famiglia che, lasciata la Repubblica di Venezia, nel 1609 alzò il telescopio verso il cielo dove scoprì i segreti della Luna e intuì che la Via Lattea non era «il prodotto di una complessa esalazione terrestre» (come si riteneva fino ad allora), bensì un complesso di stelle fino al momento non identificate come tali. A Firenze Galileo intraprese la sua nuova carriera da «cortigiano». Da professore di basso livello «era arrivato a diventare un giullare di alta classe, da cui ci si aspettava che mitigasse la monotona e formale routine di corte sfornando di tanto in tanto qualche meraviglia». Ad esempio con alcune «gare» che andavano di gran moda.
Cosimo spinse un professore di filosofia pisano, Flaminio Papazzoni, a rappresentare la posizione opposta a quella di Galileo in un dibattito che si sarebbe tenuto alla presenza della famiglia del granduca. Di norma questo tipo di spettacoli andava in scena dopo pranzo («un surrogato della televisione») e Galileo, quando gli veniva chiesto di farlo, era obbligato da contratto a parteciparvi. Fece dunque «la propria parte di giullare» (ma «molto potente»), rispondendo alle domande che gli venivano rivolte e difendendosi nel modo più arguto possibile. E anche se, in quanto momenti ricreativi, «le dispute postprandiali non richiedevano una dichiarazione di vittoria o un’ammissione di sconfitta», nel caso in questione, Galileo vinse con facilità. Non perché Papazzoni fosse incompetente, ma perché, dovendo la propria cattedra a una raccomandazione di Galileo stesso, non aveva alcun interesse a impegnarsi più di tanto.
A volte Galileo doveva confrontarsi con più sapienti in una stessa serata. Il metodo di Galileo era quello di parlare e parlare, in continuazione e in modo brillante, affrontando contemporaneamente tutti coloro che si presentavano a lui, come un campione di scacchi che gioca simultaneamente contro una dozzina di avversari. La sua specialità era far proprie le posizioni dell’interlocutore, per poi umiliarlo all’improvviso. Giocava con «le sue vittime raffinando le loro argomentazioni fino a dare l’impressione di renderle invincibili, per poi annichilirle». Lo spettacolo era garantito da questo colpo di scena finale. La corte, in cambio di queste prestazioni, gli avrebbe coperto le spalle per ogni sua attività speculativa. Tant’è che a Firenze Galileo, forte di questa protezione, provò (e riuscì) ad avere un rapporto proficuo con matematici e filosofi della Compagnia di Gesù. E quando diede alle stampe il Sidereus Nuncius, i Medici sollecitarono poemi di encomio da premettere alla successiva edizione in italiano (che non vide mai la luce). Ne rimane ancora una raccolta: quaranta esametri, dieci odi saffiche, due epigrammi e quattro distici, tutti scritti da gesuiti. I quali, secondo Heilbron, «avrebbero dovuto fare a Galileo il medesimo servizio che fanno oggi i giornali nei confronti degli scienziati, cioè promuovere e celebrare le scoperte prima che gli esperti si pronuncino su di esse».
La vicenda galileiana ebbe una svolta il 24 febbraio del 1616, quando undici teologi, selezionati dal Sant’Uffizio per valutare la teoria di Copernico sul «Sole centro del mondo e del tutto privo di moto locale», la giudicarono «formalmente eretica», perché in contrasto con le Sacre Scritture. Cosa che creò grande imbarazzo dal momento che il De revolutionibus di Copernico era stato pubblicato settant’anni prima, non era mai stato censurato e molti scienziati si erano rifatti a quel testo per dare basi alle loro teorie. Compreso Galileo. Il Papa ordinò al cardinal Bellarmino di ammonire Galileo ad abbandonare le opinioni «copernicane». E Galileo, che all’epoca aveva già pubblicato il Sidereus Nuncius, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua, obbedì come se si trattasse di una formalità.
I guai più seri per lui sarebbero venuti da due nuovi libri: Il Saggiatore e il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Il nuovo Papa, Urbano VIII, salito al soglio nel 1623, amava dissipare ricchezze ma soprattutto comporre versi. E in questo campo non voleva rivali. Fece addirittura mettere all’Indice l’Adone di Giambattista Marino, per disfarsi di un poeta che avrebbe potuto dargli ombra. Di Galileo apprezzava poco che fosse stato amico dell’autore della Istoria del Concilio Tridentino, di forte impronta antiromana, Paolo Sarpi (scomparso nel gennaio di quello stesso 1623). Ma apprezzò le frecciate ai gesuiti contenute nel Saggiatore, che si era affrettato a leggere. Il Papa trattò Galileo alla stregua di un pari grado. Gli concesse sei udienze private, due medaglie, la promessa di una pensione per il figlio e l’imprimatur per il Dialogo, a patto che presentasse le teorie copernicane come ipotesi. E perché tutti capissero che aria tirava sulla «questione Copernico», alla fine del 1624 il Papa fece dare alle fiamme, in Campo de’ Fiori, l’arcivescovo Antonio De Dominis (o meglio il suo corpo: era morto da tre mesi, dopo essere stato imprigionato a Castel Sant’Angelo) assieme ai suoi libri.
E venne l’epoca dei supposti complotti. Urbano VIII vedeva nemici ovunque e si era fatto di giorno in giorno più sospettoso. Per dare un’idea del clima dell’epoca, Giovanni Ciampoli, che era stato suo segretario, quando nel 1632 fu costretto a lasciare l’incarico, diede questi «consigli» al suo successore: «Cerca la protezione tra funzionari e ciambellani perché sono loro e non i cardinali ad avere il potere; ma non mirare troppo in alto». «Non fidarti di nessuno, non credere a nessuno; non incontrarti con altri uomini della corte nelle tue stanze, se non vuoi che qualcuno sparga la notizia di un complotto». «Evita l’ostentazione; non parlare del principe o di uno scandalo a corte; non parlare in modo saggio; cerca anzi di non parlare affatto». «Non criticare mai i preti e i monaci in pubblico; non mostrare alcuna preferenza per un qualsiasi particolare ordine; dai l’impressione di essere religioso, devoto e zelante, perché gli ipocriti hanno sempre successo». «Vieni spiato? Onora la spia; la simulazione è l’anima della corte». «Vuoi distruggere un rivale? Rendi pubblico il suo amore per le donne e per il denaro». «Evita di sembrare intelligente, e ricorda che la pazienza, per un uomo di corte, è ciò che la castità, la povertà e l’obbedienza sono per un monaco». «Se fai tutto questo potresti avere successo? prima di cadere». Suggerimenti che ben descrivono il contesto in cui Galileo si trovò a giocare la sua ultima partita.
