26 novembre 2013

Elogio del classico

Chi ha fatto buoni studi, se non è capace di fare bene i mestieri esistenti, è più aperto ai mestieri di domani e forse in grado di idearne alcuni. Certo ci vorrebbe un liceo più moderno di quello ideato da Gentile
di Umberto Eco
Si legge che diminuiscono sensibilmente le iscrizioni al liceo classico Quello che rende perplessi è che la ragione addotta è che non offre sbocchi professionali. Mi pare che, se uno intende arrestarsi alla maturità senza entrare all’università, il classico offra le stesse possibilità di ogni altro liceo. Se si cerca un lavoro immediato dopo le medie superiori allora è meglio un buon diploma di ragioniere o di geometra, professioni di cui si ha sempre bisogno. Se invece si pensa all’università, il classico offre la possibilità di fare qualsiasi facoltà, ingegneria compresa, e quindi il problema non esiste, ovvero si sposta sugli sbocchi professionali dopo l’università, ed è certo che forse diventare dentista piuttosto che professore di filosofia apre maggiori possibilità di comperarsi una barca. Ma so di gente laureata in lettere che ha fatto grandi carriere, in banca e alle massime magistrature dello Stato, si veda, tanto per dirne una, Ciampi. Pertanto nasce il sospetto che la differenza noi sia tra l’educazione classica e quella no, bensì tra avere la testa di Ciampi o quella di qualcun altro.
Ma non vorrei fare del razzismo. Ricordo che il vecchio Adriano Olivetti, quando si stava non solo costruendo (ancora) delle macchine da scrivere, ma già si lavorava ai primi grandi computer, quelli che occupavano uno stanzone e funzionavano ancora a valvole e schede perforate, assumeva certamente dei bravi ingegneri, altrimenti i computer non li avrebbe mai costruiti, ma non aveva esitazioni ad assumere un laureato che avesse fatto una tesi eccellente sui dialetti omerici. Lo mandava a farsi pratica in fabbrica per sei mesi, lavorando da operaio (ma più che altro per fargli capire cos’era una industria) ma poi lo metteva a lavorare ai grandi progetti, o addirittura all’amministrazione. Ricordo che aveva così formato un futuro grande manager che aveva fatto una tesi su Hegel.
Perchè Olivetti faceva così? Perché aveva già capito che una buona educazione (media e universitaria) non insegna solo a fare quello che si sa già (e certamente una scuola per elettricisti deve anzitutto insegnare a riparare un impianto elettrico così come si presenta oggi), ma a essere abbastanza immaginativi per capire dove va a parare il futuro (e il buon elettricista dovrebbe avere abbastanza flessibilità e fantasia per capire cosa potrebbe accadere se domani l’illuminazione e il riscaldamento non fossero più prodotti dall’energia elettrica).
Prepararsi al domani vuole dire non solo capire come funziona oggi un programma elettronico ma concepire nuovi programmi. E accade che gli studi classici (compreso sapere che cosa aveva detto Omero, ma soprattutto la capacità di lavorare filologicamente su un testo omerico - e avere fatto bene filosofia e un poco di logica) sono quelli che ancora possono preparare a concepire i mestieri di domani.
Certamente vorrei un classico concepito in modo più moderno di quello ideato nel secolo scorso da Gentile (che poco aveva compreso delle scienze), dove ci fosse un poco più di matematica, e naturalmente di lingue contemporanee oltre al greco (e forse si potrebbe superare la distinzione artificiosa tra classico e scientifico), ma chi ha avuto una buona educazione classica ha sempre trovato qualcosa da fare, anche se non era quello che tutti si aspettavano in quel momento.
Solo chi ha il respiro culturale che può essere offerto da buoni studi classici è aperto all’ideazione, all’intuizione di come andranno le cose quando oggi non lo si sa ancora.
In altre parole, vorrei dire che chi ha fatto buoni studi classici, se non è forse capace di fare bene i mestieri esistenti, è più aperto ai mestieri di domani e forse capace di idearne alcuni.
Ma certamente è una sfida. Chi ha paura del classico è meglio prenda altre strade, perché la vita è crudele e – anche se non è politicamente corretto dirlo -appartenere alle élites è rischioso e faticoso. Si può avere una vita felice a soddisfazioni anche estetiche studiando ebanisteria, e guai se non ci fosse chi lo fa.
«L'Espresso» del 3 ottobre 2013

24 novembre 2013

Lingue, musei e stage: la gita scolastica del 2014

Come cambiano le tradizioni scolastiche
di Carlotta Lombardo
Soggiorni a Roma e Firenze o periodi all’estero e viaggi esperienziali, ma molte scuole rinunciano alle gite di primavera
Meno gite scolastiche. Fino a pochi anni fa nelle scuole superiori di secondo grado erano 1,3 milioni i ragazzi coinvolti: l’anno scorso si è scesi a 930 mila. Nelle superiori di primo grado è andata ancora peggio: 470 mila gli studenti in gita, con un calo del 31% rispetto all’anno prima. Se le gite calano, aumenta però l’accuratezza con cui si scelgono meta del viaggio e prezzo. Praga, Barcellona e Berlino le mete preferite dai liceali, secondo l’Osservatorio Touring sul turismo scolastico; Roma, Firenze, Venezia, Torino per le medie inferiori. E c’è anche un fiorire di tour operator specializzati proprio nel portare i ragazzi in gita. Si occupano di tutto: dall’albergo giusto, con strutture che garantiscano sicurezza a prof e ragazzi, a laboratori e attività interattive da abbinare alle più classiche visite e mostre.

