31 dicembre 2013

Tempo di scosse e di riscosse

di Massimo Gramellini
Due americani su tre considerano il 2013 uno degli anni peggiori della loro vita. So cosa state pensando: ma il terzo americano dove ha vissuto? In Italia i fan del 2013 si contano sulle dita della mano di capitan Uncino. Tutti si sentono più poveri, anche gli evasori.
Più poveri e più scoraggiati. L’indignazione, a suo modo ancora una forma di speranza, ha ceduto il posto alla rabbia. Il disprezzo per i politici si è allargato all’intero establishment: banchieri, tecnocrati, giornalisti, persino scienziati. Chiunque occupi uno strapuntino riconosciuto di potere e si agiti nel rumore dei talk show.
Ripercorrendolo a mente fredda, l’anno morente è stato prodigo di cambiamenti che un tempo si sarebbero definiti epocali. Sul Vaticano degli scandali regna un Papa già circonfuso in vita di un alone di santità. Il Caimano si è chiuso in casa a giocare con un barboncino. Il presidente del Consiglio ha meno di cinquant’anni, se non altro all’anagrafe. Il nuovo segretario del centrosinistra, comunque lo si giudichi, non offre alle telecamere uno sguardo da cane bastonato, ma sprizza energia da tutti i nei. Persino il Parlamento, origine e sfogatoio di ogni male, ha espulso branchi consistenti di dinosauri per accogliere la pattuglia di donne e di giovani più vasta della storia repubblicana.
Eppure, se si esclude papa Francesco, nessuna di queste novità è stata percepita come un vero strappo. I giochi della politica continuano a non intercettare la vita reale e per quanto il dottor Letta si sforzi di sottolineare l’efficacia delle sue cure, il malato italiano non avverte miglioramenti nel proprio stato di salute. Si respira un desiderio inebriante, a tratti pericoloso, di leadership forti e semplificatrici. Come se i problemi di una città, di una nazione, di un continente fossero risolvibili da un deus ex machina che con un tratto di penna disarma la burocrazia, abbatte le tasse, ridimensiona lo Stato senza mettere per strada gli statali, aumenta le paghe, rilancia i consumi e nei ritagli di tempo inventa nuovi lavori al posto di quelli che la tecnologia e la concorrenza internazionale hanno ridimensionato o dissolto per sempre.
L’altro cascame psicologico della crisi è il curioso impasto tra diffidenza e illusione. Cinismo e dabbenaggine spesso convivono nella stessa persona, pronta a mettere in dubbio la competenza di uno scienziato come a buttarsi tra le braccia del primo millantatore. Le soluzioni facili godono di un’ingannevole popolarità. Dalla moneta all’immigrazione, si pensa che tornare indietro sia il modo migliore per andare avanti. Il Duemila è iniziato da tredici anni, ma il dibattito pubblico, spesso anche quello privato, rimane inchiodato al Novecento: il comunismo, la lira, il bel tempo andato. Peccato che mentre lo si viveva non fosse poi così bello. Ho sentito miei coetanei decantare gli anni Settanta come un’epoca più sicura e tranquilla dell’attuale. Gli anni Settanta: quando si sparava per la strada e si rapivano i bambini. Ogni generazione rimpiange la sua infanzia, però se la nostalgia si trasforma in torcicollo emotivo produce depressione, paralisi e paragoni sterili, spesso storpiati dalla memoria.
Il 2014 pubblico sarà l’anno dei Mondiali brasiliani giocati quasi da fermi per il troppo caldo, delle elezioni europee dominate sui media dai movimenti anti-europei, della resa dei conti fra Renzi e Letta, che di Craxi e Andreotti hanno ereditato il carattere, per fortuna non l’etica, ma si spera il talento politico: magari con un po’ di concretezza in più.
Il 2014 privato potrebbe invece essere finalmente l’anno del fervore. La forza irresistibile che infonde passione e concentrazione in ciò che si fa, senza perdere più tempo a lamentarsi, invidiare, rinfacciare. Come dice quella frase da film? Andrà tutto bene, alla fine. E se non andasse bene, vorrà dire che non è ancora la fine. Buon anno di scosse e di riscosse.
«La Stampa» del 31 dicembre 2013

De Monarchia, lo scettro del premier Dante Alighieri

Settecento anni fa naufragava il sogno del Sommo Poeta di una guida universale Ma la sua opera impose il principio (spesso disatteso) dell'autonomia della politica
di Marcello Veneziani
«Dante Alighieri, per patria celeste, per abitatione florentino, di stirpe angelico, in professione philosopho poeticho». C'è tutto Dante, la sua vita, la sua grandezza, la sua professione umana e divina in queste tre righe di Marsilio Ficino che precedono la sua traduzione del De Monarchia dal latino in «lingua toschana».
Settecento anni fa, tra il 1313 e il 1314, naufragava il sogno di Dante d'una Monarchia Universale a cui aveva dedicato non solo quel testo ma anche le sue speranze imperiali riposte in Arrigo VII, deceduto nel 1313. Una nuova, importante edizione del De Monarchia vede ora la luce per le edizioni Salerno (pagg. 800, euro 49). Quel Dante che fu non solo massimo poeta e filosofo, anzi innamorato di Sophia, ma anche pensatore politico e profeta, come lo definì in un mirabile saggio Giovanni Gentile (La profezia di Dante, ora disponibile in Pensare l'Italia, edito due mesi fa da Le Lettere). In modo più colorito, Papini definisce il suo Dante vivo «un profeta ebreo, un sacerdote etrusco e un imperialista romano».
Profeta per via dei suoi annunzi messianici, etrusco per i suoi viaggi nell'oltretomba, prefigurati nelle pitture sepolcrali etrusche; imperialista romano perché considera Roma la sua vera patria, l'Impero il suo orizzonte, la giustizia e l'unità la sua missione. Per Papini Dante lotta contro il presente corrotto e si rifugia nel passato e nel futuro, «come tutti i poeti è un nostalgico e come tutti i profeti un messianico». In lui confluiscono sapienza orientale e tradizioni musulmane, logos greco, caritas cristiana e civilitas romana. Il suo pensiero ha un cuore agostiniano-platonico e una testa aristotelico-tomista.
Imporre a tutti Dante fu una necessità per la scuola ma condannò all'inferno la sua grandezza. Dante dovrebbe citarci per danni. Vi risparmio il Dante vituperato come «reazionario» dalle avanguardie o il più recente Dante malato di narcolessia e allucinazioni, secondo studi medici... L'Italia risorgimentale, desanctisiana e carducciana si nutrì del culto di Dante e sognò il Veltro, Ruggiero Bonghi fondò la Società Dante Alighieri, il fascismo lo celebrò come precursore d'Italia e della risorta romanità, ma nessun grande poeta o scrittore italiano osò mettersi nel suo solco (d'Annunzio stesso, benché Vate, percorse altre vie). Si posero invece, sulla scia di Dante, Milton, Blake, i romantici, Eliot e Edgar Lee Masters con Spoon River e sopra tutti Ezra Pound, l'unico poeta dantesco del '900. I suoi Cantos sono forse la sola opera moderna che si accosta a Dante e ne fa temerariamente il verso.
Il De Monarchia fu bruciato dal fallimento del progetto imperiale e poi realmente bruciato in pubblico, per ordine del cardinale Bertrando del Poggetto, dopo che fu sottoposto a dotta inquisizione dal frate Guido Vernani. Dante era già morto ma furono insidiate dalla damnatio memoriae pure le sue ossa. Nel Convivio Dante, dolendosi dell'esilio, avvertiva i fiorentini che lo avevano cacciato da Firenze, «figlia di Roma», nel cui «dolcissimo seno» è «nato e nudrito fino al colmo della mia vita, e nel quale, con buona pace di quelli, desidero con tutto il cuore di riposare l'animo stanco, e terminare il tempo che mi è dato». Desiderio mai esaudito, le sue spoglie restarono a Ravenna.
De Monarchia è un'opera capitale non solo perché fu l'opera «ghibellina» che sappiamo e che ebbe l'ardire di rivendicare - nonostante la donazione di Costantino, all'epoca di Dante considerata ancora autentica - l'indipendenza della potestas imperiale da quella papale. L'autorità del monarca temporale per Dante discende dalla Fonte divina senza intermediari pontificali. «Ah, Costantin, di quanto mal fu matre/ Non la tua conversion, ma quella dote» (Inferno, XIX canto). Ma De Monarchia fu soprattutto il ponte fra l'antico e il moderno, la romanità e l'umanesimo, la cristianità e la città terrena e si situa come punto di equilibrio tra la Civitas di Sant'Agostino e il Principe di Machiavelli. Se per Agostino la civitas terrena è civitas diaboli e se per Machiavelli bisogna entrare nell'inferno per reggere le sorti dei popoli, Dante figura l'Impero come paradiso in terra.
L'autonomia della politica nasce con Dante, anche se la sua legittimazione resta celeste. Il diritto umano posto a fondamento dello Stato nasce con Dante, anche se discende dal sacro. In Dante è prefigurato lo Stato Universale, quel sogno imperiale che attraversò i secoli e che nel secondo '900 ebbe interpreti come Ernst Jünger, Remi Brague, Alain de Benoist. La sua visione universale fondata sulla romanità passava dall'unificazione dell'Italia. La scala dantesca verso l'impero è nei tre canti sesti delle tre cantiche: all'Inferno è Ciacco che ricorda la corruzione politica, nel Purgatorio è Sordello che lamenta la servitù d'Italia e nel Paradiso è Giustiniano a celebrare l'impero che governa il mondo. Dante è politico anche nell'ispirazione poetica e la scelta di Virgilio come sua guida nell'oltretomba è motivata non solo dal suo essere altissimo poeta ma dall'aver cantato la missione romana e imperiale, da Enea ad Augusto.
In quel contesto sorge in Dante il mito del Veltro che restò poi per sette secoli la vana speranza d'Italia, l'invocazione del principe salvatore e del condottiero liberatore, del Dux e del Partito-Principe, del Capo che è sempre mancato. Il Veltro resta avvolto nel mistero, si sa solo che sarà mosso da «sapienza ed amore e virtute. E sua nazion sarà tra Feltro e Feltro. Di quell'umile Italia fia salute». Oracoli oscuri, ma che restarono impressi come l'Archetipo delle utopie venture. Il Veltro, più che uomo della Provvidenza è Katechon, colui che affronta l'Anticristo e ricaccia nell'inferno la Bestia, colei che «fa tremar le vene e i polsi», che «non lascia altrui passar per la sua via» e «dopo il pasto ha più fame che pria». La profezia di Dante si proietta come un ideale regolativo nei cieli vuoti della nostra Europa. Il sogno del Veltro significa oggi autonomia della politica dalla Tecnica e dalla Finanza, il nuovo clero e il nuovo papato di quest'epoca atea, e ritrova in sé, nel suo carisma, la fonte di legittimazione sovrana, senza passare per la Chiesa del nostro tempo, la Banca, i suoi ordini religiosi, le agenzie di rating, e la sua Trinità, la Troika.
Il Veltro dantesco resta ancora sospeso nei cieli dell'Utopia, necessario e impossibile.
«Il Giornale» del 30 dicembre 2013

Ma che poeta questo computer

di Giuseppe O. Longo
Di recente la Bbc ha chiesto al poeta Luke Wright di scrivere un poemetto sullo stile degli xenia («doni per gli ospiti») di Marziale; allo stesso tempo il compito è stato affidato anche a un computer. I risultati sono pubblicati nel box appena qui sopra (la traduzione, approssimativa, è mia): ma sapete individuare chi – il computer o l’uomo – rispettivamente ha scritto il primo e il secondo poemetto? Io ammetto di avere sbagliato l’attribuzione. (La soluzione è in fondo all’articolo).