Contesto che, però, poteva anche offrire delle opportunità. Il pontefice nel 1626 fece liberare Tommaso Campanella (imprigionato per eresia nel 1599) dopo che questi aveva lodato i suoi versi. E lo promosse consigliere astrologico nel momento in cui Campanella smentì la profezia secondo cui Papa Barberini sarebbe morto nel 1628 o nel 1630. Nel contempo Urbano VIII fece arrestare un grande amico di Galileo, Orazio Morandi, direttore del convento vallombrosano di Santa Prassede, perché si era prestato a calcolare quale probabilità, secondo gli astri, aveva questo o quel cardinale di succedergli. Morandi morì in prigione.
Nel 1631 il capo della Chiesa promulgò una bolla, Inscrutabilis, contro la divinazione, in particolare contro la previsione della morte dei papi o dei membri delle loro famiglie. E Urbano VIII che non solo non era morto nelle date previste dagli astrologi, ma aveva visto, nel 1632, cadere sul campo di battaglia il campione dei protestanti Gustavo Adolfo (era in corso la guerra dei Trent’anni) ed era stato ringraziato pubblicamente dalla sua cittadinanza per aver tenuto la peste lontano da Roma (1633), colse quel momento di forza per disfarsi di persone che avevano alzato troppo la testa. Fino ad infastidirlo. Il primo, come si è detto, fu Ciampoli. Il secondo, Galileo.
Questi fu convocato a Roma dall’Inquisizione. Recalcitrò. Ma poi fu costretto al viaggio dell’umiliazione. A Roma fu ospite dell’ambasciatore di Firenze, Francesco Niccolini. A questo punto il libro di Heilbron dedica alcune pagine molto interessanti a smontare l’accusa tradizionale secondo cui le disgrazie di Galileo sono da ricondurre all’ordine dei gesuiti. Galileo accettò la ritrattazione chiesta da Bellarmino: «Ho ceduto a quella natural compiacenza», disse, «che ciascheduno ha delle proprie sottigliezze e del mostrarsi più arguto del comune de gli huomini in trovare, anco per le propositioni false, ingegnosi et apparenti discorsi di probabilità». In ginocchio davanti all’Inquisizione, Galileo giurò di non dire o scrivere nulla sulla Terra in movimento o sul Sole fisso, a pena di essere nuovamente sospettato di eresia. Anche se non pronunciò mai, riferendosi alla Terra, la frase che, per riscattarlo, gli è stata attribuita per secoli: «Eppur si muove!».
Da quel momento Galileo invecchiò rapidamente tra amarezze e malanni. Il poeta inglese John Milton, che gli fece visita nel 1638, lo trovò piegato dalle sofferenze. L’inquisitore Giovanni Muzzarelli, che doveva accertare se davvero fosse malato, scoprì che dal 1637, a causa di un glaucoma, era diventato totalmente cieco. In seguito furono un lancinante dolore artritico, una strana febbre, il delirio. Morì l’8 gennaio del 1642. Urbano VIII scoraggiò il granduca Ferdinando dal proposito di erigergli un monumento, anzi gli negò il diritto di sepoltura a Firenze, così come aveva fatto per Paolo Sarpi a Venezia. Poi fu il silenzio. O quasi.

La vicenda di Galileo Galilei ebbe un svolta duecento anni (circa) dopo la sua condanna. All’inizio dell’Ottocento, in epoca postnapoleonica, un professore di matematica dell’Università di Roma, Giuseppe Settele, scrisse un libro di astronomia eliocentrico e lo inviò alla censura pontificia perché ne autorizzasse la pubblicazione. Il maestro del Sacro Palazzo, Filippo Anfossi, lo definì eretico e rifiutò di autorizzarne la divulgazione. Settele fece appello al Papa, Pio VII (Luigi Barnaba Chiaramonti), che girò il caso alla Congregazione dell’Indice e al Sant’Uffizio i quali, a sorpresa, decretarono che gli inquisitori di due secoli prima, quando avevano definito la teoria copernicana «contraria alle Scritture», non intendevano «contraria alla fede», bensì «opposta alla lettura tradizionale delle Scritture». Fu così che i testi copernicani, compresi quelli di Galileo, uscirono alla chetichella dall’Indice dei libri proibiti. A ridosso del 1815, in un’epoca - e la circostanza colpisce - di piena Restaurazione.
A dire il vero, qualcosa aveva cominciato a muoversi già nel Seicento. Heilbron suddivide in quattro fasi l’evoluzione che portò dalla condanna di Galileo al riscatto di Settele. La prima ha il suo «punto di non ritorno» nel 1651, allorché il gesuita Giovambattista Riccioli pubblicò l’Almagestum novum, in cui erano esposte 126 argomentazioni filosofiche, matematiche e teologiche pro e contro il copernicanesimo (49 a favore, 77 contrarie). Riccioli riprodusse i termini della discussione a vantaggio quantitativo dei nemici di Copernico, ma consentendo al lettore di farsi un’idea appropriata ed esauriente dei termini della disputa. Scrisse poi che lui respingeva le teorie copernicane «per obbedienza verso Roma» e non «perché la fede cattolica lo obbligasse a farlo». In altre parole, fu autorizzato a dire «che il Sant’Uffizio da solo non aveva l’autorità di dichiarare alcunché un’eresia o un articolo di fede». Solo il Papa (o il Concilio, con l’approvazione del Papa stesso) poteva «vincolare in questo modo la Chiesa».