STAGE ALL’ESTERO E CITTA’ D’ARTE - Il primo ad occuparsene è stato il Touring Club Italiano: era il 1913. L’idea era aiutare la crescita culturale e civile dei ragazzi attraverso il viaggio. Oggi il Touring offre una buona gamma di possibilità, sia per la varietà delle mete che per le tipologie di viaggio proposte: itinerari nel tempo, percorsi storici e archeologici, capitali e grandi città d’arte, stage linguistici. «Le mete più richieste — spiega Paola Giambelluca, responsabile del settore viaggi giovani del Touring – sono le città classiche, anche se gli stage linguistici hanno registrato un aumento notevole. Le scuole si rivolgono a noi chiedendo idee, ma capita anche di formulare proposte ad hoc, in base alla richiesta dell’istituto. Siamo un’associazione storica e un tour operator, condizione necessaria per tutelare sia a livello operativo che legale lo studente; purtroppo però la scelta avviene ormai quasi esclusivamente in base al fattore economico».

LEZIONI DI EXPO - Nel ventaglio delle proposte Touring, largo spazio ai viaggi d’istruzione all’estero. Per perfezionare la lingua, ma soprattutto per confrontarsi con culture diverse. Inglese (11 le città proposte), francese (Nizza e Parigi), spagnolo (Madrid e Barcellona) e tedesco (Berlino e Norimberga) si imparano in 20 lezioni settimanali di 45 minuti, dormendo in famiglia e spendendo somme che vanno da 330 euro per Madrid a 402 euro per New York, in pensione completa per una settimana. I voli e le escursioni sono a parte. «Da due anni — continua Giambelluca — abbiamo introdotto le Lezioni di Expo 2015: otto itinerari alla scoperta dell’Italia da una prospettiva diversa, quella dell’alimentazione. Una formula che sta registrando un buon successo». In tre giorni si svelano i sapori dell’Etruria meridionale, fermandosi a visitare il cuore etrusco della regione: Viterbo e Tuscania, Tarquinia e il lago di Bracciano, Tivoli e il Parco Villa Gregoriana (partenza da Viterbo, quota da 124 euro). Tour di sapori anche in Sicilia, cinque giorni da Siracusa alla Valle dei Templi e poi Agrigento e i templi di Segesta e Selinunte, l’architettura normanna di Palermo e Monreale (partenza da Catania, da 203 euro).

TUTTI A ROMA - In Italia piacciono Roma con i suoi monumenti classici (4 giorni in treno, albergo 3 stelle, 3 mezze pensioni a 212 euro a persona) e le città gioiello del Senese, un tour di 3 giorni che si snoda tra Siena, Pienza, Montalcino, Volterra e San Gimignano (sistemazione in albergo 3 stelle, 2 mezze pensioni, pullman, 120 euro a persona). All’estero, invece, spicca Berlino. Un giorno intero è dedicato alla visita dei musei: il Museo di Pergamo, con la spettacolare ricostruzione dell’altare di Pergamo e del mercato di Mileto; il Bode Museum e la Gemaeldegalerie, che raccoglie una collezione ricchissima di opere pittoriche italiane, tedesche, fiammingo-francesi, olandesi e spagnole (4 giorni, albergo 3 stelle, 3 mezze pensioni, voli. Prezzo: 250 euro a persona, minimo 30 partecipanti). «I musei — dice Benedetto Vertecchi, pedagogista ed esperto di politica scolastica — dovrebbero lavorare a stretto contatto con le scuole, in modo da trasformare la gita in un viaggio formativo vero e proprio, capace cioè di allargare le vedute dello studente. In Italia questo legame si è perso. Senza una buona preparazione che precede il viaggio e senza la verifica, una volta rientrati, il viaggio di istruzione diventa solo una gita, cioè un momento di interruzione dell’anno scolastico».

VIAGGI ESPERIENZIALI - Il Parco didattico dell’isola Polvese, sul Lago Trasimeno (Perugia), prevede laboratori dedicati alle energie rinnovabili (si costruisce un forno solare), gare di orienteering e iniziazione alla canoa e alla vela, giochi di squadra e attività artistiche, come la lavorazione del cuoio e dei fogli di rame a sbalzo (3 o 4 giorni in pensione completa, da 141 euro). «I laboratori durante il viaggio di istruzione vanno benissimo — spiega il filosofo e saggista Dario Antiseri —. L’importante è che il ragazzo torni con la capacità di trovare una risposta alla domanda: cosa so adesso che prima non sapevo? Il luogo visitato, qualunque esso sia, deve stimolare la conoscenza e la curiosità, ma gli studenti, aiutati dai professori, devono avere già in testa un interrogativo. Diversamente, il rischio è che il laboratorio si trasformi in baldoria». Dedicato all’architettura, il viaggio in Puglia e Basilicata. Un percorso che si snoda tra il Barocco leccese e i mosaici di Otranto, i trulli di Alberobello e le abitazioni rupestri di Matera, Castel del Monte e la cattedrale di Trani. Il bello è che i ragazzi, seguiti da esperti, sperimentano la realizzazione di un video e di un «servizio giornalistico», scaricabile dal sito una volta a casa (3 o 4 giorni, pensione completa, da 143 euro). Il Parco dei Monti Sibillini (Ap) è invece ideale per lo sci da discesa e le ciaspole, e per imparare a progettazione e costruire un igloo eschimese (3 o 4 giorni, in pensione completa, da 179 euro a persona, queste ultime proposte sono di Helios viaggi).