L’avanzata dell’intelligenza artificiale non conosce limiti: i programmi informatici riescono ad eseguire compiti sempre nuovi, e magari meglio degli uomini. Ci si può quindi domandare quanto potrà ancora resistere all’assalto delle macchine il territorio della creatività letteraria, che consideriamo tipicamente umano. Per quel tanto di «oscuro» che aleggia in certe poesie, un computer può produrre componimenti che a un lettore possono sembrare scritte da un umano, come si vede dall’esempio precedente.
Uno dei criteri classici per valutare l’intelligenza naturale è la capacità di giocare bene a scacchi. Ma da quando i migliori programmi hanno cominciato a battere regolarmente anche i grandi maestri, si è dovuto aggiornare il criterio: non è detto che chi è forte a scacchi sia intelligente (in realtà manca una definizione accettabile e condivisa di intelligenza).
Qualcuno ha proposto come parametro la capacità di scrivere un buon racconto, ma anche qui si può obiettare che anche chi non sa scrivere di narrativa può dimostrare una grande intelligenza (in matematica, negli affari, nella vita quotidiana...).
Quanto alla bontà dei risultati narrativi dell’intelligenza artificiale, le opinioni divergono parecchio. Secondo la ditta NewNovelist, che costruisce software di scrittura, non esistono programmi capaci di scrivere un romanzo, ma ne esistono che aiutano l’autore a completarlo e a scriverlo «in modo corretto» (probabilmente secondo i criteri commerciali correnti: un tot di intrigo, un tot di sesso, un tot di violenza...).
Lo scrittore Alastair Reynolds ritiene che non vi sia niente di più insensato che leggere un racconto scritto da un computer. Il primo libro stilato da un programma si deve al russo Alexander Prokopovic: scritto nel 2008, ricalca lo stile dello scrittore di culto giapponese Haruki Murakami ed è una variazione sul tema di Anna Karenina di Tolstoi. Ma Prokopovic ammette che un programma non potrà mai essere uno scrittore, così come Photoshop non potrà mai essere Raffaello.
Nel 2007 Philip Parker, professore della Insead, un’importante business school internazionale, brevettò un software che finora ha scritto oltre duecentomila libri su argomenti svariatissimi: non certo capolavori letterari, piuttosto compilazioni, rassegne e sommari, soprattutto di carattere economico. Uno specialista ci metterebbe mesi a organizzare un materiale che il programma allestisce in una mezz’ora. Ma la tentazione di passare alla letteratura è forte, e Parker ha cominciato a sperimentare un software che dovrebbe costruire narrativa «automatica»: esso consente di scegliere i personaggi, l’ambientazione, il genere e la trama e produce testi che vanno da un breve racconto a un romanzo vero e proprio.
Insomma sembra che, se si può identificare una formula per la stesura di una narrazione, allora lo scrittore può essere sostituito da un algoritmo. Secondo Parker «il computer lavora bene in base a regole assegnate e il campo della poesia è il più facile da formalizzare». In questo spirito egli ha organizzato un esperimento, proponendo a molti soggetti un sonetto di Shakespeare e uno scritto dal computer; il risultato è stato sorprendente: non sapendo chi fossero gli autori, la maggioranza degli interpellati ha preferito il secondo!
Ci si può chiedere se un romanzo «artificiale» sia davvero un romanzo, ma allo stesso modo ci si può chiedere se una narrazione tradizionale sia davvero originale: in fondo la letteratura si basa sulla letteratura. Oggi molta narrativa è scritta secondo una formula piuttosto precisa, che viene via via aggiustata seguendo il successo di pubblico (il successo di critica è forse altra cosa): seguendo queste indicazioni e traducendole in un programma, il computer potrebbe scrivere opere narrative più o meno indistinguibili da quelle umane.
Soluzione del test: «Alla Verità» è stato scritto dal computer, «A Felicity» invece da Luke Wright.
«Avvenire» del 30 dicembre 2013

La generazione dei bravi ragazzi

Età e idee della politica
di Aldo Cazzullo
In politica - titolano tg e giornali - è l'ora dei quarantenni. Ma, a ben vedere, è un ricambio più profondo quello che si annuncia, è un'altra generazione ancora quella che si affaccia alla vita pubblica. La generazione che si potrebbe definire dei «bravi ragazzi». Enrico Letta non è certo un volto nuovo: nel 1998 era già ministro. Angelino Alfano ha quattro anni di meno, ma non si direbbe: le grisaglie, l'eloquio che ricorda i principi del foro siciliani, l'ormai lunga militanza politica ne fanno un veterano. Ma alle loro spalle avanzano i veri giovani, volti più freschi di quelli - da tempo entrati nella sfera mediatica - di Matteo Renzi o di Giorgia Meloni.
La nuova segreteria del Pd, scelta un po' frettolosamente, può senz'altro essere criticata per la sua «leggerezza». Allo stesso modo, la ricerca di nuovi talenti avviata da Berlusconi non ha ancora dato i risultati attesi. Essere giovani non basta; la preparazione e l'esperienza saranno sempre requisiti fondamentali. Però sarebbe ingeneroso ridurre le novità che avanzano al solo dato anagrafico. I volti che andiamo scoprendo in questi giorni non sono semplicemente di bell'aspetto; dietro ci sono persone normali, di modi garbati, di buoni studi, insomma ragazze e ragazzi come quelli che vediamo festeggiare le lauree nelle città universitarie, cercare tra grandi difficoltà un lavoro, tentare di costruirsi una famiglia e un futuro. Non figli d'arte né del Partito. Volti in cui i nonni possono riconoscere i propri nipoti, i padri i propri figli.
È importante che le nomenklature, a sinistra come a destra, avvertano la necessità di cambiare, di avviare un rinnovamento che non sia solo di facciata ma coinvolga i comportamenti, i profili, le storie, il linguaggio. Mai il discredito della politica è stato così alto, mai il suo fascino così basso. I talenti migliori non se ne sentono attratti. Molti cittadini non ne vogliono più sapere: non a caso tutti i talk show perdono audience. I parlamentari sono visti come alieni che vivono un'altra vita e discutono di altre cose rispetto alla gente normale. In queste circostanze, investire di responsabilità giovani che hanno appena compiuto trent'anni, che hanno figli piccoli o in arrivo, significa finalmente distogliere lo sguardo dalle contrapposizioni ideologiche, e rivolgerlo a un avvenire che non sia l'eterno ritorno di cose già viste e già sentite.Del resto, nelle aziende innovative, nelle start up, nel mondo delle nuove tecnologie è frequente (non soltanto all'estero) vedere ai posti di comando persone giovani o molto giovani. E per un ragazzo che ancora non vota, ed è tentato di non farlo mai, un trentenne al potere non è un esperimento azzardato ma un fratello maggiore che finalmente si assume le proprie responsabilità. Abituati come siamo a classi dirigenti inamovibili, distanti, talora disoneste, avvezze a cooptare figli e famigli tagliando fuori tutti gli altri, sbaglieremmo a liquidare come inadeguati i compagni di strada di Renzi - compresi quelli che non appartenevano alla sua corrente - e coloro che emergeranno dallo scouting in corso a destra. L?importante è che, oltre a sembrare e - si spera - essere «bravi ragazzi», sappiano coltivare la profondità. Il ricambio generazionale, di cui ogni Paese ha bisogno, non è mai un fatto soltanto anagrafico, non consiste nel mettere semplicemente un giovane al posto di un anziano; significa fare cose nuove o fare le cose di ieri in modo diverso.
«Corriere della Sera» del 13 dicembre 2013

23 dicembre 2013

I tweet di Cicerone. I «new media»? Antichi

Cultura digitale
di Antonio Sgobba
I primi due millenni di storia dei social media nel volume di Tom Standage. A cominciare dai romani
«E la storia si ripete, la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa? No, questo sarebbe un processo troppo solenne, troppo ponderato. La storia si limita a ruttare, e noi risentiamo il sapore del sandwich alla cipolla cruda che avevamo inghiottito centinaia d’anni addietro». Viene in mente questa considerazione di Julian Barnes ne La storia del mondo in 10 capitoli e mezzo (recentemente ristampato nei tascabili Einaudi) leggendo Writing on the Wall: Social Media – The First 2.000 Years (Bloomsbury, pagine 288, $ 26) di Tom Standage, digital editor dell’«Economist». Siamo di fronte a un saggio sui «primi duemila anni» di storia dei social media. Com’è possibile, il web 2.0 non è un fenomeno dell’ultimo decennio?
No, secondo Standage, il sistema della comunicazione in cui ci muoviamo oggi è qualcosa di antico, risalente almeno al 51 avanti Cristo. In quell’anno Marco Tullio Cicerone era appena stato nominato proconsole in Cilicia. Nonostante la recente promozione temeva di rimanere tagliato fuori dalla politica romana. Per questo si teneva costantemente in contatto epistolare con i suoi familiares, da loro otteneva segnalazioni su argomenti di interesse reciproco, costanti aggiornamenti sulla situazione politica, commenti e opinioni. A volte le lettere erano indirizzate a più persone ed erano scritte per essere lette pubblicamente o «postate» in pubblico. A Standage sembra evidente: il politico e oratore romano era immerso nei social media. Cicerone sta alle sue lettere come noi stiamo ai nostri tweet. Il sapore del sandwich 2.0 che risentiamo oggi non sarebbe altro che la riproposizione della dieta mediatica dell’antichità classica. Da allora il social non fa altro che riproporsi, lo abbiamo incontrato nel corso degli ultimi venti secoli innumerevoli volte. Per esempio, Standage ci invita a ripensare al modo in cui San Paolo si guadagnava follower nelle comunità dei primi cristiani. Oppure a come Martin Lutero ha saputo fare marketing virale: le sue 95 tesi si diffondevano contro il volere dell’autorità così come hanno fatto i tweet delle primavere arabe. Alla corte dei Tudor era in voga una piattaforma molto simile all’odierno Tumblr, nobili e cortigiani comunicavano in maniera obliqua citando e ricopiando poesie di argomento leggero, così come oggi facciamo quando postiamo clip delle serie tv e dei film che amiamo. Le botteghe del caffè, i luoghi in cui sarebbe nato l’Illuminismo, nel Settecento erano accusate di far perdere tempo, come oggi Facebook e Twitter.
Alla base delle prime società scientifiche c’era la stessa idea che è stata l’embrione del world wide web: una fitta corrispondenza tra accademici che riportavano i risultati delle loro ultime ricerche. Insomma, finora siamo stati vittime di un’illusione prospettica: le nuove tecnologie non sono affatto un nuovo sistema di comunicazione. E i cosiddetti vecchi media non sono poi così vecchi. Anzi, se prendiamo in considerazione gli ultimi duemila anni sono piuttosto recenti. I mass media sarebbero solo una parentesi aperta nell’Ottocento con la rivoluzione industriale. «Un’anomalia storica», secondo Standage, nata nel 1833 con il lancio del «Sun» di New York. Il motto era: «Il Sun splende per tutti». Da allora ci siamo abituati a un sistema di distribuzione della comunicazione centralizzato e impersonale. Ora saremmo di fronte a un ritorno all’epoca preindustriale, le informazioni si trasmettono ancora una volta attraverso lo scambio tra pari. A questo punto sarebbe il caso di cambiar nome ai «new media»; forse dovremmo chiamarli «antichi media» o «media classici». Standage non è così ingenuo da negare che oggi ci troviamo di fronte anche a qualcosa di davvero nuovo. Per volume e frequenza delle informazioni scambiate il traffico del web non è paragonabile ai papiri latini e ai carteggi secenteschi. Ciò non toglie che i meccanismi, le reazioni e l’impatto sulla società non siano gli stessi degli antichi social media.
La nostra natura è sempre quella di animali sociali. Distratti, frivoli, pettegoli, ansiosi di essere aggiornati. Non è colpa di internet. È sempre stato così. «Quando scriviamo un tweet o aggiorniamo Facebook stiamo continuando una ricca e profonda tradizione di condivisione. I social media non sono solo collegamenti tra persone che conosciamo, sono anche un collegamento con il nostro passato», si legge in Writing on the wall. Alla fine, secondo Standage, la storia non si ripete — e nemmeno rutta — «la storia si ritwitta».
«Corriere della Sera - supll. La lettura» del 22 dicembre 2013