«Non è una questione di fede che il Sole si muova e che la Terra rimanga ferma in forza del decreto della congregazione», scriveva; «al massimo, lo è in forza delle Sacre Scritture, per coloro per i quali è moralmente evidente che questo è quanto Dio ha rivelato». Dopodiché definiva Galileo «un matematico di immense capacità e incredibilmente abile in astronomia», che «sarebbe stato ancor più grande se avesse avanzato l’opinione di Copernico come una semplice ipotesi». Quel che gli aveva chiesto Urbano VIII.
Nella seconda fase, tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, racconta Heilbron, gli astronomi cattolici «si guadagnarono il diritto di insegnare e perfino di sviluppare la teoria copernicana, se vi si riferivano esplicitamente e ripetutamente come ad un’ipotesi». Nel 1685 il Sant’Uffizio accolse la richiesta di scrivere «ipotesi erronea» sul frontespizio di un libro sul sistema copernicano. Al testo andava poi aggiunta la frase: «Dato che la Chiesa ha dichiarato che le Sacre Scritture insegnano espressamente il contrario, questo sistema non può essere difeso in alcun modo». Ma la novità era che di fatto si autorizzavano - pur con le cautele di cui si è detto - la pubblicazione e la diffusione del libro. Nello stesso modo in cui, osserva Heilbron, «le società moderne consentono la vendita di sigarette con l’indicazione che sono dannose». Fu così che gli inquisitori di Clemente XI chiusero un occhio, nel 1710, in occasione della pubblicazione «clandestina» del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo , ad opera di uno stampatore napoletano di libri proibiti.
La terza fase della riabilitazione sottotraccia di Copernico e Galileo andò dal 1710 al 1760. Un caso anticipatore di quello di Settele si ebbe già nel 1744, quando Giuseppe Toaldo pubblicò un’edizione, opportunamente emendata, delle Opere di Galileo. Anche qui fu un pontefice, Benedetto XIV, a vincere le resistenze all’interno della Chiesa. Benedetto XIV, però, non autorizzò l’uscita del Dialogo dall’Indice. Successivamente la Chiesa attribuì ai seguaci della Compagnia di Gesù - fu soprattutto il padre barnabita Paolo Frisi - l’intera colpa dell’accaduto a danno di Galileo. Il che fu reso più agevole dalla circostanza che, nel 1773, Papa Clemente XIV aveva soppresso l’ordine dei gesuiti stesso. La quarta fase fu quella che precedette (e rese possibile) la vicenda Settele. Dopo la vittoria di Settele, però, si dovettero attendere alcuni decenni prima del passo successivo. Che fu ad opera di Leone XIII, il quale, con l’enciclica Providentissimus Deus (1893), pur senza nominare Galileo, stabilì, in un contesto di difesa delle Sacre Scritture, che Dio non aveva inteso insegnare la fisica per tramite di Mosè. Ne discendeva che Galileo non si era macchiato di nessuna colpa. Poi, nel 1942, fu la volta di Pio XII, che il nome di Galileo lo pronunciò. E addirittura affidò a monsignor Pio Paschini il compito di scriverne una biografia di sostanziale riabilitazione. Ma i gesuiti (ricostituiti in ordine dal 1814) si opposero alla pubblicazione e il manoscritto, in due volumi, sparì. Per ricomparire dopo il Concilio Vaticano II, per intercessione di Paolo VI, in linea con un suggerimento che era stato già di Giovanni XXIII. Nel corso del Concilio il nome dello scienziato era riapparso, il 30 aprile 1964, nella consulta di preparazione allo schema 13 su La chiesa e il mondo d’oggi , la volta che il cardinale belga Leo Josef Suenens prese posizione sul problema della regolazione delle nascite dicendo: «Seguiamo il progresso della scienza! Vi scongiuro, fratelli miei, evitiamo un nuovo “processo Galilei”. Ne basta uno solo per la Chiesa!».
Giovanni Paolo II nel 1979 fece il resto, con la celebre allocuzione in cui esaltò la figura di Galileo e riconobbe apertamente che lo scienziato aveva dovuto «soffrire moltissimo nelle mani degli uomini e degli organismi della Chiesa». Dopodiché il Papa polacco istituì una commissione che riesaminasse il caso e nel maggio del 1983 rese omaggio al grande scienziato, organizzando un congresso internazionale in Vaticano. Ma i lavori della commissione andarono poi a rilento («tra letargo e apatia», scrive Heilbron), finché il pontefice fu costretto ad intervenire sul presidente del Pontificio consiglio per la cultura, il cardinale Paul Poupard, il quale finalmente (nel 1992) rese noti i risultati. Risultati assai ambigui. Essi tenevano conto delle osservazioni del gesuita Walter Brandmüller: Galileo, secondo la Commissione, «aveva proceduto correttamente lungo la difficile strada dell’esegesi delle Scritture; i cardinali avevano negoziato con pari abilità l’altrettanto difficile strada dell’epistemologia».
Una formulazione che tendeva a dar ragione sia a Galileo sia a coloro che lo avevano condannato e che Heilbron definisce, in alcuni passaggi, «perfino comica». Ma il recupero di Galileo era ormai in prossimità del traguardo fissato da Giovanni Paolo II: quello della definitiva riammissione dello scienziato nel recinto della comunità cristiana. In seguito è perfino accaduto che «reliquie» di Galileo siano state esposte in chiese, a suo tempo da lui frequentate, di Venezia, Padova, Firenze e Roma. Si potrebbe pensare che sia iniziato un processo di beatificazione. Qualcuno potrebbe obiettare che Galileo non fece miracoli. Ma - ribatte Heilbron - neanche Tommaso d’Aquino ne aveva fatti.