INDUSTRIA E CINEMA - Mini soggiorni all’estero e percorsi Clil. Il termine sta per Content and language integrated learning, cioè l’apprendimento di una lingua straniera attraverso il contenuto (gli esercizi) e il contesto (l’uso della lingua), che deve essere il più stimolante possibile. Prendete Edimburgo: si va a scuola per 15 ore di corso e si partecipa a due attività pomeridiane con il personale della scuola (sport e workshop), dormendo in famiglia in camere da 2/3 posti letto (da 390 euro, pensione completa). Particolari, anche i viaggi «Un libro in più», che portano alla scoperta delle eccellenze della produzione industriale del Paese. Tre giorni a Trieste dedicati al mondo del caffè, dalla composizione chimica alla visita dell’Università del Caffè e della città (da 130 euro, in mezza pensione, sistemazione in hotel in camere da 3/4 posti letto) oppure a Bologna, sulle orme del grande cinema, dalla ricostruzione della pellicola alla promozione dei film, con visite alla biblioteca di cinema e fotografia Renzo Renzi, seminari sulle tecniche del restauro e visita della città (da 125 euro, Zainettoverde). Tessere di storia, proposto da GirAtlantide, è invece un laboratorio didattico di tre giornate, ognuna dedicata ai grandi personaggi (Galla Placida, Teodorico e Giustiniano) che hanno fatto grande Ravenna. Tramite giochi di ruolo integrati da visite guidate, i ragazzi vivono la storia di Ravenna apprendendo i segreti e le tecniche del mosaico o mettendo in scena una pièce teatrale in costume (3 giorni in pensione completa e sistemazione in hotel, da 112 euro, Giratlantide).
«Corriere della Sera» del
23 novembre 2013

Tre sfumature di Generazione X: i libri di Cazzullo, Piccolo e Scurati

Bookcity
di Tommaso Pellizzari
Coincidenze editoriali (e anagrafiche): in forma di romanzo o saggio il bilancio di un’epoca, in tinte e toni molto diversi
Sarebbe potuta essere solo una coincidenza editoriale. Ma c’è anche un coincidenza anagrafica a mettere in fila tre libri usciti in questo periodo. E a far pensare che di tutto si tratti, tranne che di una coincidenza. Perché i libri di Francesco Piccolo («Il desiderio di essere come tutti», Einaudi), Aldo Cazzullo («Basta piangere! Storia di un’Italia che non si lamentava», Mondadori), e Antonio Scurati («Il padre infedele», Bompiani) sono libri di autori nati tra il 1964 e il 1969, cioè pienamente all’interno di quella Generazione X che dalla primavera di quest’anno e per la prima volta nella storia, con Enrico Letta ha messo un suo esponente al governo del nostro Paese. Un passaggio simbolico non casuale, visto che tutti e tre i libri raccontano in qualche modo proprio questo: l’essere la Generazione X diventata adulta.
Lo fanno con forme, stili, modi e gradazioni diverse. Scurati sceglie il romanzo puro, anche se nella storia di Glauco, lo chef che racconta quanto la paternità sia ormai diventata culturalmente (se non geneticamente) innaturale per il maschio medio del XXI secolo, non è inverosimile immaginare riflessioni simili dello scrittore diventato padre non da molto. Francesco Piccolo invece punta sul romanzo dichiaratamente autobiografico, e non solo perché scritto in prima persona.
Il passaggio dall’Italia di Moro a quella di Berlusconi attraversando la morte di Berlinguer è il racconto dell’evoluzione culturale di un intero Paese. Piccolo racconta in particolare quella del suo mondo, la sinistra, e dell’approdo alla comprensione di quello che per lo scrittore casertano è stato l’errore fondamentale dell’ultimo trentennio: l’illusione della diversità (quando non superiorità) rispetto ai democristiani una volta, ai berlusconiani oggi. E, parlando di coincidenze, guarda caso tutto questo avviene proprio mentre il Pd sta per eleggere a segretario un giovane ex dc, già concorrente di quiz televisivi, ospite di Maria De Filippi in giubbotto di pelle e convinto sostenitore della teoria che è proprio andando a prendere i voti presso quelli diversi dalla sinistra che si vincono le elezioni.
Aldo Cazzullo ha invece scelto la strada del saggio. Il suo «Basta piangere!» è un invito alla sua generazione (e alle successive, con le quali la sorte naturale non è stata più benevola) a non lamentarsi del presente. Non solo perché non serve a nulla, ma anche perché - ed è la parte più originale del libro - non è affatto detto che il presente sia così peggiore di altri presenti del passato.
La qual cosa permette di mantenere invariate le posizioni di Scurati, Piccolo e Cazzullo anche se li volessimo collocare in un ipotetico continuum che descrivesse invece gli «stati d’animo» dei loro libri. Non vi è dubbio che le riflessioni dello chef Glauco Revelli (valga per tutte la consapevolezza di appartenere «a una generazione di uomini senza biografia») inducano più di una vertigine esistenziale. L’esatto contrario del percorso di Francesco Piccolo, passato da una giovinezza di certezze assolute (per la verità più subìte che scelte) a una maturità di rasserenata tolleranza e apertura.
Alla riga 1 di «Basta piangere!» Cazzullo scrive invece di non avere «nessuna nostalgia del tempo perduto. Non era meglio allora, è meglio adesso». Una collocazione forte, definitiva e di certo controcorrente rispetto a quello che adesso si chiama «sentiment» del nostro Paese. Nelle 137 pagine successive spiegherà perché. E lo rifarà domenica, alle 12, nella Sala Buzzati del Corriere della Sera, via Balzan 3 (ingresso libero solo su prenotazione, telefonando allo 02 87387707 o scrivendo a rsvp@fondazionecorriere.it). Insieme a lui, il direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli e lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco, coordinati dal direttore di Sette Pier Luigi Vercesi. E se lo scopo fosse fare sparire una volta per sempre la X, incognita-simbolo di quella generazione?
«Corriere della Sera» del 23 novembre 2013