Non tutto lo Stato vien per nuocere

di Antonio Carioti
Il potere gerarchico spezza l’eguaglianza primitiva, ma genera la civiltà
Harold Barclay, antropologo canadese, non ama lo Stato. Sottolinea che per lunghissimo tempo, fino a poche migliaia di anni fa, gli uomini ne hanno fatto a meno e che nella maggior parte dei casi esso è stato imposto con la violenza a genti che non ne avvertivano il bisogno. Ricorda l’importanza della cooperazione spontanea nell’economia e nella cultura, negando che i fenomeni sociali «necessitino di una testa o debbano essere controllati da un’organizzazione centrale». Afferma che lo Stato è «un’istituzione intrinsecamente dispotica», anche se dotato di istituzioni elettive, poiché nessuna democrazia «si è liberata dalla divisione tra governanti e governati».
Tuttavia, nel breve e denso saggio Lo Stato (Elèuthera), Barclay deve ammettere che «il flusso principale della storia» ha spinto verso la creazione di «società statuali». Profonde trasformazioni, più o meno coincidenti con la rivoluzione agricola avvenuta circa 10 mila anni fa, con la coltivazione di piante e l’addomesticamento di animali, l’affermazione della sedentarietà e la creazione di centri abitati, generano strutture stratificate e gerarchiche, che dimostrano una eccezionale (e, diciamo pure, terribile) capacità espansiva. Si afferma così «un dominio esercitato da pochi superiori su tanti inferiori», come scrive Barclay, ma si determinano anche, o si accelerano, i progressi materiali e culturali così ben descritti dal compianto storico Carlo M. Cipolla nel piccolo classico Uomini, tecniche, economie, ora meritoriamente ristampato dal Mulino.
Le comunità primitive avevano peraltro i loro pregi, di cui parlava l’antropologo francese Pierre Clastres (scomparso precocemente nel 1973) in un altro prezioso libro, La società senza Stato, riproposto adesso dall’editrice Ombre corte. Le tribù cosiddette «selvagge» erano e sono società egualitarie, che non conoscono la relazione comando-obbedienza né l’ossessione del lavoro. E soddisfano abbastanza bene i loro bisogni primari con tecniche adeguate al contesto in cui vivono: non sono affatto torme d’individui denutriti e miserabili. Né si tratta necessariamente di cacciatori-raccoglitori nomadi, precisa Clastres: alcune società arcaiche praticano l’agricoltura e sono sedentarie, senza conoscere un potere politico coercitivo.
Tra i fattori che Barclay colloca alle origini dello Stato, Clastres ritiene decisivo quello demografico: «Le cose non possono funzionare secondo il modello primitivo se non quando la popolazione è poco numerosa». Infatti la tribù arcaica è una società statica, «in cui tutte le vie di uscita sono chiuse», destinata a «riprodursi senza nessun mutamento sostanziale nel tempo». Se i suoi membri crescono, l’equilibrio s’incrina. Inoltre l’eguaglianza primitiva si esprime anche in crudeli rituali d’iniziazione, che sul corpo dei giovani lasciano cicatrici il cui fine è ricordare la legge ferrea così sintetizzata da Clastres: «Tu non vali meno di un altro, tu non vali più di un altro».
Spezzare l’eguaglianza significa entrare nella storia, avviare lo sviluppo sotto la guida di capi che costringono la massa della popolazione a lavorare per loro. L’arte, la scienza, la filosofia, la letteratura non sarebbero nate, se non vi fossero stati individui privilegiati che potevano dedicarsi a quelle attività, perché il loro mantenimento era assicurato dal sudore dei loro simili ridotti allo stato servile.
D’altro canto si può pensare che il prezzo per le conquiste della nostra civiltà sia troppo alto. Lo stesso Cipolla, che scriveva nel 1960, paventava il rischio che il progresso tecnologico e l’incremento demografico, con l’alterazione radicale dell’ambiente, potessero rivelarsi «una calamità disastrosa per la specie umana». Non a caso Barclay, giudicando impossibile che «lo Stato abolisca se stesso», prefigura scenari apocalittici, da film di Mad Max, per «immaginare la possibilità di costruire libere strutture alternative». Ma se «il ritorno all’anarchia originaria» deve passare per una catastrofe planetaria, forse è meglio tenersi lo Stato, con tutti i suoi difetti. Sperando che duri.

Harold B. Barclay, Lo Stato. Breve storia del Leviatano, traduzione di Andrea Aureli, Elèuthera 2013, pagine 143, € 12

Pierre Clastres, La società contro lo Stato, Ricerche di antropologia politica, traduzione di Luigi Derla, Ombre corte 2013, pagine 159, € 15

Carlo M. Cipolla, Uomini, tecniche, economie, introduzione di Massimo Livi Bacci, Il Mulino 2013, pagine 173, € 14
«Corriere della Sera - supll. La lettura» del 22 dicembre 2013

Machiavelli come Sartre: un esistenzialista

di Antonio Carioti
Per Gennaro Sasso nell’opera del grande fiorentino la lotta del principe con la fortuna esprime un senso acuto della precarietà che caratterizza il potere politico. E la stessa condizione umana
L’interesse di Gennaro Sasso per Niccolò Machiavelli risale ai tempi del liceo. Il primo libro sul grande autore fiorentino lo pubblicò trentenne, nel 1958. Mentre termina un 2013 di celebrazioni un po’ retoriche per i cinque secoli del Principe, la sua lettura spicca per il richiamo alla radicalità di un pensiero che, da giovane, ha approfondito in parallelo a filosofi di tutt’altro genere, gli esistenzialisti. «All’università — racconta Sasso — leggevo con passione Karl Jaspers e Jean-Paul Sartre, autori che insistono sulla precarietà di una condizione umana esposta alla contingenza. Suggestioni che mi sono servite per intendere meglio un motivo centrale in Machiavelli: la contestualizzazione estrema dell’azione politica in quella che lui chiama la fortuna, cioè gli accadimenti che non si controllano. Il dramma del principe è appunto la lotta con la fortuna, l’esigenza di sfruttare opportunità che non dipendono da lui».
Fronteggiare l’imponderabile, continua Sasso, diventa così la priorità assoluta: «Il destino dello Stato è sempre incerto. E bisogna difenderlo, perché ne va della vita di chi ne fa parte. Sono i venti della fortuna che spingono a usare i mezzi più utili nella situazione concreta, anche se malvagi. Perciò per Machiavelli bontà e cattiveria non contano. Lui stesso se ne duole, ma osserva che rimanere sempre fedeli ai valori etici nell’agire politico non produrrebbe alcun bene, perché causerebbe la rovina dello Stato».
Ma come si concilia tale crudo realismo con la chiusa del Principe, l’appello a liberare l’Italia dagli stranieri? «Il capitolo finale si riallaccia al sesto, dove si parla dell’azione salvifica svolta da individui eccezionali, come Mosè o Teseo, in situazioni che richiedevano una particolare virtù politica. In fondo proprio il realismo induce a ritenere che tempi terribili esigano personalità provvidenziali. Qui Machiavelli unisce acutezza di analisi e capacità d’immaginazione».
Tuttavia è ben lontano dall’affidarsi solo ai capi carismatici: «Machiavelli — osserva Sasso — esalta la virtù individuale del principe, ma la sua preferenza va a una repubblica in cui la solidità dello Stato risieda negli ordini, cioè nel quadro istituzionale. Nei principati c’è il problema spinoso della successione personale al potere, mentre nelle repubbliche la continuità è assicurata da un intreccio di forze diverse che, garantendo se stesse, tutelano anche il complesso dello Stato, in modo che non dipenda dall’autorità di un solo individuo. Machiavelli considera un modello ideale la tripartizione della repubblica romana: consoli, senato, plebe. E vede il perno della garanzia istituzionale nel coinvolgimento del popolo».
Eppure Machiavelli descrive un volgo infido e credulone. «Ma si riferisce al popolo dell’Italia di allora, abbandonato alla sua vena deteriore. Invece il popolo romano, con i tribuni della plebe, era un soggetto politicamente attivo. Le buone istituzioni servono appunto a fare in modo che le cattive inclinazioni umane non provochino troppi danni. Del resto Machiavelli è uno scrittore pagano, estraneo al senso cristiano del peccato. Per lui l’uomo non è malvagio in sé, ma perché è un essere a rischio, sempre in lotta per la sopravvivenza: un altro punto di consonanza con l’esistenzialismo ateo».
La religione gli importa solo come fattore politico: «Nell’Arte della guerra Machiavelli narra che, quando aveva cercato di arruolare contadini nella milizia fiorentina, si era trovato di fronte individui “venuti su per li bordelli”, ben poco affidabili. E si era chiesto su quale Dio farli giurare per trasformarli in soldati. Insomma, per lui la religione serve a creare un legame sacrale tra i cittadini e lo Stato. A tal fine si può usare anche il Dio cristiano, ma così lo si paganizza. Per Machiavelli il messaggio caritatevole del Vangelo ha “effeminato il mondo”: quando evoca il fallimento dei profeti disarmati, non si riferisce solo a Girolamo Savonarola, ma allo stesso Gesù. A suo avviso la venuta di Cristo non ha migliorato i costumi degli uomini, semmai li ha rammolliti».
Un altro tema centrale in Machiavelli è appunto la decadenza: «Pensa che la caduta dell’impero romano abbia aperto una lunga fase di declino. L’Italia dei suoi tempi sta rinnovando i fasti dell’antichità quanto a splendore artistico e letterario, ma sul piano politico è in ginocchio, percorsa dagli eserciti di popoli barbari e rozzi. Machiavelli disprezza francesi e spagnoli: lo tormenta il fatto che la forza militare consenta a quelle genti incivili di straziare la sua terra».
Nel motivo della decadenza Sasso coglie aspetti attuali: «Nei Discorsi Machiavelli si chiede che fare quando un sistema politico va in crisi e nulla funziona più. Se le istituzioni sono a pezzi, non possono risanarsi da sole. Servirebbero uomini adatti a restaurare i princìpi originari dello Stato, ma è difficile che nascano in un’era di corruzione. L’Italia di oggi mi pare in condizioni del genere: necessita di governanti seri, con le idee chiare, e non sa dove trovarli».
Qualcuno vede il presidente Giorgio Napolitano come un aspirante principe. «Non capisco perché da tante parti si spari sul capo dello Stato. Non credo che, alla sua età, nutra ambizioni monarchiche: se può aver ecceduto i limiti costituzionali, è perché siamo nel caos e i vuoti vanno riempiti. Chiede solo che si faccia una legge elettorale, per mandare il Paese alle urne con qualche speranza che ne esca un governo stabile».
Forse il principe del XXI secolo dovrebbe avere una dimensione europea: «Invocherei piuttosto un legislatore capace di dare all’Europa consistenza politica. Oggi, con la crisi dell’euro, l’Unione è al tempo stesso una casa da cui sarebbe folle uscire, ma anche una gabbia soffocante. Del resto l’Ue è un’entità indefinibile dal punto di vista giuridico. Ci vorrebbe un punto di riferimento forte per andare oltre la visione angusta, monetarista e burocratica dell’Europa, per trasformarla in un vero Stato federale».
«Corriere della Sera - supll. La lettura» del 22 sicembre 2013

21 dicembre 2013

E online tutti diventano storici

di Vincenzo Grienti
Nell’era digitale fatta di computer senza fili, tablet e smartphone intelligenti il binomio storia e web potrebbe sembrare anacronistico. Basta invece andare sui principali motori di ricerca e su centinaia di siti per capire che non è così. Il primo viaggio di Cristoforo Colombo alla scoperta dell’America del 1492, la Rivoluzione francese del 1789, la Rivoluzione industriale in Inghilterra così come l’epopea di Napoleone, l’Unità d’Italia e i due conflitti mondiali possono essere riletti, approfonditi e condivisi grazie ai nuovi strumenti del web 2.0 e ai social network.
Dall’enciclopedia online Wikipedia, che ha fatto della partecipazione collaborativa la sua bandiera, ai siti come cronologia.leonardo.it/storia, Dizionario di storia moderna e contemporanea (www.pbmstoria.it), Ars Bellica (www.arsbellica.it) alle centinaia di riviste specializzate pubblicate solo in Rete c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Su YouTube, la principale piattaforma di video sharing, è possibile inoltre visualizzare migliaia di clip, film, documentari in bianco e nero caricati da singoli utenti o da centri studi, enti, istituzioni, testate giornalistiche impegnate nella divulgazione storica. In Italia un’esperienza originale è quella dell’Istituto Luce Cinecittà (www.youtube.com/cinecittaluce) che ha stretto un accordo con Google per rendere accessibile e condivisibile l’immenso patrimonio audiovisivo mentre su www.archivioluce.it viene offerta la possibilità di consultare 200mila schede catalografiche, 4mila ore di filmati, 400mila fotografie, in libera consultazione. Una risorsa indispensabile per studiosi e cultori di storia sono poi gli archivi digitali e le riviste online.
Ne è un esempio il The National Security Archive della George Washington University fondato nel 1985 che, oltre ad essere centro di giornalismo investigativo e istituto di ricerca sulle questioni internazionali, raccoglie e pubblica documenti declassificati degli Stati Uniti. Digitando www2.gwu.edu/~nsarchiv è possibile entrare in una tra le più grandi e aggiornate collezioni non governative del mondo.
È del 4 dicembre la più recente pubblicazione della Relazione sugli archivi di polizia guatemaltechi disponibili in inglese. Scribd.com, invece, è un servizio per la condivisione di documenti e libri in vari formati (Pdf, word, txt). Basta registrarsi e accedere al suo patrimonio digitale scaricabile che mensilmente fa incontrare oltre 50 milioni di utenti per più di 50mila tra libri, relazioni, saggi di storia, articoli, sintesi storiche. Frequentato dal mondo accademico è Academia.edu, dove è possibile trovare pubblicazioni scientifiche. Lanciato nel settembre 2008, conta più di un milione di utenti registrati.
In Italia, tra le poche realtà non governative o statali a rendere disponibili libri, saggi di storia e redirect ad altre biblioteche digitalizzate è la Sism, la Società italiana di storia militare: «Tra i nostri fini statutari – dice il presidente, Virgilio Ilari – c’è quello di promuovere lo studio della storia militare e offrire ai propri soci la pubblicazione gratuita online, sia sul nostro sito sia nei siti open come Scribd, Archive, Academia di articoli e libri approvati da specialisti della materia trattata».
Su www.societaitalianadistoriamilitare.it sono anche scaricabili gratuitamente saggi, relazioni e numerosi volumi di non facile reperimento, perfino risalenti al Cinquecento. Sul fronte universitario meno di un anno fa è nata la rivista Polo Sud di recente è nato un semestrale online redatto da storici del dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania «con l’intenzione di fare incontrare la grande storia con quella locale per cogliere meglio la complessità dei processi storici». spiega Giancarlo Poidomani, docente di storia contemporanea presso l’ateneo catanese. Diretta da Rosario Mangiameli, la rivista può essere sfogliata su www.editpres.it/cms/book/polo-sud-1.
Un’iniziativa nata attorno a uno dei molti periodici di storia specializzati è quella di Storia Doc (www.storiadoc.com), il primo sito italiano dedicato esclusivamente ai documentari di storia. «In streaming sono disponibili biografie, retroscena della storia dell’arte, enigmi storici e processi controversi», sottolinea Fabio Andriola, direttore del mensile Storia in Rete (www.storiainrete.com).
Sulla stessa scia ma con obiettivi più divulgativi è la rivista online InStoria(www.instoria.it), «un progetto editoriale nato per offrire ai suoi lettori alcuni approfondimenti su rilevanti tematiche del nostro presente e del nostro passato», spiega il direttore Matteo Liberti. Storia in Network (www.storiain.net) ha appena rinnovato il proprio sito. Si tratta di un mensile diretto da Alessandro Frigerio giunto al suo 203° numero e rivolto a studenti e appassionati del Novecento e dei secoli passati. Su Facebook e Twitter digitando la parola “storia” nella sezione “cerca” il risultato sono centinaia di pagine fan e microblog di mensili, riviste, canali e trasmissioni televisive e radiofoniche.
È il caso di RaiStoria e History Channel oppure di programmi come La Storia siamo noi della Rai o Quando l’Italia e I militi ignoti della fede di Tv2000.
«Avvenire» del 19 dicembre 2013