In sostanza, scrive Heilbron, «Galileo fece un miracolo stupendo: distrusse l’antica distinzione tra regni terrestre e celeste, sollevò la Terra in cielo, rese i pianeti tante Terre e rivelò che la nostra Luna non è unica nell’universo. Secondo la meccanica di Galileo, la più piccola forza può muovere il più grande peso, in un tempo sufficiente; la direzione del moto è chiara: chi può dubitare che entro i prossimi quattrocento anni la Chiesa riconoscerà i doni divini di Galileo, riparerà alle sue sofferenze, ignorerà la sua arroganza e lo farà santo?». Conclusione paradossale. Ma fino a un certo punto.
«Corriere della Sera» del 10 dicembre 2013

Web e fiuto: così nasce un successo letterario

di di Giulia Taddeo
Per provare a raccontare più da vicino cosa fa un ufficio stampa niente è meglio che mettere sotto la lente d’ingrandimento un caso: la storia di un autore e dei suoi due esordi nella letteratura per bambini e ragazzi.
Ogni strategia di comunicazione è un azzardo, una scommessa. Da dove iniziare allora a costruire questa scommessa? A cosa dare più peso? Alla forza del marchio editoriale per cui esordiva o alla sua fama nel suo ambiente di elezione?
L’autore (lo diciamo subito, è Tito Faraci) con cui lavorare difatti non era un semplice esordiente nel mondo della narrativa per l’infanzia. Era un noto sceneggiatore italiano, un’autorità nel suo genere, creatore delle storie di personaggi che, anche grazie a lui, erano entrati nella leggenda. Ma io dovevo occuparmi della promozione del suo libro, non della sua nuova sceneggiatura. E, per di più, il libro non era rivolto al suo pubblico affezionato.
Comunicare i libri per ragazzi è un’impresa particolarmente complessa perché è una operazione mediata. Tranne rare eccezioni, i nostri messaggi promozionali non sono rivolti al vero pubblico di lettori, cioè i bambini o i ragazzi, ma a degli intermediari, che siano i loro familiari o insegnanti.
Meglio provare a dire loro che è arrivato in libreria un nuovo divertente romanzo della collana preferita dai loro ragazzi o che una celebrità proveniente da un altro mondo culturale ha appena esordito nella letteratura per l’infanzia?
Si dovrebbe sempre puntare sull’argomento più forte e in questo caso, non dimenticando di dire che si trattava di un «esordio importante» ho preferito puntare sulla forza del marchio e della trama. Non dimentichiamo che se questo sceneggiatore era così apprezzato era per la bravura con cui scrive le sue storie. Ciò ha garantito un successo di promozione e di vendita del libro a tal punto da portare lo sceneggiatore a essere ospite di numerosi festival letterari per incontrare i suoi piccoli lettori.
Dopo due anni da quel libro l’autore in questione è tornato a pubblicare per la casa editrice in cui lavoro e stavolta tirava fuori la sua anima più dark: un romanzo di formazione in chiave horror, sulla scia del grande Stephen King, per i lettori adolescenti e, non secondariamente, per il pubblico delle sue storie. Non troppo paradossalmente, visto che si rivolgeva ad un nuovo target, si trattava di un nuovo esordio da comunicare. Ma stavolta le carte da giocare erano altre e più promettenti.
Infatti, nel frattempo, l’autore in questione era divenuto anche una twitstar, ossia una star di Twitter. Quindi, per la prima volta nel mio lavoro, anche la comunicazione sul web 2.0 acquistava centralità nel piano di comunicazione del libro e del suo autore.
Con la diffusione massificata dei social, anche tra le celebrities letterarie, si è verificata una rivoluzione copernicana per il mio lavoro: non solo i lettori possono trasformarsi in critici e esprimere pubblicamente il loro parere sulle loro letture, condividendolo direttamente con i loro contatti, ma pure la distanza tra lettore, autore ed editore è stata praticamente spazzata via, visto che i canali di comunicazione web 2.0 permettono loro di essere in contatto diretto e costante, senza più il filtro dei mezzi di comunicazione tradizionali.
Questi cambiamenti hanno obbligato gli uffici stampa dapprima a monitorare, e, in un secondo momento, a provare a gestire anche questo tipo di medium, in vista di una comunicazione più efficace dei libri, che potesse parlare direttamente al suo pubblico ideale di lettori.
Una strategia di questo tipo è quella che ho scelto di adottare per il lancio del secondo libro, o meglio, del nuovo esordio dello sceneggiatore. Accanto alla comunicazione con i media tradizionali, in cui stavolta la sua fama e il suo talento hanno avuto maggiore centralità visto che si rivolgeva ad un pubblico pressoché coincidente con quello dei lettori delle sue altre storie, insieme a lui ho scelto di dare importanza alla comunicazione on-line, organizzando chat su Twitter con i suoi «follower» più incuriositi dal vederlo nella sua nuova veste di scrittore di libri. Ciò ha innescato un circolo virtuoso non solo accrescendo la sua popolarità per il suo essere affabile e complice con i suoi lettori, ma dando visibilità anche alla casa editrice e alla collana per i cui tipi usciva il libro in questione.
Il risultato è stato di successo perché grazie alla qualità della sua scrittura il libro ha ricevuto sia da parte della stampa tradizionale sia da parte dei lettori on-line un’ottima accoglienza e lo sceneggiatore può da allora definirsi anche uno scrittore. E per acclamazione pubblica.
Al di là del fatto che si tratti di una storia di successo ho voluto portare questo esempio per dimostrare come i due libri, anche se di uno stesso autore, abbiano imposto una strategia di comunicazione diversa, su misura e che essere un professionista della scrittura non equivalga ad essere un autore. E’ quest’ultimo uno status che va conquistato: sicuramente con la qualità dell’opera, ma pure attraverso la cornice che quelli che fanno il mio mestiere gli costruiscono attorno. Si tratta, in altre parole, di “chiavi di lettura” con cui interpretare lui e la sua opera.
