23 dicembre 2013

Non tutto lo Stato vien per nuocere

di Antonio Carioti
Il potere gerarchico spezza l’eguaglianza primitiva, ma genera la civiltà
Harold Barclay, antropologo canadese, non ama lo Stato. Sottolinea che per lunghissimo tempo, fino a poche migliaia di anni fa, gli uomini ne hanno fatto a meno e che nella maggior parte dei casi esso è stato imposto con la violenza a genti che non ne avvertivano il bisogno. Ricorda l’importanza della cooperazione spontanea nell’economia e nella cultura, negando che i fenomeni sociali «necessitino di una testa o debbano essere controllati da un’organizzazione centrale». Afferma che lo Stato è «un’istituzione intrinsecamente dispotica», anche se dotato di istituzioni elettive, poiché nessuna democrazia «si è liberata dalla divisione tra governanti e governati».
Tuttavia, nel breve e denso saggio Lo Stato (Elèuthera), Barclay deve ammettere che «il flusso principale della storia» ha spinto verso la creazione di «società statuali». Profonde trasformazioni, più o meno coincidenti con la rivoluzione agricola avvenuta circa 10 mila anni fa, con la coltivazione di piante e l’addomesticamento di animali, l’affermazione della sedentarietà e la creazione di centri abitati, generano strutture stratificate e gerarchiche, che dimostrano una eccezionale (e, diciamo pure, terribile) capacità espansiva. Si afferma così «un dominio esercitato da pochi superiori su tanti inferiori», come scrive Barclay, ma si determinano anche, o si accelerano, i progressi materiali e culturali così ben descritti dal compianto storico Carlo M. Cipolla nel piccolo classico Uomini, tecniche, economie, ora meritoriamente ristampato dal Mulino.
Le comunità primitive avevano peraltro i loro pregi, di cui parlava l’antropologo francese Pierre Clastres (scomparso precocemente nel 1973) in un altro prezioso libro, La società senza Stato, riproposto adesso dall’editrice Ombre corte. Le tribù cosiddette «selvagge» erano e sono società egualitarie, che non conoscono la relazione comando-obbedienza né l’ossessione del lavoro. E soddisfano abbastanza bene i loro bisogni primari con tecniche adeguate al contesto in cui vivono: non sono affatto torme d’individui denutriti e miserabili. Né si tratta necessariamente di cacciatori-raccoglitori nomadi, precisa Clastres: alcune società arcaiche praticano l’agricoltura e sono sedentarie, senza conoscere un potere politico coercitivo.
Tra i fattori che Barclay colloca alle origini dello Stato, Clastres ritiene decisivo quello demografico: «Le cose non possono funzionare secondo il modello primitivo se non quando la popolazione è poco numerosa». Infatti la tribù arcaica è una società statica, «in cui tutte le vie di uscita sono chiuse», destinata a «riprodursi senza nessun mutamento sostanziale nel tempo». Se i suoi membri crescono, l’equilibrio s’incrina. Inoltre l’eguaglianza primitiva si esprime anche in crudeli rituali d’iniziazione, che sul corpo dei giovani lasciano cicatrici il cui fine è ricordare la legge ferrea così sintetizzata da Clastres: «Tu non vali meno di un altro, tu non vali più di un altro».
Spezzare l’eguaglianza significa entrare nella storia, avviare lo sviluppo sotto la guida di capi che costringono la massa della popolazione a lavorare per loro. L’arte, la scienza, la filosofia, la letteratura non sarebbero nate, se non vi fossero stati individui privilegiati che potevano dedicarsi a quelle attività, perché il loro mantenimento era assicurato dal sudore dei loro simili ridotti allo stato servile.
D’altro canto si può pensare che il prezzo per le conquiste della nostra civiltà sia troppo alto. Lo stesso Cipolla, che scriveva nel 1960, paventava il rischio che il progresso tecnologico e l’incremento demografico, con l’alterazione radicale dell’ambiente, potessero rivelarsi «una calamità disastrosa per la specie umana». Non a caso Barclay, giudicando impossibile che «lo Stato abolisca se stesso», prefigura scenari apocalittici, da film di Mad Max, per «immaginare la possibilità di costruire libere strutture alternative». Ma se «il ritorno all’anarchia originaria» deve passare per una catastrofe planetaria, forse è meglio tenersi lo Stato, con tutti i suoi difetti. Sperando che duri.

Harold B. Barclay, Lo Stato. Breve storia del Leviatano, traduzione di Andrea Aureli, Elèuthera 2013, pagine 143, € 12

Pierre Clastres, La società contro lo Stato, Ricerche di antropologia politica, traduzione di Luigi Derla, Ombre corte 2013, pagine 159, € 15

Carlo M. Cipolla, Uomini, tecniche, economie, introduzione di Massimo Livi Bacci, Il Mulino 2013, pagine 173, € 14
«Corriere della Sera - supll. La lettura» del 22 dicembre 2013

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