Gli eroi Puecher

di Marco Roncalli
Muoio per la mia Patria. Ho sempre fatto il mio dovere di cittadino e di soldato. Spero che il mio esempio serva ai miei fratelli e compagni. Iddio mi ha voluto, accetto con rassegnazione il suo volere […] Non piangetemi, ma ricordatemi a coloro che mi vollero bene e mi stimarono. Viva l’Italia. Raggiungo con cristiana rassegnazione la mia mamma che santamente mi educò e mi protesse per i vent’anni della mia vita. L’amavo troppo la mia patria, non la tradite […] Perdono a coloro che mi giustiziano, perché non sanno quello che fanno e non pensano che l’uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia […] .A te Papà vada l’imperituro grazie per ciò che sempre mi permettesti di fare […]. Ho sempre creduto in Dio e perciò accetto la Sua volontà».
Così Giancarlo Puecher nella sua lettera-testamento, prima di essere fucilato dai fascisti nella notte fra il 20 e il 21 dicembre 1943 a Erba, nel comasco. A settant’anni da quell’esecuzione avvenuta all’inizio della Resistenza, Giuseppe Deiana, presidente del Centro Comunitario Puecher di Milano, manda in libreria una meticolosa biografia del ragazzo partigiano (quasi mezzo secolo dopo quella di Gianfranco Bianchi, valorizzata negli anni Ottanta anche da Giacomo de Antonellis). E si tratta di molto più che di un nuovo profilo dedicato al ventenne «ribelle», indicato come modello a più d’una generazione senza memoria.
Il libro, infatti, si dilata nei suoi intenti storici – e di pedagogia civile – alla vicenda di Giorgio Puecher, tranquillo notaio liberale ma appunto colpevole di essere padre di Giancarlo, deportato a Mauthausen dove morì di stenti a 57 anni il 7 aprile 1945. Così sopra queste pagine, fitte di citazioni da documenti e testimonianze (Nel nome del figlio. La famiglia Puecher nella Resistenza, Mursia, pp. 498, euro 24), si alza la tragedia di una famiglia borghese distrutta dal nazifascismo e degna, senza essere scalfita dai revisionismi nel segno dell’«anti-antifascismo», del più ampio riconoscimento: per aver dato concretezza a forme che restano a fondamento della Costituzione e delle istituzioni democratiche. Questo detto senza enfasi retorica, ma nella consapevolezza di due destini di morte, esiti di esperienze individuali – la militanza partigiana e il vissuto concentrazionario – che legano figlio e padre.
I Puecher vivevano a Milano, ma a causa dei bombardamenti angloamericani e continuando a mantenere rapporti con la metropoli erano sfollati nella loro villa di Lambrugo, in Brianza. Qui, subito dopo l’armistizio dell’8 settembre, maturò su convinzioni etico-civili – radicate nell’educazione familiare e nella frequentazione di figure come l’avvocato Luigi Meda o il servita padre David Maria Turoldo più che su motivazioni ideologiche – la scelta partigiana di Giancarlo Puecher, fondatore di un gruppetto autonomo (meno di una ventina di amici fra i quali, come cappellano e amministratore, il parroco di Ponte Lambro don Giovanni Strada, e come comandante l’alpino Franco Fucci).
Solo due i mesi che videro l’azione del giovane idealista cattolico, dopo la scelta di opporsi al fascismo «per il bene patrio». Una vita, la sua, spezzata alla conclusione di un processo allucinante, imbastito come atto di rappresaglia dopo l’uccisione da parte di un gappista di due fascisti, da un improvvisato tribunale militare straordinario, con capi d’accusa praticamente inventati ad esecuzione avvenuta: come riconoscerà la successiva «riabilitazione giudiziaria» che certificherà la folle arbitrarietà dei carnefici, decisi a cancellare la passione civile di Giancarlo eliminando la sua vita.
Una passione che sarà l’unico motivo dell’arresto, a Lambrugo il 13 novembre 1943, il giorno dopo la cattura del figlio, di Giorgio Puecher. Liberato il 17 gennaio 1944, ma incarcerato nuovamente il 15 febbraio successivo, il notaio Giorgio fu mandato da San Vittore al campo di Fossoli e poi a Mauthausen.
«Il genere umano non vive più la sua vita, qualcosa è scoppiato nel mondo, qualcosa che ne ha infranto lo spirito. La storia dirà che questo nostro tempo fu uno dei più tristi e tribolati che l’umanità abbia vissuto: perché essa è stata investita da un’ondata di pazzia frenetica. Quando la guerra sarà finita, nessuno l’avrà voluta, e pochi avranno interesse a ricordarla. In questo momento i "saggi di dopo" dove sono? Cosa fanno? [...]Qui hanno inventato la morte in serie, non c’è scampo, se qualcuno tornerà e avrà voce per farsi intendere provi a dire, provi a raccontare queste pazzie, queste negazioni, queste infamie, provi. Dubito che possa essere compreso. Io sono certo di non tornare».
Queste, secondo le memorie di Mino Micheli, le parole pronunciate da Giorgio nei giorni prima della morte nel lager. Insomma una storia umanissima che torna, qui, nell’eco di un inno ai valori più puri. Eco che non arriva da due santini da martirologio laico o religioso, ma da due uomini che pagarono con il prezzo più alto – e c’è ben poco di retorico – la loro adesione innanzitutto morale alla Resistenza.
«Avvenire» del 21 dicembre 2013

Scienza rigorosa per l’uomo. Regole, non camicie di forza

di Augusto Pessina *
Il caso Stamina sembra divenuto una partita di calcio con tifosi disposti a tutto da entrambe le parti e pare aver fatto perdere la ragione a molti tra genitori di bimbi malati, scienziati, politici e giudici. Ma potrebbe aiutarci a riflettere su alcuni mali della cosiddetta "biomedicina sensazionale". Dietro le diverse posizioni (sia giuste sia sbagliate) stanno problemi, domande e interessi spesso in conflitto tra loro. Un coacervo di questioni che rende difficile dipanare la matassa. La semplificazione non aiuta perché può portare a gravi ed errate conclusioni, comode solo per chi specula sul dolore della gente. L’analisi richiede paziente razionalità, buona dose di realismo, un po’ di umiltà e di coraggio per affrontare adeguatamente i problemi che stanno dietro e dentro quanto accade.
Aiuta a comprendere la complessità di cui ho detto l’elenco (senza entrare nel merito) di alcuni dei principali aspetti della vicenda.

1. Le regole di una seria ricerca medica: dallo studio "in vitro" alla ricerca preclinica in animale fino alla sperimentazione clinica umana. La"sperimentazione clinica" non è ancora una "cura".

2. La cosiddetta terapia cellulare non è considerata alla stregua di un semplice trapianto ma un trattamento farmacologico. Questa scelta della agenzia regolatoria europea comporta l’applicazione di una serie di regole e procedure di produzione, di controllo e di conservazione sovrapponibili a quelle adottate nell’industria per la produzione di farmaci di natura chimica.

3. L’efficacia di una terapia deve essere validata e il rischio danno/beneficio attentamente considerato per garantirne la sicurezza. Non si risponde alle aspirazioni di cura con trattamenti che non danno questa garanzia. Ciò che riportano i pazienti circa miglioramenti o guarigioni fa parte di una vulgata acritica che nulla ha di scientifico per validare una terapia. Perfino la Chiesa di fronte a "presunti miracoli" pretende una istruttoria rigorosissima per escludere valutazioni false o legate a suggestione .

4. L’applicazione di queste regole e procedure esige strutture adeguate, costose e tempo. Le scorciatoie intraprese sono spesso pericolose (vedi il fenomeno del cosiddetto "turismo medico", che non dà garanzie di sicurezza ai pazienti e provoca danni).

5. L’ambiguo e fuorviante termine "cura compassionevole" va inteso correttamente. Con questa formula è facile speculare e indurre l’idea che in situazioni per le quali non si vede via di uscita ci si può rivolgere all’accademia del "proviamo anche questa e vediamo se funziona". Non va nemmeno confusa con la terapia del dolore o con trattamenti di supporto che non sono terapie, ma sostegni vitali necessari. Sì può ritenere compassionevole (se ha senso un tale termine) una terapia applicata in situazioni la cui utilità è probabilmente nulla o discutibile. Ciò però a fronte del fatto essenziale che sia una "terapia" che sappiamo efficace in altre situazioni o patologie o in un stadi precoci della patologia.

Analizzando ora gli eventi che conosciamo (senza intervenire sugli ultimi atti del Tar) appare evidente che le questioni sopra riportate si sono composte in modo tale da creare una grande confusione. E in uno stato confusionale è facile il rischio di fughe in avanti pericolose ma anche di difese d’ufficio dello status quo senza capacità critica per fare progressi. Gli elementi di cui si ha conoscenza sembrano suggerire che qualcuno ha autorizzato questi trattamenti contravvenendo le regole vigenti, e che le preparazioni cellulari non sarebbero avvenute secondo quanto le rigorose procedure prevedono a riguardo di ambiente e controlli di qualità previsti per legge dalle norme di buona prassi di manifattura (Gmp). Da qui l’intervento della agenzia Aifa.
Ma non basta: i dati di efficacia e sicurezza di tale schema terapeutico non sono disponibili alla comunità scientifica se non come testimonianza orale di persone vicino ai pazienti. Inoltre, i risultati ottenuti con protocolli simili hanno dato esito negativo per quanto riguarda l’efficacia (Neuromuscular Disorders, 22, 2012). Manca infine una base scientifica su cui poggiare una ragionevole possibilità di azione terapeutica di questo protocollo (peraltro non chiaro e discutibile) in patologie come quelle di cui si parla. Un aspetto drammaticamente importante è rappresentato dal clima generale in cui questa vicenda dolorosa accade.
Attraversiamo un periodo in cui l’opinione pubblica è esasperata dalla situazione di crisi e dalla scarsa attenzione ai problemi della gente da parte di molti rappresentanti delle istituzioni, più inclini a parlare che ad agire. Ne consegue la tendenza a considerare con sospetto e ostilità tutto ciò che l’istituzione propone o difende, col rischio di considerare valida ogni proposta "contro" il sistema. In ciò ha un suo ruolo anche un certo risentimento verso la cosiddetta medicina ufficiale considerata da molti (non sempre a torto) una casta arroccata a difendere interessi e privilegi personali. Purtroppo, in certe situazioni non si può negare che la resistenza al nuovo nasca dal vedere attaccato un consolidato prestigio, anche economico.
Il caso Stamina trova in questi elementi un humus di crescita che gli porta consenso sociale non meritato, visto che sembra soffrire della stessa malattia che alimenta demagogia e attacchi senza trasparenza sul valore scientifico e clinico di quanto propone. Gli attacchi della rivista Nature all’Italia per l’ambigua gestione non hanno affatto giovato a capire. La neonata rivista CellR4 (giornale ufficiale di Cure Alliance) ha tentato di porre interrogativi sui temi regolatori, ma essi sono sembrati ispirati dalla volontà di utilizzare il caso Stamina al solo scopo di abbassare la guardia e allargare le maglie nell’ambito delle terapie cellulari per attività private.
Anche la lettera inviata da Stamina a papa Francesco è stata percepita da molti una speculazione sulla sofferenza. In questo clima è facile promettere l’impossibile proponendo cure per malattie incurabili.
Appare davvero anomalo che si richiamino principi di validità scientifica per pannolini, detersivi e dentifrici, ma si rinunci ad applicarli quando si tratta della vita e della sofferenza di pazienti affetti da gravissime patologie. Anche le prese di posizione governative e della magistratura rischiano di essere determinate da sentimenti, e non basati su elementi oggettivi delle ricerca clinica su queste patologie.
In tale situazione va comunque detto che possono esserci ragioni valide per una discussione sulle regole. Non si tratta di dare al metodo Stamina un "lasciapassare" ma, al contrario, di mettere in atto con una seria metodologia l’analisi della situazione generale e discuterla nei luoghi adeguati, come le agenzie regolatorie, i ricercatori e i clinici competenti. È possibile anche discutere ciò che l’Europa ha stabilito in materia, ma lo si deve fare a un livello scientificamente serio.
È fuor di dubbio che le regole attuali circa le terapie cellulari siano molto rigide, ma la soluzione non è nella loro abrogazione quanto piuttosto nel tenere alta la guardia sui controlli rivedendo gli aspetti che rischiano di ingessare la ricerca in modo tale da non permetterne passi significativi. Questo aspetto cruciale – oggetto di dibattito anche da parte di ricercatori – deve essere seriamente approfondito e discusso.
L’agenzia regolatoria deve garantire la sicurezza senza trasformare il sistema di regole in un apparato che soffochi il corretto e utile sviluppo di questo tipo di terapie. Ciò potrebbe anche contribuire a limitare gli elevatissimi costi che appaiono anche poco sostenibili dal sistema sanitario. Il buon senso e la giusta valutazione del rischio-beneficio possono garantire la sicurezza senza ingessare completamente i processi in forme tali da vanificarne l’applicazione.
*Coordinatore Gruppo italiano staminali mesenchimali - Università di Milano
«Avvenire» del 19 dicembre 2013