Lo sceneggiatore nel frattempo ha scritto un altro libro che ha avuto grande successo di critica, dentro e fuori dalla Rete. Non ci resta che aspettare allora il prossimo…
«Corriere della Sera» del 4 gennaio 2014

04 gennaio 2014

Per Beccaria vittoria a metà su tortura e pena di morte

In tre volumi pubblicati dal Mulino un bilancio sulle idee dell'autore illuminista. La ricorrenza Nel 2014 saranno celebratii 250 anni del libro «Dei delitti e delle pene»
di Paolo Mieli
Violenze ed esecuzioni capitali restano pratiche diffuse. Bentham giustificava l'accanimento sul colpevole, e pensatori del calibro di Montesquieu, Rousseau e persino Kant e Hegel erano favorevoli alle esecuzioni. Luigi Ferrajoli nota come spesso le garanzie per gli imputati siano messe a rischio dall'atteggiamento dei magistrati inquirenti
Tra breve cadranno i 250 anni del 1764, allorché Cesare Beccaria diede alle stampe Dei delitti e delle pene. Beccaria aveva 26 anni (era nato nel 1738) quando pubblicò - senza firmarlo - quel libro e, ai tempi, era un giovane funzionario dell'amministrazione austriaca in Lombardia. Il saggio è uno straordinario atto d'accusa contro la pena di morte e contro la tortura (quest'ultima già abolita in Svezia nel 1734, a Ginevra nel 1738, in Prussia nel 1740, in Austria nel 1752: però in Francia lo sarà solo nel 1780). Ma, a metà Settecento, l'abolizione della pena capitale è ancora un tabù. Beccaria, per privilegiare il carcere al patibolo, scrive: «Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, bensì il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti». Il condannato che espìa sul patibolo suscita una «compassione mescolata al disprezzo», piuttosto che «il salutare terrore che la legge pretende ispirare».
Dopodiché si pone un problema che molti (ad esempio qui da noi i Radicali) affrontano ancora oggi: non è da considerarsi la schiavitù perpetua, vale a dire l'ergastolo, contraria quanto la morte a ogni principio di civiltà e ugualmente crudele? Beccaria risponde che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù, lo sarà, crudele, anche di più, ma questi «sono stesi sopra tutta la vita e quella esercita tutta la sua forza in un momento? ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede che chi la soffre». Laddove più che l'argomento usato per ribattere ai fautori del patibolo, va considerata la sensibilità che lo porta ad individuare, già a metà Settecento, il labile confine tra capestro e prigione a vita.
Beccaria si batte con decisione per la secolarizzazione della giustizia. I crimini, secondo lui, non devono più essere concepiti come peccati, ma soltanto come infrazioni sociali: «Io non parlo che dei delitti che emanano dalla natura umana e dal patto sociale, non dei peccati, de' quali le pene, anche temporali, debbono regolarsi con altri principii che quelli di una limitata filosofia». Spingendosi a chiedere una riformulazione di tutte le pene, ivi compresa quella per i suicidi, che all?epoca si traduceva nella pratica dei «processi ai cadaveri» (una sentenza del Parlamento di Parigi del 1749 disponeva che - a offesa dei parenti - i corpi di coloro che si erano dati la morte fossero messi pubblicamente su una graticola, «testa in giù, faccia rivolta contro la terra»). La repressione del suicidio, scriveva Beccaria, è socialmente inutile: punisce una famiglia innocente, agisce senza effetto «sul corpo freddo e insensibile» del morto. Inoltre la pena «non farà alcuna impressione sui viventi, come non lo farebbe lo sferzare una statua». Il «processo ai cadaveri» è per lui un'usanza «ingiusta e tirannica perché la libertà politica degli uomini suppone necessariamente che le pene sieno meramente personali».
Parole di fuoco spendeva poi contro la lentezza dei processi: «La prontezza delle pene è più utile, perché quanto è minore la distanza del tempo che passa tra la pena ed il misfatto, tanto è più forte e più durevole nell'animo umano l?associazione di queste due idee, delitto e pena, talché insensibilmente si considerano uno come cagione e l'altra come effetto necessario immancabile». Va ricordato che quando Beccaria scrive non sono ancora stati del tutto aboliti i roghi delle streghe ed è ancora vivo il ricordo dell?atroce morte inflitta nel 1757 (dopo il «supplizio delle tenaglie») a Robert Damiens, «squartato da quattro cavalli» per aver ferito con un colpo di temperino il «corpo reale» di Luigi XV. In Francia, l'abate André Morellet lesse Dei delitti e delle pene e lo tradusse nella sua lingua, impegnandosi a diffonderlo. A operazione compiuta, il 3 gennaio del 1766 scrisse a Beccaria i sensi della propria ammirazione. Beccaria gli rispose raccontandogli quanto fosse stato importante per lui la lettura delle Lettere persiane di Montesquieu, del rilievo che avevano avuto per la sua formazione autori come Helvétius, Diderot e d'Alembert, di quanto avesse contato, più in generale, la cultura francese per aprirgli gli occhi dopo «otto anni di istruzione fanatica e servile» ricevuta dai gesuiti. Sembravano le premesse per un asse illuminista che avrebbe presto congiunto Milano a Parigi. E invece?
Anno fatidico il 1766. In febbraio, Dei delitti e delle pene viene messo all'Indice dalla Chiesa di Roma e alcuni mesi dopo (in settembre) Voltaire proclama Beccaria «fratello in filosofia». Nel 1767 il libro sarà tradotto in inglese da John Almon. Quello stesso anno ne comparirà una vibrante confutazione ad opera di Pierre-François Muyart de Vouglans (definito da Voltaire «l'avvocato della barbarie»). Il monaco Ferdinando Facchinei accuserà Beccaria di essere il «Rousseau degli italiani». Definizione che lui accoglierà come un encomio. Nel 1770, Gustavo III di Svezia esprime il suo apprezzamento per l'opera. Lo stesso faranno in Spagna Carlo III e negli Stati Uniti Thomas Jefferson. Nel 1786, il granduca di Toscana Leopoldo II, in omaggio alle sue tesi, abolirà la pena di morte.