17 novembre 2013

Archeologia, locomotiva del turismo

di Maurizio Carucci
La parola d’ordine è promuovere la cultura. Partendo da quel patrimonio archeologico spesso trascurato. Proprio qui, a Paestum, viene lanciato un appello per valorizzare siti, monumenti e musei: i nostri giacimenti culturali. Fino a domenica la XVI edizione della Borsa mediterranea del turismo archeologico è un’occasione di confronto per i vertici istituzionali locali, nazionali e internazionali (compresi Unesco, Organizzazione mondiale del turismo e Centro internazionale per lo studio della conservazione e restauro dei beni culturali).
Un evento capace di attirare oltre ottomila visitatori, 150 espositori con 25 Paesi esteri, 50 tra conferenze e incontri, 300 relatori, 350 operatori dell’offerta, 150 giornalisti. La novità di quest’anno è che la Borsa si svolge per la prima volta all’interno dell’area archeologica della città antica di Paestum, tra Parco archeologico (salone espositivo, laboratori di archeologia sperimentale, sale conferenze), Museo nazionale (archeoVirtual, sala conferenze, workshop con gli operatori esteri) e basilica paleocristiana (conferenza di apertura, archeoLavoro, incontri con i protagonisti). «Abbiamo voluto rendere protagonista il sito Unesco – spiega Ugo Picarelli, ideatore e fondatore della Borsa – con il Salone espositivo nel parco archeologico, a pochi metri dal tempio di Cerere.
Gli eventi finalizzati alla promozione devono dare emozioni ed essere mezzi per una valorizzazione efficace, traino per incrementare i visitatori che da escursionisti possano diventare turisti, scegliendo la destinazione quale soggiorno per il proprio viaggio. Solo così potremo determinare sviluppo locale e occupazione. Portiamo quindi la Borsa nel suo habitat, creando una suggestione forte perfettamente in linea, peraltro, con l’impostazione dell’attuale governo, che ha accorpato le deleghe ai beni culturali e al turismo in un unico ministero». Nel sottolineare sempre più l’importanza che il patrimonio culturale riveste come fattore di dialogo interculturale, d’integrazione sociale e di sviluppo economico, ogni anno la Borsa promuove la cooperazione tra i popoli attraverso la partecipazione e lo scambio di esperienze: dopo Egitto, Marocco, Tunisia, Siria, Francia, Algeria, Grecia, Libia, Perù, Portogallo, Cambogia, Turchia e Armenia, ospite ufficiale è il Venezuela. La cultura, quindi, riveste un ruolo sempre più importante. Tanto che il sottosegretario ai Beni culturali Simonetta Giordani annuncia che «dopo il decreto Valore Cultura il governo varerà un pacchetto di norme destinate a riformare le politiche turistiche dell’Italia seguendo le direttrici di una maggiore coordinazione e sinergia tra i soggetti istituzionali competenti e dell’aggregazione delle molte filiere del nostro turismo sul territorio. Il nostro obiettivo è quello di creare pacchetti integrati che rappresentino per il visitatore una vera e propria esperienza della cultura italiana, in tutta la sua ricchezza».
Da Paestum partono anche tante idee. Visto che l’Italia vanta il maggior numero (47) di siti iscritti dall’Unesco nella lista dei beni patrimonio dell’umanità, le camere di commercio hanno pensato di estendere il progetto Mirabiilia a nove città: Brindisi, Genova, L’Aquila, La Spezia, Matera, Perugia, Salerno, Udine e Vicenza.
L’evento clou è un’altra Borsa del turismo culturale prevista a Matera dal 25 al 27 novembre. «Il successo del progetto – ha detto il presidente della camera di commercio di Matera, Angelo Tortorelli – sta nel fare sistema. Solo lavorando insieme, utilizzando al meglio e in maniera finalizzata progetti e risorse, riusciremo a portare valore aggiunto al turismo di qualità, quello legato alla rete dei siti Unesco». Grande spazio – all’ombra dei templi di Paestum – anche all’archeologia sperimentale: la disciplina scientifica che si occupa di ricostruire la cultura materiale e antropologica di chi ci ha preceduto, utilizzando la sperimentazione delle tecniche, delle pratiche, con gli strumenti dei nostri antenati nelle loro attività quotidiane.
Sono presenti il Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo, le associazioni culturali “Teuta Lingones”, “Cinghiale bianco”, la “Legio I Italica”, “Archeologia sperimentale” e “Argonauta”. L’archeologo sperimentale è un artigiano con specifiche conoscenze in storia, archeologia, archeometria, materiali e “mestiere”. Fondendo conoscenze pratiche e teoriche, si propone di riprodurre le catene operative per ottenere oggetti e strumenti antichi con l’intenzione di aumentare la comprensione del modo di vivere dei nostri avi. Presso l’area Laboratori si possono osservare varie attività che rendono più comprensibile lo studio del passato: tecnologie litiche, dell’argilla e della terracotta greca e romana, la lavorazione dell’ambra, la metallurgia medievale, l’oreficeria etrusca e romana, la pasta vitrea, l’epigrafia in caratteri lepontici, la tessitura e la tintura della lana, la lavorazione del cuoio, il conio della dracma insubre, come nasce una cotta in ferro celtica, il mosaico romano e l’encausto e l’affresco.
Un viaggio materiale attraverso la parte più antica della nostra storia. Tutte queste attività, con le loro materie prime (pietra, osso, tendini, pelli, argilla, metalli) sono proposte ai visitatori per sperimentare in prima persona questi antichi mestieri, che hanno fortemente contribuito all’evoluzione dell’uomo. Mentre dal 2011, in seguito alla chiamata a raccolta di Luigi Malnati , direttore generale per le Antichità del ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo, gli Stati generali dell’archeologia si confermano uno degli appuntamenti di punta della Borsa. Presso il Museo Archeologico Nazionale, la direzione generale per le Antichità, l’Associazione nazionale archeologi, la Confederazione nazionale archeologi e Assotecnici fanno il punto sulla professione dell’archeologo. Anche così, in fondo, si promuove la cultura.
«Avvenire» del 15 novembre 2013