20 dicembre 2013

L'ossimoro di una laicità che sceglie di censurare

Pericolosa tendenza in atto in Europa
di Carlo Cardia
Si consolida in alcune parti d’Europa un’idea strana di laicità, con sentenze, leggi, proposte, dirette a togliere spazio all’obiezione di coscienza, cancellare simboli religiosi, parole radicate nell’intimità della tradizione familiare. Stefano Fontana – ragionando sul rapporto annuale dell’Osservatorio Van Thuân – ne ha scritto pochi giorni fa su queste colonne. E Lucia Bellaspiga ha poi ragionato sulla pretesa di imporre persino ai giornalisti italiani un lessico "politicamente corretto" sulla questione delle nozze gay, della teoria del "gender", dell’indegno mercato delle maternità surrogate. In questa fase, e questo proposito, novità vengono soprattutto dalla Francia, da ultimo con il progetto di una festa della laicité: poiché «la laicità è il principio fondamentale, ciò che ci permette di vivere insieme (…), si chiede che la Repubblica francese fissi per il 9 dicembre una giornata nazionale della laicità». Il deputato Jean-Christophe Lagarde ha specificato che «la laicità non si basa sulla tolleranza delle differenze, ma sull’eguaglianza dei cittadini». Per parte sua, il ministro Vincent Peillon, aumenta la pressione sulla scuola, attuando idee esposte nel libro La Révolution n’est pas terminée (La Rivoluzione non è finita), ricco di nostalgia per antiche glorie repubblicane.
Non è solo nostalgia. Il 30 ottobre scorso il Conseil Constitutionnel ha respinto l’obiezione di coscienza dei sindaci che non intendono celebrare nozze gay. La sentenza poggia su asserzioni apodittiche, ad esempio che la legge rispetta la Costituzione perché «il legislatore ha inteso assicurarne l’applicazione, garantire il buon funzionamento e la neutralità del servizio di stato civile». Ma l’obiezione si ribella alla sostanza della legge, non alla sua applicazione eguale: si può imporre egualmente a tutti una misura che offende. L’obiezione è respinta poi perché si parla delle funzioni di pubblici ufficiali dei sindaci; eppure proprio i sindaci hanno fatto ricorso, e se la loro coscienza è ferita non può dirsi che i pubblici ufficiali non hanno una coscienza, o che devono silenziarla.
Con questa logica non si riconoscerebbe mai l’obiezione al servizio militare: il dovere di difendere la Patria è conforme a Costituzione, la legge chiede che tutti lo assolvano, se poi si tratta di un ufficiale deve osservarlo più degli altri. In realtà, mentre i legislatori da tempo riconoscono diverse obiezioni, anche di minor peso, e rendono onore a principi radicati nel sentire comune, la pronuncia francese azzera il cammino compiuto dalla cultura giuridica europea.
Con analogo intento di mortificazione il Governo di Parigi vuole cancellare festività tradizionali, proibisce d’indossare il velo o simboli religiosi (se non piccolissimi) ai genitori che si uniscono ai figli in una gita scolastica, perfino se ci si trova al museo, al ristorante, in un prato per il pic-nic. E vorrebbe estendere il divieto dentro l’Università, che da sempre è tempio della cultura e di confronto delle identità.
L’idea di una festa della laicità ha suggerito una singolare riflessione a un nostro intellettuale. Il quale dopo averla criticata aggiunge che l’Italia comunque non avrebbe nulla da festeggiare perché non sa nemmeno cosa sia la laicità: a suo dire, su questioni come quelle del dolore, della malattia e della morte, saremmo etero-diretti da «ayatollah teocratici» che dettano legge. In altri termini dovremmo introdurre l’eutanasia, il suicidio assistito, per dimostrare che siamo un Paese laico. Il rapporto tra eutanasia e laicità è surreale e funambolico, altrimenti dovremmo concludere che il Paese più laico al mondo sarebbe il Belgio che sta per introdurre l’orrore dell’eutanasia dei minori, senza soglia d’età.
Di altre patologie si è parlato a più riprese su "Avvenire": in Gran Bretagna si obbligano gli istituti religiosi ad affidare i bambini che hanno in custodia a coppie gay; in Norvegia una conduttrice televisiva ha dismesso un piccolo crocifisso per non perdere il posto di lavoro; pure in Italia ogni tanto affiora questa tendenza, anche nei giorni scorsi è stata annunciata, questa volta al Liceo Mamiani di Roma, la proposta di cancellare dai documenti scolastici le parole "padre" e "madre". Fantasie, eco di vecchie logiche, vere censure, in questi fatti? C’è un po’ di tutto questo. Ma soprattutto c’è il filo rosso di una concezione deformata della laicità, che censura idealità e momenti fondativi della comunità, preferisce l’orizzonte della solitudine a quello della solidarietà, elimina le parole più belle dal lessico pubblico.
La laicità è altra cosa, è quella delle Carte dei diritti scritte in risposta ai totalitarismi del Novecento: è inclusiva, accogliente, anche per le differenze legittime, apre e non chiude la scuola alla religione, non offusca i colori delle fedi che arricchiscono la nostra identità. È una laicità che alimenta la cultura, invece di mortificarla, non stabilisce arbitrariamente i confini della civitas, li estende perché tutti si sentano a casa propria.
«Avvenire» del 20 dicembre 2013

Sport e tecnologia. È doping anche questo?

di Massimiliano Castellani

Quando nel 1977 al torneo di tennis di Aix-en-Provence, il guascone romeno Ilie Nastase sconfisse il “poeta” della terra rossa, l’argentino Guillermo Vilas - imbattuto da 46 match di fila -, ci fu chi gridò allo scandalo, dato l’utilizzo della mirabolante arma segreta: la racchetta con l’incordatura a “spaghetti”.
Da quel giorno, l’attrezzo tennistico non fu più lo stesso: via il legno, dentro i metallici racchettoni. E la stessa cosa si è verificata nello sci, addio a tutti i “legnosi” discesisti, i discendenti del «pipistrello umano», Leo Gasperl (che negli anni ’40 stupiva con indosso la brevettata “giacca-paracadute”) e benvenuta alla tuta speedwyre (con cui nel ’97 ai Mondiali del Sestriere, Hilary Lindh vinse la libera per soli 6 centesimi) e alla fibra di vetro carbonio sotto gli scarponi.
Elogio dell’ipertecnologico, in tutti gli sport motoristici, rallentando, ma non troppo, fino alla poetica e un tempo la più artigianale delle discipline su due ruote: il ciclismo. Lo sviluppo tecnologico della bicicletta da corsa, in cui solo sellino e catena sono rimasti praticamente invariati nel tempo, ha visto, nell’arco di un secolo, dimezzare il suo peso (da 15 a 7 kg scarsi) e quindi aumentare notevolmente la velocità di un mezzo che ormai solo in letteratura passa sotto la voce: pronipote del pionieristico “cavallo di ferro” (l’ottocentesco e primordiale velocipede).
Il terzo millennio ha, di fatto, sancito l’unione inscindibile tra “Sport e Scienza” e per approfondire questo forte legame viene in soccorso un saggio illuminante, Sportivi ad alta tecnologia (Zanichelli), scritto a quattro mani dall’ingegnere meccanico Nunzio Lanotte e sua moglie, specialista in opere scientifiche, la francese Sophie Lem.
L’idea del moderno campione robotizzato o peggio ancora della “cavia elettronica” da sperimentazione in laboratorio, impressiona e fa discutere, ma spesso non rende ragione al notevole progresso e agli straordinari risultati ottenuti dagli scienziati anche nello sport. Pertanto l’assioma di partenza dovrebbe essere: «È molto difficile che la tecnologia ti faccia vincere, ma non avere la tecnologia di sicuro ti fa perdere. La tecnologia non trasforma il “brocco” in campione, può fare solo una differenza marginale, ma nello sport di elite diviene spesso decisiva», dice Lanotte, che è anche consulente del Coni per le nuove tecnologie.
Tradotto con un esempio molto semplice: «Non è la racchetta in fibra di carbonio a far vincere un torneo a Nadal, ma provate voi a giocare contro Federer con una racchetta di legno e ne riparliamo…». Un azzardo da non tentare, specie in un’era in cui si assiste alla massima diffusione della tecnologia grazie alla miniaturizzazione e alla diminuzione dei costi dei componenti: sensori, processori, pile e quant’altro.
«La fibra di carbonio ha soppiantato legno, acciaio, alluminio ed altri materiali tradizionali in quasi tutte le applicazioni: vale a dire telai, ruote, caschi, imbarcazioni, pagaie, racchette», continua Lanotte.
Partendo dalla galassia più nota dell’universo Sport, il calcio, fa quasi sorridere il ricordo dei “tacchetti avvitati” degli scarpini che fecero il loro debutto ufficiale nella finale dei Mondiali svizzeri del 1954: la sfida vinta dalla Germania contro l’Ungheria. Una diavoleria per i tempi, un oggetto da museo oggi che Messi e Ibrahimovic viaggiano a pelo d’erba come centometristi, su comode calzature personalizzate e in microfibra. Più o meno le stesse che nell’atletica fanno mettere ancor di più le ali ai piedi al figlio del vento Usain Bolt. Alla pelle di canguro si è sostituito il mix esplosivo di poliestere immerso in una matrice di poliuretano. Materiali più resistenti, più comodi e che quindi aiutano a migliorare la prestazione.
Questo spesso comporta il dibattito sul possibile sconfinamento nel territorio, illecito, del “doping tecnologico”. Ma sul tema l’esperto ribatte pronto: «La tecnologia è uno strumento lecito, mentre il doping è una frode. Le vicende delle bici dei record dell’ora o dei supercostumi del nuoto, entrambi prontamente proibiti, ci mostrano che talvolta una tecnologia troppo innovativa provoca un fisiologico rigetto, specie se infrange le regole interne alle singole federazioni».
Lem e Lanotte si riferiscono ai «record azzerati», dopo la comparsa nel ciclismo della bicicletta con le due ruote tubolari lenticolari (preparata dal biomeccanico Antonio Dal Monte) in sella alla quale a Città del Messico, nel 1984, Francesco Moser stabilì il primato dell’ora percorrendo 51,151 km (il precedente record di Merckx del 1972 era di 49,432 km, l’attuale di Ondrej Sosenka è ridisceso a 49,700 km) e nel nuoto, ai supercostumi integrali che tra il 2008 e il 2009 avrebbero fruttato decine di primati mondiali e olimpici in quanto “galleggianti”. «Per test effettuati di persona – smentisce il consulente del Coni – posso garantire che non è assolutamente vero che i supercostumi galleggiassero».
La tecnologia applicata allo sport, dunque, non è quasi mai da rigettare, al limite ci si può stupire, dell’utilizzo in campo di Gps che dai cruscotti delle auto passano sui parastinchi, o che l’atleta venga connesso con Internet e che Gsm e Smartphone siano applicati direttamente sul corpo del campione in pista o in pedana. Tutto ciò rientra nello studio dell’aerodinamica e dell’idrodinamica, fondamentali nella progettazione di bici, barche, vele, bob, caschi e tute. «Lo sport è entrato da tempo nella galleria del vento. Si utilizzano, poi, sia la vasca idrodinamica che il software di simulazione (Cfd, Computational Fluid Dynamics) – spiega la Lem –. Grazie a questi strumenti di misura, ora l’atleta può essere “modellizzato” e la sua prestazione studiata in ogni singolo dettaglio».
È importantissimo in tal senso il contributo che stanno fornendo le ultime tecniche di analisi delle riprese video, introdotte dai giapponesi sin dai Giochi di Amsterdam del 1928 per “spiare” i nuotatori americani. Risultato? Quattro anni dopo, alle Olimpiadi di Los Angeles, la squadra nipponica sbaragliò quella Usa vincendo 5 ori su sei. «Quei video erano gli antesignani dell’attuale “match analysis” di dominio quotidiano nel calcio e negli sport di squadra, così come i software di analisi biomeccanica vengono adottati dal nuoto, sci, atletica e da altre discipline olimpiche».
Quando la tecnologia non è invasiva, e di ciò un fenomeno del motociclismo come Valentino Rossi si è lamentato spesso invocando «meno elettronica sulle moto», porta comunque con sé un sensibile miglioramento della sicurezza e del benessere psicofisico degli atleti. E anche in questo caso si concretizza con gli innovativi gel, materiali viscoelastici, gore-tex.
La creatività del talento non è messa in discussione, ma probabilmente il campione del futuro dovrà confrontarsi sempre più, oltre che con gli avversari, anche con le avanguardistiche “nanotecnologie”, con le tecniche di manifattura su misura (stampanti 3D). E non ultimo, con l’inserimento di parti artificiali nel corpo umano, microchip e sensori sottocutanei compresi.
Fantascienza? «Niente affatto. Forse – conclude Lanotte –, non è lontano il giorno in cui vedremo un telaio di bicicletta che pesi 100 grammi o una canoa di due etti appena. I materiali sportivi su misura diventeranno veri e propri oggetti intelligenti, capaci di cambiare il proprio comportamento in base alle condizioni atmosferiche rilevate da sensori sempre più piccoli e accurati».
«Avvenire» del 20 dicembre 2013