Ma torniamo al 1766. Quell'anno, scrive Michel Porret, nel libro Beccaria. Il diritto di punire (di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino), il nostro autore sarà amareggiato da alcune circostanze. In particolare da un viaggio a Parigi che compirà in autunno. I suoi due più cari amici Alessandro e Pietro Verri, fondatori dell'Accademia dei Pugni e della rivista «Il Caffè», lo convincono ad andare in ottobre, a Parigi, dove per merito, come si è detto, dell'abate Morellet il suo libro è già molto famoso. Lì in Francia, però, «l'intellettualismo gelido e il clima libertario dei salotti letterari parigini», racconta Porret, «infastidiscono il milanese; la sua timidezza invece delude i francesi? Malinconico, geloso della moglie corteggiata da Pietro Verri, Beccaria, in dicembre, lascia prematuramente Parigi e ritorna a Milano. Progettato per sei mesi il suo 'tour filosofico' è un fallimento».
Da quel momento si fa sempre più schivo e sospettoso. È invitato in Russia per entrare in una commissione legislativa voluta da Caterina II, così come Diderot che viene chiamato a fare da istruttore al futuro zar Paolo I. D'Alembert sconsiglia a Beccaria quel passo: «Perderete molto al cambio, un bel clima per un Paese molto sgradevole, la libertà per la schiavitù, e i vostri amici per una principessa di gran merito, ma che tuttavia è meglio avere come amante che come moglie». Risultato: Diderot accetta, mentre Beccaria rifiuta. Poi una nuova delusione. Nell'Enciclopedia, che viene pubblicata dal 1751 al 1772 (quindi per ben otto anni ancora dopo l'uscita di Dei delitti e delle pene) di lui non si fa menzione. Nel 1769 Beccaria accetta di essere nominato professore in «Scienze camerali» presso le Scuole palatine di Milano. Nel 1791 accoglierà l'invito a far parte della commissione per la revisione del sistema giudiziario civile e criminale della Lombardia austriaca. Nel 1794, all'età di 56 anni, morirà per un colpo apoplettico. Nove anni dopo che sua figlia Giulia aveva dato alla luce Alessandro Manzoni. Quella Giulia che, per uno strano intreccio della storia, a dispetto del matrimonio con l'anziano conte Pietro Manzoni, aveva perso la testa per il vivace Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro. Oggi, ad oltre due secoli dalla morte di Beccaria, Michel Porret ricorda che nel mondo solo 109 Stati su 192 (poco più della metà) hanno gradualmente eliminato la pena capitale, oppure rinunciano al suo impiego. Ma, come con ostinazione ci riportano alla memoria i seguaci di Marco Pannella e di Emma Bonino, accanto a regimi autoritari (Cina, Iran, Iraq, Pakistan) e teocratici, nei quali la sfera religiosa contamina sempre quella penale (Afghanistan, Arabia Saudita, Nigeria), gli Stati Uniti restano l'unica potenza democratica che si sottrae all'abolizione totale della pena di morte. Anche se la Corte suprema ne limita ora l'applicazione (esclusa per i malati di mente), essa rimane in vigore in 38 Stati. E tutte, ma proprio tutte, le rivoluzioni del secolo scorso si sono distinte per il ricorso al capestro.
A 250 anni dalla pubblicazione del suo libro, siamo dunque ben lontani dall'aver assistito al trionfo di Beccaria. Anzi in alcuni campi, come quello delle sevizie sui prigionieri, si sono fatti addirittura dei passi indietro. Per fortuna, però, il solco da lui tracciato è ancora assai fecondo. E un bel libro di Massimo La Torre e Marina Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura? Ascesa e declino dello Stato di diritto (Il Mulino), ne è la riprova. Il libro è interamente dedicato al mondo del dopo 11 settembre 2001, dove «tutto pare rimesso di colpo in discussione». Vengono ricordate la dure parole di Beccaria contro le crudeltà nei confronti dei sospettati: «Un altro ridicolo motivo contro la tortura è la purgazione dell'infamia, cioè un uomo giudicato infame dalle leggi deve confermare la sua deposizione collo slogamento delle sue ossa. Quest'abuso non dovrebbe essere tollerato nel decimottavo secolo». «Noi scriviamo nel XXI», si limitano ad aggiungere i due autori. I quali ricordano come Josef von Sonnenfels, consigliere della corona asburgica, nel 1775 scrisse, nel saggio Sull'abolizione della tortura (pubblicato a Zurigo), che quello poggiato sulle afflizioni non era potere legittimo, bensì tirannia. Tirannia che si regge su un intreccio di violenza e paura, intreccio che dà l'illusione a colui che vi fa ricorso di aumentare la propria stabilità, proprio nel momento in cui sta imboccando il cammino del suo declino. Quel che avrebbe ripetuto con forza anche Gaetano Filangieri. E che avrebbe ribadito nel Novecento Hannah Arendt: «Il dominio per mezzo della pura violenza entra in gioco quando si sta perdendo il potere». In Sulla violenza (Guanda) la Arendt scrive: «Sostituendo la violenza al potere si può ottenere la vittoria, il prezzo però è molto alto; in quanto viene pagato non solo dal vinto ma anche dal vincitore? In nessun caso il fattore di autodistruzione nella vittoria della violenza sul potere è più evidente che nell'uso del terrore per mantenere la dominazione. Il terrore non è la stessa cosa della violenza; è piuttosto la forma di governo che viene in essere quando la violenza, avendo distrutto tutto il potere, non abdica, ma al contrario rimane in una posizione di controllo assoluto». Va ricordato però che il citato Sonnenfels, a differenza di Beccaria, concesse una deroga all'abolizionismo: definì la tortura «lecita» laddove si tratta di scoprire i complici del reo. È possibile che l'«eccezione di Sonnenfels» sia stata pensata, concedono La Torre e Lalatta Costerbosa, «al fine di rendere la sua proposta abolizionista meno radicale e dunque capace di ottenere l'approvazione della corona». Resta il fatto che il suo abolizionismo non è «assoluto» e «lascia aperto un varco all'uso della tortura nelle situazioni di emergenza che sono oggi - come sappiamo - quelle che si invocano per giustificare la revisione del consolidato e assoluto divieto di torturare». Proprio quelle che Friedrich von Spee già all'inizio del Seicento aveva riconosciuto come «insidiose e infondate». A rendere più evidenti i tratti della sua grandezza, La Torre e Lalatta Costerbosa fanno notare quante resistenze incontrò Beccaria. Per ironia della sorte nel Ducato di Milano fu Gabriele Verri, padre di Pietro, Alessandro e Giovanni a formulare un parere del Senato contrario all'abolizione della tortura. Gabriele Verri suggerisce un «uso temperato della tortura» (cioè non esteso a tutti i reati, escludendo «i casi senza prova alcuna e coloro che già sono stati condannati a morte»); tortura che, però, Verri padre conferma valida tanto nell'interrogatorio come mezzo per l'accertamento della verità, quanto come pena prevista per taluni reati.