Laogai, i «laboratori» della rieducazione

La svolta a Pechino
di Stefano Vecchia
Tra i primi a provarne la realtà terribile fu l’ultimo imperatore della dinastia mancese, Pu Yi, richiuso dal 1950 al 1959 nel centro per criminali di guerra di Fushun. Dai campi di rieducazione attraverso il lavoro si calcola siano passati 50 milioni di cittadini della Repubblica popolare cinese. Un intero popolo in parte dissidente verso il potere comunista, in parte alla ricerca di uno stile di vita o di valori difformi da quelli imposti dalla propaganda del regime. E in parte finiti all’inferno senza alcuna colpa o ragione. Una infinità uomini e donne che i Laogai hanno trasformato e, in molti casi, ucciso.
Wang Ruowang, saggista e irriducibile guastafeste del partito, espatriato negli Usa negli ultimi anni prima della morte nel 2001, ha testimoniato l’acquiescenza che colpiva la maggior parte degli “ospiti” nei campi, che li induceva alla collaborazione, alle delazione anche verso colleghi, amici, familiari, addirittura all’autolesionismo se non si consideravano all’altezza degli aguzzini.
Harry Wu, tra i più conosciuti dissidenti, ha passato 19 anni in un campo di lavoro perché si era espresso contro l’appoggio cinese all’invasione sovietica dell’Ungheria. Oggi a capo della Laogai Foundation, che da cinque anni ha aperto a Washington un museo per documentare gli orrori di questa istituzione, Wu ha scoperchiato vent’anni fa per il mondo questo inferno cinese, ma ha potuto farlo solo dopo un lungo tempo di rielaborazione, fino a ritrovarsi lui stesso incredulo di quella esperienza.
Alla fine la funzione dei Laogai non è stata di punizione ma di dissuasione. Riempiti per rieducare generazioni di cinesi che dovevano convincersi che i mandarini con libretto rosso e giacca senza collo fossero diversi e migliori da quelli con le insegne e i ranghi imperiali.
In un certo senso, anche durante le sbandierate riforme di Deng Xiao Ping e fino a oggi i Laogai sono rimasti affollati, pronti a ricordare che le libertà – se tali – erano solo concesse. Insomma, per contrasto rendevano più grandi le riforme, più nobili gli ideali di apertura e, in qualche modo, più sopportabile la vita nelle manifatture congestionate della Cina del miracolo economico.
Ancora prima delle stupefacenti Olimpiadi di Pechino del 2008, si stimavano a milioni gli ospiti involontari di centinaia di campi. Oggi la Cina non ha più bisogno di Laogai, non servono più perché non possono più essere segreti o ignorati. Ha altri strumenti di controllo e di manipolazione, anche di repressione, senza che il mondo accusi o sanzioni.
«Avvenire» del 16 novembre 2013