18 dicembre 2013

Mandela oggi eroe di tutti, ma non lo è sempre stato

di Maria Grazia Bruzzone
Cercando su Twitter l’hashtag #mandela, accanto al più semplice a sorpresa ne vengono fuori altri tre che al nome aggiungono aggettivi: #mandela communist, #mandela terrorist e #mandela racist, addirittura. Come è possibile? Eppure è così, ed è un segnale. Perché oggi tutti, ma proprio tutti i capi di Stato osannano il Nobel per la Pace e si accingono a portare omaggio all’eroe della vittoria contro l’apartheid amatissimo dai più, simbolo universale della lotta al razzismo, per la libertà , icona della non violenza. Ma non è sempre stato così. Anzi. E una fetta dell’opinione pubblica sembra ancora di diverso parere – almeno negli Stati Uniti dove Mandela è stato nella lista CIA dei terroristi fino al 2008 - ma forse anche altrove.
A ricordare quanto la figura del leader sudafricano sia stata controversa fino a un tempo relativamente recente è un post del sito tedesco Deutsche Welle. Oltre a vari blog e siti, dall’italiano Linkiesta, al Washington’s Blog, a Global Research.
Ma anche NBC, Daily Beast, Newsweek. CNN dedica un lungo post per replicare, puntualizzando, alle accuse che girano su Twitter. Mentre sul sito russo RT un post ricorda fra l'altro i legami del presidente del SudAfrica con Fidel Castro e persino con Gheddafi che, (come del resto l’URSS), finanziava l’ANC, l’African National Congress a lungo alleato del partito comunista sudafricano. E un altro ripropone citazioni scomode per lo più ignorate dai media.
DW racconta che i governi e politici tedeschi, specie i conservatori ebbero a lungo un atteggiamento molto cauto, per non dire ostile. E non erano i soli. “La definizione di Mandela come ‘terrorista di Stato’ era apertamente accettata negli Stati Uniti e in Gran Bretagna’, ricorda l’ex ministro degli Esteri Genscher, che quando nel 1985 sostenne all’ONU la richiesta di rilascio di Mandela (che era in carcere dal 1962) venne accusato di appoggiare un assassino e terrorista. La risoluzione non venne approvata.
Nel 1980, sull’onda dello slogan Free Mandela, era cominciata una campagna internazionale antiapartheid, mentre in Sud Africa i prodotti importati cominciarono ad essere pesantemente boicottati da gruppi religiosi e associazioni civili e studentesche. Con danni evidenti per il business della Germania, primo partner commerciale del Paese. L’atteggiamento della politica e delle grandi aziende – che continuavano ad assumere come manager solo bianchi – comincia a cambiare solo nel 1989 con l’avvento della Perestroyka in URSS, e dopo un decennio di scontri che piombarono il Sud Africa in una guerra civile che sembrava inarrestabile.
“Ma fino al 1996 verso Mandela e l’ANC in Germania vi fu un certo scetticismo”.
Nel 1990 Mandela, dopo 27 anni, era stato finalmente fatto uscire di prigione nel tentativo di riportare la calma nel Paese dilaniato da una violenza che minacciava ormai gli interessi economici dei bianchi.
“Mandela era l’unica via d’uscita dalla storia fascista del Paese, per evitare una guerra civile troppo estesa e consentire la sopravvivenza degli interessi storici degli afrikaans” scrive Linkiesta.Che smonta il mito di un Madiba non violento in toto.
“Politico abile, umile, a tratti cinico, teatrale e paziente. Non solo è riuscito a convincere i neri a non vendicarsi: ha evitato che le famiglie bianche vedessero svanire rendite e possedimenti tramite le restituzioni. È stato un brillante uomo del compromesso: i bianchi hanno ceduto il potere politico, e in cambio è stato lasciato loro quello economico. Qui è il carisma di Mandela: ‘Credetemi, e il Paese nascerà’ ”.
“Ma non si pensi che abbia raggiunto i suoi obiettivi solo con la riconciliazione. Mandela non è Madre Teresa o Gandhi, che lo si accetti o meno. Mandela ha impiegato per anni la violenza come arma politica – non di “negoziazione”, perché secondo lui «chi non è libero non negozia». Già nel 1985 gli era stata offerta la libertà in cambio della rinuncia alla violenza, ma rifiutò. Nel 1990, mesi dopo la sua liberazione, il presidente americano George Bush gli chiese di abbandonare la lotta armata, ma Mandela sostenne che essa sarebbe continuata finché il governo sudafricano non avesse iniziato a smantellare l’apartheid.
Oggi si tende a passarci sopra. Come si tralascia il fatto che Mandela sia stato cancellato dalla lista dei terroristi della CIA soltanto nel 2008, fatto ricordato da vari tweets. La CIA del resto aveva giocato un importante ruolo nel suo arresto nel 1962 scriveva il NYTimes nel 1990, linkato nel post del Washington’s Blog.
Newsweekha confermato la vicenda nei giorni scorsi, e anche la rete tv NBC se ne è occupata.
Nella lista dei terroristi Mandela fu messo nel 1980 da Ronald Reagan (che arrivò a dire che il regime razzista sudafricano era ‘essenziale al mondo libero’) e nel 1985 Dick Cheney, allora parlamentare Repubblicano, votò contro la risoluzione ONU che ne chiedeva la liberazione, scrive oggi The Daily Beast titolando "Ora lo onorano, allora lo odiavano". E aggiungendo che nel 2004, dopo che Mandela criticò la guerra in Iraq, Cheney ebbe a dichiarare:‘Il suo furioso antiamericanismo e il suo sostegno a Saddam Hussein non stupisce, visto il suo dedicarsi al comunismo e al suo elogio dei terroristi’.
L’ex vice di George.W Bush non si è affatto pentito del suo giudizio né del suo voto contrario alla liberazione di Mandela: ‘Non ho nessun problema col mio voto di 20 anni fa' ha detto, a quanto riferisce l’HuffingtonPost.
Molti elettori conservatori la pensano probabilmente come lui, a giudicare dai tweets. Di più. Ritengono che Mandela fosse non solo comunista e terrorista ma addirittura razzista. Accuse che la CNN smentisce drasticamente nel suo lungo post ultra-pedagogico dove distingue fra le accuse, quello su cui si basano e la verità.
Viene ricordato che nel 1962 si era in piena Guerra Fredda e il mondo era diviso in due: con gli Usa o con l’URSS e la Cina. Un anno prima era stato alzato il Muro di Berlino. La vicinanza di Mandela con i movimenti marxisti data dagli anni ’40, cominciò con la sua amicizia, durata un’intera vita, con Joe Slovo, un ardente comunista. Ma Mandela non fu mai comunista fino in fondo. E’ vero – secondo lo storico Sampie Terreblanche sentito da CNN - che dopo la sua liberazione andò dall’amico Fidel Castro (fu la sua prima visita, ricorda RT- ma nel suo lungo tour diplomatico non si recò in Urss, o in quel che restava). E a una cerimonia per il rilancio del partito comunista sudafricano dichiarò che l’ANC ‘Non è un partito comunista’. Insomma, aveva capito dove era meglio posizionarsi, per il bene del suo Paese.
Razzista? "Il giorno prima di essere mandato nella prigione di Robben Island in un discorso in parlamento disse che era ‘contro ogni forma di razzismo’. Il suo amico Slovo era bianco, come molti altri rivoluzionari che si unirono al gruppo. Nel processo politico che portò alla fine del regime trattò col suo predecessore bianco, l’ex presidente conservatore e segregazionista Frederick Willelm de Klerk, che poi condivise il Nobel con lui. Abbracciò il rugby, sport popolare e eredità degli afrikaaners sostenendo la squadra di soli bianchi. E alla fine del match con la nuova Zelanda andò sul campo indossando la maglietta del capitano della squadra. Un gesto che ispirò il film di Clint Eastwood Invictus del 2009.
La folla cominciò a cantare il suo nome. Erano quasi tutti bianchi.
Parlare come fa Global Research di ipocrisia a proposito degli omaggi a Mandela da parte di tutti leader, da Clinton a Blair, da Cameron …a Obama – che non ha chiuso Guantanamo e non si cura dei civili uccisi dai droni Usa in Pakistan e Yemen - appare a questo punto eccessivo.
Per quante contraddizioni vi possano essere nella quasi beatificazione di Mandela a cui assistiamo, ben vengano le icone che veicolano nel mondo messaggi e valori che possono renderlo migliore.
«La Stampa» dell'8 dicembre 2013