Per mettere meglio in risalto la novità rappresentata da Beccaria, molte pagine di questi libri sono dedicate a importanti pensatori che in un modo o nell'altro hanno giustificato la tortura. È il caso di Jeremy Bentham, che «sorprendentemente» accetta, nel 1843, questo genere di vessazioni. Colpisce un passaggio in cui Bentham sostiene che la tortura è una specie di pena, la quale, però, ha uno scopo ben più, e meglio, circoscritto, o determinato, e dunque si presta meno all'abuso. Quale sia lo scopo della detenzione del reo per Bentham «è poco chiaro»; il rapporto tra fatto (pena detentiva) ed effetto (comunque vago) è in tal caso ipotetico e indeterminato. Nella tortura al contrario la «catena causale» tra fatto ed effetto o risultato è assai più definita e precisa (meglio, proporzionale) di quanto non accada in ogni altra forma di pena. Infatti torturando si infliggerà solo ed esclusivamente quella misura di coazione e di sofferenza che sia necessaria ad indurre il reo a una certa azione o ammissione. Nella detenzione invece, osserva Bentham, la proporzionalità è violata, poiché lo scopo della punizione non risulta affatto chiaro. A Bentham si sarebbe potuto obiettare che «la detenzione è predeterminabile nella sua durata, e dunque non si presta sotto questo profilo all?abuso di colui che la commina, mentre la tortura è necessariamente indeterminata tanto per la durata quanto per l'intensità delle sofferenze inflitte». Ma Bentham risponde preventivamente che tale indeterminatezza è prodotta dalla condotta del reo, il quale continua a non rispondere alle domande che gli vengono rivolte o a non cedere alle richieste che gli vengono indirizzate.Restando alla tortura, importantissimo è poi, secondo La Torre e Lalatta Costerbosa, il discorso di Beccaria sulla presunzione di innocenza. «Un uomo», scrive Beccaria, «non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch'egli abbia violato i patti coi quali gli fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dà la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente?». Discorso qui fatto per la tortura, ma che può tranquillamente essere esteso a forme particolarmente afflittive della carcerazione preventiva. Come è quella di far calare una cappa di infamia sul «detenuto in attesa di giudizio». «Parlò invano e ancora per molti anni Cesare Beccaria», ha scritto Francesco Calasso nella voce «Tortura» della Enciclopedia italiana (1937), «ma la Rivoluzione francese spazzò via per sempre» la tortura, «chiudendo così una delle pagine più dolorose e lugubri della storia dell'umanità». «E colpisce, anzi scoraggia», affermano nel 2013 La Torre e Lalatta Costerbosa, che quell?analisi che doveva «apparire ovvia» alla fine degli anni Trenta, oggi risulti invece «ottimistica e ingenua». Pur tuttavia Beccaria ebbe molti riconoscimenti dopo la morte. Ma all'epoca in cui visse fu un incompreso. Anche negli ambienti che avrebbero dovuto essergli non ostili. A favore della pena capitale, sia pure in casi limite, era stato Montesquieu per il quale «un cittadino merita la morte, quando ha violato la sicurezza al punto da togliere la vita, o da cercare di toglierla. Tale pena di morte è come il rimedio della società malata». Lo sarà Rousseau, secondo cui la forca è legittima contro il «nemico pubblico» che si manifesti in contrasto allo Stato: in questo caso è «un atto contro un nemico piuttosto che un'azione contro un cittadino» (quel «nemico pubblico», gli risponderà Beccaria, non è altro che un «uomo vinto»). E contro l?abolizione della pena di morte saranno sia Kant che Hegel. Kant - ricorda Michel Porret - intorno al 1796 rimprovera a Beccaria «il sentimento di falsa umanità» che lo ha ispirato e stabilisce che «il diritto di punire è il diritto del sovrano nei confronti dei suoi sudditi di infliggere loro una pena dolorosa in ragione del crimine commesso». Senza questo diritto, afferma il filosofo, «il diritto cede, l?ordine crolla, il legame sociale si sfalda, lo Stato vacilla». E Hegel la pensa più o meno nello stesso modo. Del resto, Voltaire - che pure di Beccaria era stato un grande estimatore - nel 1768 gli aveva scritto una lettera di encomio sì («Voi avete spianato il cammino dell'equità, nel quale tanti uomini procedono ancora come barbari»), ma con uno spiraglio aperto nei confronti della pena di morte. Voltaire aveva paragonato la propria difesa di Jean Calas - nel Trattato sulla tolleranza (1763) - a quella che Beccaria aveva fatto del cavaliere de la Barre mandato a morte, non ancora ventenne, il 1 luglio 1766 per non essersi tolto il cappello al cospetto di una processione e per aver pronunciato frasi blasfeme. Una vicenda quest'ultima «più orribile» di quella di Calas il quale, scrive il filosofo, «avrebbe meritato il suo supplizio se l'accusa fosse stata provata». E invece no: secondo Beccaria nessuno e per nessun motivo può mai meritare quel supplizio. Ancora più dirompente è - sempre nel solco aperto da Beccaria - quel che afferma Luigi Ferrajoli in un libro-conversazione con Mauro Barberis: Dei diritti e delle garanzie (Il Mulino). Ferrajoli, uno dei magistrati che alcuni decenni fa fondarono Magistratura democratica, se la prende con l'attuale «andamento circolare della logica inquisitoria, che rende le tesi accusatorie di fatto infalsificabili». Una «tentazione pericolosa soprattutto nei grandi processi, nei quali, anche a causa della loro risonanza mediatica, il magistrato inquirente è portato a vedere nella conferma in giudizio delle ipotesi accusatorie una condizione della propria reputazione professionale». D?accordo, ma che c'entra Beccaria? «È questa forza del pregiudizio», risponde Ferrajoli, «che trasforma il procedimento in quello che Cesare Beccaria chiamò il "processo offensivo", nel quale il giudice anziché essere "un indifferente ricercatore del vero" diviene nemico del reo». E non vuole trovare la verità del fatto, «ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quell'infallibilità che l'uomo si arroga in tutte le cose».
A Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Diderot e Condorcet, vale a dire ai filosofi dei Lumi è ispirata la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino decretata dall'Assemblea nazionale il 26 agosto 1789, che pure manteneva in vigore «l'ultimo supplizio». E in Francia, a dispetto delle molteplici battaglie abolizioniste (la più celebre delle quali fu quella di Victor Hugo con il libro L'ultimo giorno di un condannato e altri scritti sulla pena di morte pubblicato in Italia da Rizzoli), l'abrogazione della pena di morte si avrà solo nel 1981, ad opera del ministro della giustizia Robert Badinter.
Dopodiché, prosegue Ferrajoli (qui in sintonia piena con i Radicali italiani), «si dovrebbe avere il coraggio di togliere al carcere la centralità che occupa negli odierni sistemi punitivi, e non solo nel nostro, approvando misure di drastica decarcerizzazione». Il carcere, «lo sappiamo, è un'invenzione moderna: una conquista dell'illuminismo penale, in alternativa alla pena capitale, ai supplizi, alle pene corporali, alla gogna e agli altri orrori del diritto premoderno; tuttavia, poiché consiste nella privazione di un diritto fondamentale come è la libertà personale, oltre che di vessazioni lesive della dignità della persona, esso si giustifica solo nella misura "minima possibile" secondo l'insegnamento di Beccaria: come extrema ratio, cioè soltanto per reati lesivi di altri diritti o beni fondamentali costituzionalmente stabiliti».
Ciò che, a detta di Ferrajoli, richiede almeno tre riforme. La prima è «l'abolizione della vergogna, in Europa ormai quasi soltanto italiana, della pena dell'ergastolo, palesemente in contrasto con l'articolo 27 della Costituzione secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato». La Corte costituzionale ha dichiarato con due sentenze (nel 1974 e nel 1983) che questo genere di pena non è incostituzionale perché di fatto virtualmente non è perpetua, essendo riducibile a 28 anni di reclusione grazie alla sospensione condizionale e a circa vent'anni grazie ai benefici di pena introdotti dalla riforma penitenziaria del 1975 ed estesi dalla legge Gozzini del 1986. Ma, osserva Ferrajoli, «a parte che questo non è vero, essendoci ancora nelle nostre carceri molti ergastolani che hanno espiato ben più di 28 anni di reclusione, la Corte costituzionale non deve decidere sui fatti bensì sulle norme, censurandone l'invalidità, quale che sia il numero di violazioni costituzionali da esse reso di fatto possibile».
La seconda delle tre riforme, sempre secondo Ferrajoli, dovrebbe consistere in un drastico abbassamento della durata della reclusione, fino ai livelli degli altri Paesi europei: non più quindi gli attuali trent'anni, ma venti o quindici, come in Francia, in Germania, in Danimarca e nei Paesi scandinavi e come potenzialmente avviene anche in Italia qualora siano concessi, nella forma delle attuali misure alternative alla detenzione, i benefici di pena previsti, in base ai progressi nella rieducazione, dalla legge Gozzini. Ne conseguirebbe «oltre alla restaurazione della certezza delle pene, l'eliminazione di tutti quegli strani esami diagnostici oggi richiesti per la concessione dei benefici e consistenti, quando non si risolvono in giudizi puramente burocratici, in lesioni della libertà interiore della persona, cioè del suo diritto di essere e rimanere quella che è».Terza riforma che ci imporrebbe la coerenza con Beccaria e «forse la più importante» dovrebbe essere «la previsione della reclusione per i soli reati più gravi e, per tutti gli altri reati, di pene più lievi quali sono le attuali misure alternative, che occorrerebbe perciò trasformare in pene principali, irrogate direttamente dal giudice al momento della condanna: come gli arresti domiciliari, la detenzione di fine settimana, la sorveglianza speciale, la libertà vigilata e l'affidamento in prova ai servizi sociali». Ripetiamo: c'è una grande sintonia con alcune importanti battaglie dei Radicali italiani nonché di settori consistenti (e trasversali) della politica, ma anche della cultura del nostro Paese. È probabile che il prossimo anno, quando si ricorderanno i due secoli e mezzo dalla pubblicazione dell'importante libro di Cesare Beccaria, dai convegni a lui dedicati vengano fuori idee (e iniziative) destinate ad avere un'eco maggiore di quella prodotta dalle celebrazioni. È molto probabile.
«Corriere della sera» del 23 dicembre 2013