10 novembre 2013

I genitori e l’adolescenza inspiegabile. Un universo sconosciuto

di Barbara Stefanelli
È capitato a tutti i genitori, almeno una volta , d i provare quella sensazione di panico che ti vela la vista quando pensi di aver perso il tuo bambino in aeroporto o in un negozio affollato. Ti sei distratto e lui non c’è più accanto a te.
Ti chiedi se qualcosa di irreparabile possa essere accaduto in pochi secondi.
In quel momento sei Stephen Lewis, il protagonista del romanzo di Ian McEwan Bambini nel tempo: il padre che non saprà mai come sarebbe cresciuta la sua piccol a Kate, smarrita a tre anni al supermarket.
Lo stesso panico torna quando diventi genitore per la seconda volta: cioè quando tuo figlio o tua figlia arrivano all’adolescenza e tu devi ripartire da zero. Non ti parlano, non sorridono, sono arrabbiati con quasi tutti, sicuramente con te che per loro non sei più la madre o il padre dell’estate prima della tempesta. Sembrano non avere più voglia di quel che nel tempo hai tentato di dare con onestà.
Stranieri, in casa.
Ma non è sempre stato così, anche quando c’eravamo noi nella stanza del figlio?
La differenza è forse che noi ci sentiamo la generazione di genitori più informati, connessi e collegati al mondo. Disposti a imparare dai nostri «nativi digitali», disposti anche — e fin troppo — ad ammettere le nostre imperfezioni quotidiane nell’esercizio di una genitorialità appassionata. È a quel punto che scatta la tentazione del controllo. La tentazione di diventare tutti insieme una Big Mother: la Grande Madre dotata di filtri da mettere ai computer e di programmi in grado di monitorare l’accesso ai siti. I nostri pre – adolescenti, adolescenti e giovani adulti ci feriscono con le loro armi tecnologiche, nascondendosi tra g l i specchi di mille schermi?
E noi, genitori moderni, rispondiamo con le stesse armi, più o meno. Lo facciamo — così ci ripetiamo — per «proteggerli da se stessi» in un mondo che è diventato infinito e infinitamente più pericoloso di quello che noi abbiamo affrontato alla loro età. In assenza di segnali, andiamo in cerca di tracce che ci riportino a loro.
Lo sappiamo, questo inseguimento è un inganno: il tormento è che sacrificare la fiducia tra noi possa diventare un male peggiore dei pericoli dai quali volevamo allontanarli. E dunque ci chiediamo che fare, sempre più confusi e storditi dalle storie di cronaca: che ci parlano di bambine pronte a scambiare un corpo giovane per i soldi di uomini classificati con un numero; che ci raccontano di anime incerte annientate da giochi omicidi su siti mai spenti.
Ci rimangono vecchie armi, forse spuntate, ma sono le nostre. Essere presenti ed esercitare un’antica attenzione, oltre il brusio delle nostre giornate difficili e il silenzio dei loro muri ostili. Rispettare l’identità dei nostri figli anche quando non ci somigliano: soprattutto quando non ci somigliano. Jay Griffiths, autrice di un libro che è un lungo viaggio-studio nella felicità perduta dei ragazzi, sprona i genitori a essere coraggiosi e a non considerare mai i figli una proprietà: a volte il contrario dell’obbedienza non è la disobbedienza ma l’indipendenza, il contrario del controllo non è il caos ma l’autocontrollo, il contrario dell’ordine non è il disordine ma la libertà.
«Corriere della Sera» del 9 novembre 2013

I genitori e l’adolescenza inspiegabile. «Eravamo diversi, non li capiamo»

di Paolo Conti
«Quando mi ritrovo davanti a genitori e ragazzi che si sono relazionalmente “persi”, la prima misura che adotto è aiutare padri e madri ad aggiornare il loro ruolo: smetterla di sentirsi genitori dell’infanzia e gestire la nuova, inevitabile, enorme distanza antropologica, culturale e relazionale che si crea con l’adolescenza. E bisogna mettere subito nel conto che se prima, nell’infanzia, il genitore arrivava sempre e comunque “prima” di qualsiasi avvenimento, nell’adolescenza è fatalmente destinato al “dopo”. Lì comincia per i ragazzi il lungo e faticoso viaggio verso il gruppo, la coppia, il collaudo della propria autonomia ...».
Il professor Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra, psicoterapeuta dell’adolescenza, da trent’anni anima a Milano il Consultorio gratuito per adolescenti e genitori della cooperativa sociale «Minotauro». Quindi sa bene quanto sia complesso, come scriveva ieri il nostro vicedirettore Barbara Stefanelli nel suo editoriale, affrontare da genitori quell’«universo sconosciuto che è l’adolescenza inspiegabile» dei nostri giorni. I figli sembrano «stranieri, in casa».

Cosa può fare, professore, un genitore di fronte a ciò che può apparire un muro di silenzio?
«Prima di tutto non bisogna vivere il passaggio come se fosse una tragedia. Non c’è nulla di più accattivante che assistere alla fioritura adolescenziale di un figlio o di una figlia».

Però questo lavoro sembra sempre più duro e complicato. Proprio Barbara Stefanelli si chiede: «È stato così anche quando noi eravamo nella stanza del figlio?».
Qui il professore è molto netto: «Un genitore dei nostri giorni non può assolutamente ricorrere all’esperienza della propria adolescenza per affrontare il problema. È essenziale capirlo. Tutto è troppo, e rapidamente, cambiato per poter “lavorare” con quegli strumenti. Una giusta prospettiva educativa è, per i genitori, mettersi a cercare, a capire, senza presumere di sapere già. Cioè tentare di comprendere mode e culture. Anche proponendo domande dirette: “Ma quale valore attribuite all’abuso dell’alcol?”, per fare un esempio. E poi studiare, documentarsi, analizzare».

In questi giorni le cronache dei giornali sono pieni di storie angoscianti, prima tra tutte la prostituzione all’alba dell’adolescenza…
«Indubbiamente sono frange, anche se molti genitori vivono nel terrore che tutto questo possa accadere ai propri figli. Ed è normale. Bisogna partire da una premessa. La sessualità degli adolescenti è uscita dall’etica. Nessun genitore pensa che la verginità dei propri figli sia un valore da tutelare. Semmai si augurano che il loro incontro con la sessualità avvenga serenamente e senza senso di colpa, in ambiente protetto, persino in casa per senso di protezione. Però un adolescente di oggi non abbina necessariamente la sessualità alla costruzione di una relazione, di un amore, o allo stesso piacere»

Quindi di cosa si tratta?
«Può anche essere un semplice “collaudo” di se stessi e della corporeità. La verifica del proprio fascino, della capacità di sedurre. Insomma, del proprio potere. Ed è qui che deve concentrarsi il grosso lavoro educativo dei genitori e degli stessi insegnanti».