08 dicembre 2013

Annibale, guerriero perfetto ma eroe delle cause perse

Barry Strauss mette a confronto i capi militari più importanti dell'antichità. La valutazione: un condottiero formidabile superiore persino a Cesare e Alessandro
di Paolo Mieli
Alle origini del conflitto Roma non poteva accampare ragioni di diritto internazionale realmente valide per scendere in guerra dopo la caduta di Sagunto, città sua alleata in Spagna. Umiliò i Romani, poi Cartagine lo tradì negandogli i rinforzi. Il giudizio di Churchill: chi sa vincere una guerra raramente sa stabilire una buona pace, chi sa fare una buona pace non avrebbe mai vinto la guerra
Polibio ne lodò esplicitamente «il modo di esercitare il comando, il valore e la forza sul campo». Napoleone Bonaparte ne esaltò la grandezza e lo collocò sullo stesso piano di Alessandro Magno e Giulio Cesare. Sigmund Freud, fin da giovane, ne scrisse con ammirazione, idealizzandolo come un «semita» che aveva avuto il coraggio di sfidare Roma. Nel 1934, il presidente turco Mustafa Kemal Ataturk gli dedicò un panegirico a Libissa, luogo in cui 2117 anni prima il comandante cartaginese si era dato la morte con il veleno per non essere catturato dai romani. Panegirico che doveva suonare a monito nei confronti di Benito Mussolini, il quale si proponeva come restauratore dei fasti di quell'antica Roma che, pur dopo essere stata da lui umiliata, alla fine era riuscita a sconfiggere il generale africano. In anni recenti gli afroamericani lo hanno considerato il grande eroe nero dell'antichità (anche se probabilmente non era di pelle scura). Adesso, in un libro che sta per essere pubblicato da Laterza, L'arte del comando (nella convincente traduzione di Giuliana Scudder), Barry Strauss sostiene che, per certi versi, il grande generale cartaginese superò Alessandro e Cesare. «Probabilmente», scrive, «fu Annibale il più grande comandante, sia in combattimento sia sul campo... Con la battaglia di Canne realizzò uno degli esempi di accerchiamento più eleganti e distruttivi che gli annali della storia militare ricordino». Si può dire che fu «l'eroe della cause perdute e delle battaglie perfette».
Come Alessandro con Filippo II, Annibale aveva appreso l'arte militare dal padre: Amilcare Barca. Quando attaccò Roma aveva 29 anni e da 20 non aveva più messo piede a Cartagine. A fianco del padre, in Spagna, aveva fatto sua l'«abilità del sorprendere». Quando varcò le Alpi, portando con sé gli elefanti, «lasciò il nemico a bocca aperta». Accerchiò i romani «con una serie di stratagemmi inauditi»: riuscì «a forzare le porte di una città inespugnabile»; caricò il nemico con la cavalleria da un nascondiglio alle sue spalle; in una notte riuscì a portare in salvo il suo esercito sotto il naso dei romani. Non ebbe remore di carattere umanitario: la prima cosa che fece, quando nel 218 a.C. giunse in Italia, fu massacrare gli abitanti di Torino per spezzare la resistenza nell'area circostante; e quando 15 anni dopo, nel 203 a.C., lasciò l'Italia, uccise gli italici che si rifiutavano di seguirlo. Ugualmente crudeli, del resto, furono gli altri due condottieri: Alessandro rase al suolo Persepoli con una dose non necessaria di sadismo; Cesare, scrive Plutarco, sterminò in Gallia un milione di persone (e ne ridusse in schiavitù altrettante).
Roma controllava i mari e i porti vitali della Sicilia e della Sardegna. Così Annibale, non potendo cercare rifornimento nei porti delle due isole, fu costretto a compiere un viaggio di 1.600 chilometri, dalla Spagna meridionale all'Italia settentrionale. A quei tempi Roma aveva a disposizione un esercito potenziale di 760 mila uomini, Annibale di 60 mila, che si sarebbero ridotti a 26 mila dopo l'attraversamento delle Alpi. La sua arma principale, oltre a quella di colpire il nemico a sorpresa, era (avrebbe dovuto essere) quella di provocare defezioni nel campo degli alleati di Roma. Ci riuscì davvero e fino in fondo solo con i celti. In ogni caso comunicava agli italici di essere sulle loro terre non come conquistatore, ma come liberatore e, dopo ogni vittoria, riduceva in schiavitù i romani, ma liberava tutti i prigionieri italici.
Annibale, a detta di Strauss, «impersonò la figura del vendicatore e del liberatore e trovò la via per avvicinarsi agli dei». A Cartagine promise di restituire l'onore perduto a causa dell'antica sconfitta subita da Roma nella Prima guerra punica; agli italici disse che avrebbe loro restituito «la libertà dalla dominazione romana» (anche se Cartagine, diffidente nei confronti della famiglia Barca, nel momento decisivo gli lesinò gli aiuti). Affermò, Annibale, di essere protetto dal dio cartaginese Melqart, da Ercole e si descrisse come un eroe tratto dalla mitologia celtica. Ma, precisa Strauss, «a differenza di Alessandro non dichiarò mai di essere un dio, e si limitò ad affermare di essere sotto la protezione divina». Per questo «il fascino che Annibale esercita sui diseredati ha radici solide». Nessuno stratega «è riuscito a realizzare una invasione così rischiosa come la marcia di Annibale attraverso i Pirenei, il Reno e le Alpi fino in Italia; nessun comandante ha ottenuto una vittoria tattica così definitiva come quella di Annibale a Canne... Nessuno ha saputo riorganizzare con tanta fermezza i popoli invasi come lui quando entrò in Italia al grido "l'Italia agli Italici"». Dopo «aver sfidato un impero arrogante e averlo scosso fino alle radici, perse tutto; ma conservò la propria dignità; nella sconfitta reinventò se stesso come amministratore, ricominciò la lotta contro Roma in Oriente, e rifiutò l'umiliazione di una marcia trionfale del nemico? Morì da sconfitto, ma non piegato».
Tito Livio definì il conflitto che oppose Annibale a Roma (218-201 a.C.) «la più memorabile di tutte le guerre che vennero mai combattute». «A mio parere», ha scritto Werner Huss in Cartagine (Il Mulino), «i romani non potevano accampare nessuna valida ragione di diritto internazionale quando nel 218 a.C. entrarono nella guerra che doveva decidere dell'egemonia nell'area del Mediterraneo occidentale». Questo semplice fatto «fu però messo in ombra dalle affermazioni dei politici e storici romani, che da un lato ritennero politicamente inopportuno dire la nuda verità, dall'altro erano intimamente convinti che ogni guerra combattuta da Roma fosse una "guerra legittima"». Se i romani, prima dello scoppio della guerra, si videro costretti ad agire in base a un pretesto giuridico - il presunto obbligo di alleanza nei confronti della città iberica di Sagunto, cuneo romano nella Spagna cartaginese, espugnata da Annibale nel 219 a.C. - questo, secondo Huss, «non solo dimostra che erano consapevoli della illegittimità della loro azione, ma lascia anche pensare che si rendessero pienamente conto della grande importanza della loro decisione».Se poi dobbiamo accettare la massima napoleonica secondo cui «in guerra non sono gli uomini ma l'uomo che conta», ha scritto Basil H. Liddell Hart in Scipione Africano (Bur), «il fatto più significativo è che Alessandro e Cesare ebbero il terreno spianato dalla debolezza e dall'ignoranza dei comandanti che li contrastarono». Annibale, no. Solo Annibale («al pari di Scipione») combatté regolarmente contro generali esperti. Però, prosegue Liddell Hart, «le sue tre vittorie decisive - Trebbia, Trasimeno e Canne - vennero riportate su generali non solo ostinati e precipitosi, ma anche scioccamente refrattari a qualsiasi tattica che contasse sull'astuzia piuttosto che sul puro e semplice impiego della forza bruta». Annibale ne era consapevole, tant'è che alla vigilia della battaglia della Trebbia, esaltando l'attitudine a individuare le opportunità e la prontezza nel coglierle, avvertì i suoi: «Avete a che fare con un nemico ignaro di queste arti della guerra». Barry Strauss lo descrive invece come un generale senza scrupoli che «con una élite esperta e un piccolo esercito riesce a mettere fuori combattimento un gigante d'argilla»: tipo Hernán Cortés, che nel 1519 con appena seicento uomini affrontò gli aztechi e nel 1521 avrebbe conquistato l'intero Messico.
Già Pirro, re dell'Epiro, nel 280 a.C. aveva invaso l'Italia meridionale e aveva quasi piegato Roma. Generale dotato dello stesso carisma di Annibale, scrive Strauss, «anche Pirro aveva un esercito piccolo ma esperto, completo di cavalleria e di elefanti... Al contrario di Annibale, aveva anche numerosi alleati italici». Vinse due importanti battaglie campali contro Roma, ma subì perdite talmente gravi che le vittorie si trasformarono in sconfitte: Roma rifiutò di arrendersi, riguadagnò gli alleati che fornirono nuove truppe e ottenne l'appoggio di Cartagine, timorosa che Pirro potesse invadere la Sicilia. Così, cinque anni dopo, nel 275 a.C., il re dell'Epiro fu costretto a tornarsene a casa a mani vuote.
Annibale, passate le Alpi, dove, come si è detto, aveva perso oltre la metà del suo esercito, anziché fermarsi a riprendere fiato, come tutti si aspettavano, inflisse due terribili sconfitte ai romani: sul Ticino, dove umiliò Scipione, padre di quello che sarebbe divenuto l'Africano, e sulla Trebbia, dove circa 28 mila uomini (due terzi dell'esercito di Roma) furono uccisi o presi prigionieri. Qui Tito Sempronio Longo non ebbe il coraggio di dire a Roma la verità circa l'accaduto e raccontò che una tempesta «aveva ostacolato la vittoria». Nel 217 a.C., l'anno successivo a quello del passaggio delle Alpi, Annibale attraversò gli Appennini e si impantanò nelle paludi dell'Arno, un luogo acquitrinoso, che causò notevoli perdite alle armate cartaginesi. Ma anche stavolta non si perse d'animo e inflisse ai romani un nuovo scacco sulle rive del Trasimeno. Tra uccisi, feriti o catturati, altri 30 mila romani furono fatti fuori, mentre l'esercito di Annibale subì la perdita di 1.500 uomini, prevalentemente celti. Qui si pone per la prima volta la questione di Maarbale, il valoroso generale cartaginese che, secondo gli approfonditi studi di Dexter Hoyos, già allora avrebbe fatto pressione per attaccare immediatamente Roma, che dista appena 137 chilometri dal luogo della battaglia e che in quel momento era difesa da non più di 10 mila militi. Ma Annibale sceglie di aggirare la città nemica per dirigersi verso sud, in cerca di nuovi alleati e di una ricompensa per le sue truppe. E gli storici sono pressoché unanimi nel giudicarla una buona scelta.Roma a questo punto corre ai ripari affidandosi a un dittatore: Quinto Fabio Massimo, grande esperto nell'arte di temporeggiare, non attaccare frontalmente l'avversario (limitandosi a infastidirlo con azioni di guerriglia). Il suo piano, secondo Plutarco, era di «mandare piuttosto soccorso agli alleati, perché, conservando essi le loro città, logorassero le forze di Annibale come fiamma che brucia alimentata da scarsa e leggera materia». Si discute ancora, ha scritto Fabio Mini in Eroi della guerra. Storie di uomini d'arme e di valore (Il Mulino), se il Temporeggiatore avesse trovato «una tattica asimmetrica» o fosse soltanto «un inetto che si accontentava di sopravvivere». Di certo «era più attento al clima politico del Senato che alla ricerca dello scontro con Annibale, il quale poté continuare a muoversi con relativa facilità». Annibale, ha proseguito Fabio Mini, «comprese che la strategia indiretta del sollevamento locale contro Roma non dava i frutti sperati e i romani mantennero il controllo del territorio». Ma «anch'essi erano vicini al collasso psicologico». Tra l'altro, scrive Strauss, la cultura romana amava l'offensiva e disprezzava la strategia difensiva, i soldati scalpitavano per la passività del loro comandante e il popolo di Roma gli diede lo spregiativo nomignolo di «servo di Annibale». A compensare, parzialmente, questa inattività romana, arriva la notizia della splendida vittoria navale alla foce dell'Ebro e di altre prodezze terrestri di un altro Scipione a danno di Asdrubale, fratello di Annibale, da lui lasciato a presidio della Spagna.A fine 217 a.C. il Temporeggiatore lascia l'incarico, viene sostituito da due consoli e il 2 agosto dell'anno successivo Roma perderà in un giorno tante persone quante il Giappone oltre duemila anni dopo a Hiroshima. Stiamo parlando della battaglia di Canne, dove i romani, pur disponendo del doppio di uomini dei loro nemici, furono travolti da Annibale, che ne uccise 48 mila e ne fece prigionieri altri 20 mila (il 75 per cento del loro esercito). I nuovi consoli, Gaio Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo, avevano deciso di farla finita con le tattiche di Quinto Fabio Massimo e di cercare, perciò, lo scontro. Comandavano, però, a giorni alterni: Paolo, il più prudente, decise il 1° agosto di non rischiare; Varrone, il giorno successivo, attaccò e per Roma fu la fine. O quasi. Annibale accerchiò e travolse i romani con un modulo di battaglia che sarebbe stato studiato nei secoli: nel 1905 la strategia cartaginese ispirò il piano del generale tedesco Alfred Graf von Schlieffen, ma nel 1914 l'esercito della Germania imperiale non riuscì ad applicarlo e a ripetere l'impresa a danno dei francesi. Per Roma l'agosto del 216 a.C. a Canne fu un ricordo terribile: «L'elenco dei morti era un "chi è" della élite romana: vi appartenevano 80 senatori o persone eleggibili come membri del Senato, 29 tribuni militari, numerosi ex consoli e il console Paolo, uno dei comandanti dell'esercito romano», nota Strauss. Sopravvisse Publio Cornelio Scipione, che trovò rifugio a Canosa. E qui torna in scena per la seconda volta Maarbale, che suggerisce ad Annibale di puntare dritto su Roma. Nel giro di cinque giorni, gli diceva, avrebbe potuto cenare sul Campidoglio. Si offrì di andare avanti lui e di affrontare la parte più impegnativa della battaglia. Ma Annibale gli rispose di no. Al che Maarbale, secondo Tito Livio, gli avrebbe detto: «Evidentemente gli dei non hanno concesso tutti i doni a uno stesso uomo: tu, Annibale, sai vincere, ma non sai approfittare della vittoria». Il grande condottiero cartaginese, però, non si lasciò persuadere. Pretendeva, prima di impegnarsi nello scontro decisivo, di avere una migliore disposizione sul campo delle alleanze. A questo punto Strauss si domanda se Maarbale avesse ragione e, a differenza di quasi tutti gli storici che si sono occupati delle guerre puniche, conclude che difficilmente, con la strategia d'attacco suggeritagli dal proprio braccio destro, il comandante cartaginese avrebbe costretto Roma alla resa. Forse avrebbe dovuto attaccare Canosa, per dare un ulteriore colpo all'esercito nemico in rotta e togliere di mezzo l'uomo che lo avrebbe sconfitto, il giovane Scipione (questo però Annibale non lo poteva immaginare).
Dopo Canne, in ogni caso, la maggior parte dell'Italia meridionale (ma non di quella centrale) passò con Annibale e così anche Filippo V di Macedonia. Il condottiero africano promise che non avrebbe arruolato i loro uomini: gli era sufficiente che non fossero più a disposizione di Roma. Ma, in un acuto saggio dedicato a questa vicenda, Siegmund Ginzberg ha fatto notare come fosse di fatto impossibile mandare in frantumi l'intelaiatura di rapporti creata dai romani. E ha condiviso la tesi centrale del celebre libro di Robert O'Connell, The Ghost of Cannae (Random House): «Annibale analizzava la struttura delle alleanze di Roma come se studiasse una radiografia ai raggi X, vedeva le strutture ossee; invece avrebbe avuto bisogno di una risonanza magnetica, che gli mostrasse il tessuto connettivo fatto dalle relazioni personali che Roma era riuscita a stabilire tra i membri del proprio gruppo dirigente e quelli dei gruppi dirigenti degli alleati, nonché i rapporti di clientela... Era proprio quello l'elemento che teneva insieme l'alleanza romana; Annibale non riuscì mai a cogliere fino in fondo quanto fosse forte, quindi non riuscì a spezzarla del tutto, anche dopo aver vinto una battaglia dietro l'altra».Ma torniamo al dopo Canne. La città più importante che passa dalla sua parte è Capua e lì stabilisce il suo quartier generale. Annibale, ricostruisce poi Fabio Mini, «girovaga per l'Italia meridionale. Sosta, ozia, attacca, si lascia invischiare nelle meschinità locali. Dalla Campania organizza una spedizione, attraversa il Sannio e punta su Roma. Arriva a tre chilometri dalla città e si ferma. Non ha le forze per distruggerla, né per piegarla; combattendo sotto le sue mura costituirebbe un obiettivo per tutte le legioni romane e gli alleati, sa di non avere il controllo delle linee di rifornimento e non è sicuro del supporto di Cartagine in mano ai politicanti». Preferisce tornare in Apulia, sconfigge i romani a Oderno e a Locri, ma quelli riescono a riprendere il controllo del Sannio e della Campania.In merito a tali circostanze, Barry Strauss rende esplicito omaggio al fondamentale volume di Michael Fronda, Between Rome and Carthage. Southern Italy during the Second Punic War (Cambridge University Press), nel quale è ben argomentata la tesi secondo cui, avendo Roma un numero pressoché illimitato di soldati (Polibio ne calcolava circa 800 mila, comprendendo quelli «prestati» dalle città italiche), l'unica iniziativa di Annibale che avesse senso strategico era quella di sottrarle il maggior numero possibile di alleati e con questi alleati la metà degli uomini in armi su cui avrebbe potuto contare. Cioè quello che provò a fare. Inviando suo fratello Magone a Cartagine, nel 215 a.C., con un cesto di anelli d'oro sottratti ai nobili romani uccisi o fatti prigionieri a Canne, per chiedere un aiuto che il Senato della città concesse malvolentieri. Roma a questo punto riuscì con un assedio di due anni, dal 213 al 211 a.C., a riconquistare Siracusa, che era passata con Cartagine (nella battaglia fu ucciso il grande matematico Archimede, il quale si era messo a disposizione della difesa della città) e la Sardegna. Poi attaccò Nuova Cartagine in Spagna. E sfondò nella penisola iberica. Annibale, scrive Strauss, non aveva tenuto conto di una fondamentale legge di guerra: se invadete un Paese, non permettete che, per rivalsa, questo invada il vostro. Qui entra in scena Publio Cornelio Scipione, che sarà detto l'Africano. È nato nel 235, ha 12 anni meno di Annibale, contro il quale ha combattuto, diciassettenne, a fianco del proprio padre nella battaglia del Ticino: padre che sarà ferito e che lui stesso trarrà in salvo con un'azione davvero eroica. Mentre Annibale è in Italia, travolge i romani e conosce successo dopo successo, Scipione si fa nominare proconsole per la Spagna e riesce a riconquistare la penisola iberica. Forte di questa impresa, si propone di attaccare Cartagine, costringendo in questo modo Annibale a tornare in Africa per difendere la sua città. Ma il Senato lo osteggia, Quinto Fabio ironizza sulla sua giovane età e, scrive Fabio Mini, «allude al fatto che si tratti di una sua manovra per avere gloria lontano da dove è il pericolo, cioè Roma». Quinto Fabio, secondo Mini, attribuisce a Scipione «un vizio comune a quel tempo come oggi, un vizio di cui lui stesso era esempio vivente»: le armate «sono reclutate per la protezione della città, non per i consoli che, come sovrani, le portino per il mondo ove loro aggrada per motivi di vanità personale». La risposta di Scipione è caustica: «Affronto il nemico che voi mi assegnate, ma voglio essere io a trascinarlo dietro a me piuttosto che sia lui a trattenermi... Chi porta il pericolo su di un altro ha più spirito di chi deve respingerlo, il terrore si moltiplica con la sorpresa e l'inaspettato? purché non sorgano impedimenti, qui presto sentirete che in Africa è scoppiata una guerra e che Annibale sta lasciando l'Italia». Il Senato, «in un costume sopravvissuto fino ad oggi in molte parti del mondo» (Mini), se la cava con un marchingegno, nominando Scipione console in Sicilia, così che sia lui nella sua autonomia a prendersi la responsabilità di attaccare Cartagine. E Scipione se la prende.Scacciati i cartaginesi dalla Spagna, sconfitto Asdrubale nella battaglia di Becula (208 a.C.), si fa eleggere console (205 a.C.), mette insieme un suo esercito personale il cui nerbo è composto da sopravvissuti di Canne e sbarca in Africa (204 a.C.). Qui si allea con Massinissa e riesce a spezzare l'alleanza di Cartagine con la Numidia. I cartaginesi provano a trattare la pace con Roma, poi inviano (inutilmente) Magone in Italia a soccorrere Annibale, infine nel 203 a.C. richiamano lo stesso Annibale in patria. Il comandate non rientra in città, si accampa anzi a 120 chilometri, nei pressi del porto di Adrumeto. E mentre si prepara allo scontro decisivo, capisce di essere spacciato. Strauss ipotizza che se, come lo esortava a fare il Senato di Cartagine, avesse attaccato prima, quando ancora Massinissa non si era ricongiunto a Scipione, forse... Ma poi lui stesso ammette che Scipione non avrebbe accettato il confronto militare fino a quando non si fosse congiunto alla cavalleria dei numidi. Perciò a quel punto non c'era via d'uscita.Prima della battaglia di Zama (202 a.C.), Annibale a sorpresa chiede di incontrare Scipione. «I resoconti di questo colloquio», scrive Liddell Hart, «devono essere considerati importanti solo nelle loro linee generali e pertanto - anche a causa delle lievi divergenze tra le varie fonti - sarebbe più conveniente parafrasarli, ad eccezione di alcune delle frasi più pregnanti». Il tema principale su cui si sofferma Annibale è «l'incostanza della fortuna». Annibale sa che perderà e così si rivolge al suo giovane interlocutore: «Quello che io fui al Trasimeno e a Canne, quello sei tu oggi... Adesso sono qui in Africa, ridotto a dover discutere con te, che sei romano, della salvezza mia e di quella dei cartaginesi; proprio in considerazione di questo io ti consiglio di non essere superbo». Dopodiché elenca condizioni di pace a tal punto favorevoli a Cartagine che per Scipione è facile respingerle. Perché allora aveva voluto quell'incontro? Secondo Strauss, Annibale aveva intuito che anche Scipione aveva problemi con il suo governo e quello era un modo di suggerirgli che «c'era tra loro molto in comune, che erano avversari non nemici e potevano essere utili l'uno all'altro, comunque fossero andate le cose... Il perdente poteva ottenere clemenza e il vincitore avrebbe saputo di avere nel campo avverso un uomo che rispettava». Dopodiché Zama fu una Canne capovolta: i cartaginesi persero 20 mila uomini e altrettanti ne furono fatti prigionieri; i morti di Scipione furono 1.500. La sua vittoria fu schiacciante. Ma Scipione, probabilmente anche a seguito del colloquio di cui si è detto, si oppose a che Annibale fosse portato a Roma in catene. Anzi, consentì che mantenesse ruoli pubblici nella sua città. E qui accade qualcosa a cui Strauss dedica grande attenzione. Tornato al potere nel 196 a.C., Annibale ritenne che il compito più urgente fosse quello di riordinare le finanze dissestate. Ci provò e ci riuscì. Ma, nota Werner Huss, entrò in conflitto con il «ministro delle finanze», che apparteneva al partito aristocratico. Propose anche una riforma molto ardita, che ridimensionava il Consiglio dei Centoquattro, organo supremo della politica cartaginese, e fu a quel punto che i suoi nemici interni, «senza alcun ritegno», lo indicarono ai romani come se fosse tornato ad essere pericoloso.In realtà stava solo diventando un uomo politico di grande peso. È quello che Barry Strauss definisce il «paradosso di Annibale»: nel momento stesso «in cui si spegnevano i suoi sogni di gloria militare, si svelava la sua capacità politica». «Quando aveva stabilito un rapporto con Scipione, aveva fatto probabilmente l'unica cosa che poteva fare per salvarsi dall'esilio e dalla morte... A quel punto cominciò a reinventarsi come statista e riformatore, facendo per Cartagine quel che Cesare avrebbe fatto per Roma, e anche di più». Ma, scrive Huss, i romani - nonostante Publio Cornelio Scipione Africano si battesse in sua difesa e gli desse fiducia - inviarono a Cartagine una missione per fare chiarezza su questa nuova situazione (anche se lo scopo ufficiale degli emissari era quello di dirimere una vertenza sui confini tra Cartagine e Massinissa). Ovvio, afferma Strauss, «dopo Annibale, Roma non si sarebbe più fidata davvero di Cartagine e avrebbe finito col vendicarsi di Canne in un modo tale da far sembrare quel massacro una lotta a cuscinate».
Annibale capì l'antifona e fuggì a Efeso, alla corte di Antioco. Era l'anno 195 a.C. e da quel momento avrebbe girovagato, ma non avrebbe mai più rimesso piede a Cartagine. Dopo la sua fuga, i romani gli diedero la caccia e nel 183 a.C., quando stava per essere catturato, Annibale si uccise, a Libissa nei pressi di Istanbul, il luogo in cui ? come si è detto all'inizio ? lo avrebbe celebrato Ataturk. Quanto a Cartagine, divenuta anche per merito di Annibale di nuovo fiorente e prospera, cinquant'anni dopo (146 a.C.) i romani, che non se ne fidavano, l'avrebbero rasa al suolo in maniera definitiva. E trascorsi cento anni, nel 46 a.C. Giulio Cesare l'avrebbe rifondata come colonia romana, popolata da abitanti che provenivano dall'Italia. Ma da quel momento per Cartagine fu tutta un'altra storia.Secondo Strauss gran parte della responsabilità per il fallimento dell'impresa di Annibale ricade sul governo cartaginese, che nel 215 a.C. aveva rifiutato di inviargli i rinforzi richiesti. Ma anche lui, dopo la sconfitta di Asdrubale in Spagna nel 207 a.C., avrebbe dovuto capire che la sua avventura in Italia non aveva più alcuna possibilità di successo e non doveva restare lontano dall'Africa altri quattro anni. Nessuno come lui seppe tenere in pugno i propri soldati che, a differenza di quelli di Cesare e di Alessandro, mai si ammutinarono. Il suo principale difetto era che «non sapeva, al contrario di Cesare, immaginare il futuro». Poi, per paradossale che possa apparire, tutta la sua vita e in particolare la parte conclusiva dimostra che, a differenza di Alessandro, «fu un ottimo amministratore, ma non un buon conquistatore». I conquistatori, afferma Strauss, «continuano ad andare avanti finché loro e i loro uomini cadono esausti o morti; gli uomini di Stato sanno quando è il momento di fermarsi». Ma è difficile possedere entrambe le doti. Ha scritto Winston Churchill: «Quelli che sanno vincere una guerra, raramente sanno stabilire una buona pace, e quelli che hanno saputo fare una buona pace, non avrebbero mai vinto la guerra». Annibale avrebbe potuto essere l'unica eccezione nella storia.
«Corriere della Sera» del 30 settembre 2013