La domanda è sempre la stessa, ma inevitabile. Come può comportarsi un genitore?
«Mi ripeto, ma l’adulto deve studiare e capire. Per esempio sostituire alla vecchia morale sessuofobica una nuova etica affettiva. Oggi i ragazzi non vedono più i genitori come repressori. Non ne hanno più “paura”. Per parlare chiaro: vogliono un padre e una madre competenti e informati con cui discutere, per esempio, sull’uso delle sostanze stupefacenti senza che qualcuno si metta a urlare chiamando il medico o un’ambulanza. E bisognerebbe anche evitare che i ragazzi possano sentirsi deplorevoli agli occhi dei genitori. Quindi oggetto di sdegno, non più di punizioni. È quasi peggio».

Ma non si chiede troppo ai padri e alle madri di oggi?
«Un periodo di trasgressione, di sfida del limite, di fuga dall’autorità va gestito e messo nel conto».

Infine c’è il nodo della rete, della sessualità on line e degli incontri che magari si realizzano solo virtualmente…
«I genitori vedono la casa come un ambiente protetto. Invece, magari di là, nell’altra stanza, l’amata figlioletta si sta “prostituendo virtualmente” tra le quattro mura domestiche. È il frutto di una sottocultura prodotta dalla società fluida, dal narcisismo: abbiamo sostituito l’etica con l’estetica. Gli adolescenti di oggi quasi ignorano le angosce edipiche o la paura della castrazione. Conoscono solo la vergogna di non avere fascino. Infatti questo problema è alla base di tanti suicidi e di tanti disturbi alimentari. Ed è proprio qui che bisogna lavorare, puntando sulla “bellezza complessiva” della persona. Perché la vergogna di “non essere belli”, nell’universo degli adolescenti di oggi, purtroppo, è una bruttissima bestia… ».
«Corriere della Sera» del 10 novembre 2013

08 novembre 2013

Il foedus o patto d’amore in Catullo

Su questo concetto puoi anche vedere una videolezione sul mio canale Youtube
 
 
I caratteri del particolarissimo sentimento amoroso cantato da Catullo nel suo liber vengono ricostruiti in questo lucido intervento di Alfonso Traina, che puntualizza l’importanza dei concetti di foedus e fides e l’antitesi tra amare e bene velle
di Alfonso Traina
Per il concetto di “passione amorosa” il latino non aveva un termine. Furor lo chiamerà l’augusteo Virgilio, condannandolo in Didone. Perché «la passione è distruttrice dell’ordine», è la rivalsa del privato sul politico, dell’individuale sul sociale, del principio di piacere sul principio di realtà. Impegnando la totalità dell’essere, rovescia la gerarchia dei valori: e questo la morale quiritaria non poteva permetterlo. Esorcizzava l’eros o integrandolo nella struttura sociale mediante il matrimonio, liberum quaesundum causa [1] - è il bonus amor del c. 61 -, o emarginandolo come sfogo sessuale con partners socialmente degradati, schiave e liberte (e incontrandosi in questo con la sapientia epicurea di Lucrezio). Le ragazze di cui s’innamorano i giovani della commedia sono cortigiane, che quasi sempre, per un provvidenziale “riconoscimento”, si riveleranno libere e potranno convolare a giuste nozze. L’etica della Palliata, che sarà valida ancora per Orazio, è incisa in un distico di Plauto: dum ted abstineas nupta, vidua, virgine, - iuventute et pueris liberis, ama quidlubet (Curc. 37 sg. : «purché lasci stare donne sposate, vedove, vergini- noi diremmo, o avremmo detto: ragazze di buona famiglia -, giovani e ragazzi liberi, ama chi ti pare e piace»). Già: ma Clodia non era né schiava né liberta; era una matrona, prima nupta poi vidua [2]. Il suo rapporto con Catullo, dal punto di vista della morale quiritaria, non avrebbe potuto definirsi che stupri consuetudo [3].
Catullo lo chiamava foedus o patto (76, 3; 87, 3; 109, 6): un termine della lingua politica e giuridica. Cicerone, evocando l’ombra del più celebre antenato di Clodia, Appio Claudio Cieco, gli fa rivolgere alla degenere nipote l’accusa: ideone ego pacem Pyrrhi diremi, ut tu amorum turpissimorum cotidie foedera ferires? (pro Cael. 34: “e io ho impedito che si patteggiasse con Pirro proprio perché tu ogni giorno stringessi patti di scandalosi amori?”). Se la metafora non nascesse dalla ripresa retorica di pacem, si direbbe quasi che Cicerone ritorce contro Clodia il linguaggio di Catullo. Ma il foedus catulliano conserva il suo legame etimologico con fides, fedeltà (due volte ad esso associata) e ne eredita l’intrinseca sacralità [4] aeternum sanctae foedus amicitiae (109, 1: “eterno patto di inviolabile affetto”). Questo vincolo morale, che impegna i due amanti a una fedeltà lunga quanto la vita (109, 5) e che il poeta affida alla garanzia degli dèi (109, 3), ci appare il surrogato di un altro vincolo, giuridico e religioso, che sarebbe potuto essere - Clodia era vedova - e che forse egli avrebbe voluto, il matrimonio. Nei versi del c. 68, rievocanti l’inizio del loro amore, sembra affiorare un rimpianto: nec tamen illa mihi dextra deducta paterna – fragrantem Assyrio venit odore domum (143 sg.: “ma lei non è venuta a me condotta per mano del padre, alla mia casa odorosa di profumi orientali”). Certo il tema nuziale è dominante nei carmina docta, addirittura a livello di genere letterario (i cc. 61 e 62 sono epitalami) [...]. E quando Catullo mette in bocca a Lesbia un giuramento di antica ascendenza letteraria (70, 1 sg.: Nulli se dicit mulier mea nubere malle - quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat, “la mia donna afferma di non voler essere d’altri che mia, neppure se la corteggiasse Giove”), usa insolitamente il verbo del matrimonio, nubere, dove, svolgendo il medesimo topos, Meleagro aveva detto: stèrxein, “voler bene” (Anth. Pal. 5, 8, 3). Ancorando il suo legame con Lesbia alla sacralità della fides e del foedus, Catullo ricorreva alla più veneranda tradizione latina per dare un valore positivo, una legittimità psicologica a un rapporto che di quel codice etico-sociale era la più flagrante infrazione.
L’insistente appello alla fides non era immotivato. […] Ma una cosa è certa: Lesbia non ricambiò la “fedeltà” di Catullo. I rara furta, che il poeta si dice rassegnato a tollerare nel c. 68, 136, diventano i «trecento adulteri» dell’addio definitivo (11, 17 sg.), scritto nel medesimo metro saffico del c. 51. La conseguenza di questi «tradimenti» (72, 7: iniuria talis) fu una situazione conflittuale per il dissociarsi delle componenti sensuale e affettiva. Secoli di romanticismo ci hanno avvezzati a questo conflitto. Ma nel mondo antico esso era insolito, o almeno è insolita la lucidità e l’intensità con cui l’esprime Catullo. Al punto che il poeta ha dovuto «inventare» il lessico del suo amore (come ha fatto con foedus). Già nel c. 109 abbiamo incontrato fides determinata dal genitivo amicitiae, che abbiamo tradotto con «affetto». Nei cc. 72 e 75 la situazione conflittuale giunge a maturità espressiva attraverso una coppia di opposizioni semantiche: amare, uri contro diligere, bene velle. […] L’antitesi si scarnifica e si polarizza nell’ossimoro del c. 85, odi et amo, dove odi è l’equivalente positivo di non bene velle. Per superare questo conflitto, che gli inaridiva la gioia di vivere (76, 20 sgg.), Catullo chiese aiuto agli dèi, e li pregò di guarirlo (76, 25: ipse valere opto) in nome della sua pietas (76, 26). Che era mai questa pietas che ha fatto sorridere qualche moralista? Ce lo dice il v. 3 del medesimo carme: nec sanctam violasse fidem. Era la coscienza di non aver mai tradito il patto d’amore con Lesbia. Così Catullo scopre l’ambivalenza dell’eros e la fissa in una formula definitiva.

Note
1. liberum quaesundum causa: “per avere figli”; è la forma ufficiale del matrimonio romano.
2. vidua: “vedova”.
3. stupri consuetudo: “relazione illegittima”.
4. «fedeltà» ... sacralità: •esplicita nel c. 30, 11: si tu oblitus es, at di meminerunt, meminit Fides (“se tu lo hai dimenticato, se lo ricordano gli dei, se lo ricorda la Fides”). Virtù tipicamente romana: “sin dall’epoca più antica, la fides significa l’abbandono, al tempo stesso fiducioso e completo, di una persona a un’altra” (M. Meslin, L'uomo romano, trad. it., Milano 1981, p. 216). Aveva un tempio in Roma sin dal 250 a.C. e compare come dea già in Plauto e in Ennio. A questa fides Catullo si appella ripetutamente anche a proposito dell’amicizia».
Brano tratto da I canti, intr. di A. Traina, trad. di E. Mandruzzato, BUR ruzzoli, Milano 1982

Il libro nel mondo romano

Come era fatto un libro nel mondo romano?
di Menghi-Gori (tratto da Catullo, Bruno Mondadori)
Come si diffuse la cultura scritta nell’età di Catullo?
Dal rotolo al codice

Gli antichi non conoscevano la carta, il cui uso iniziò a diffondersi in Occidente solo nel basso Medioevo; come si può pertanto immaginare, il problema di trovare superfici ampie, comode, a costi sopportabili sulle quali scrivere fu uno dei più gravi che la tecnologia delle società antiche dovette affrontare. Si scriveva praticamente su tutto - muri, pietre, cocci, tavole di legno imbiancate o cerate, pelli di animali (non solo pelli di pecora, la pergamena, o cuoio, ma anche pelli di cane e di rettile), foglie, lamine di piombo e d’oro,lastre di bronzo, oggetti di uso comune in metallo o terracotta, tessuti di lino, fibre vegetali (papiro, ma anche tiglio) - e quasi tutti questi materiali scrittori restarono nell’uso contemporaneamente, solo specializzandosi a seconda del tipo di testo che vi veniva scritto. Per esempio gli scolari romani continuarono sempre a scrivere e a far di conto su tavolette di legno cerate che incidevano con uno stilo di legno, d’osso o d’avorio e che poi raschiavano perché fossero pronte per un nuovo testo; i libri lintei (fogli di tela di lino che si chiudevano "a soffietto") ospitarono fino a buona parte dell’età imperiale oracoli, testi liturgici o comunque di significato religioso; il rotolo di pergamena mantenne la sua destinazione a scritture brevi, occasionali e quotidiane; quando, nell’età degli imperatori flavi (I secolo d. C.),fu introdotto l’uso di codici, vale a dire di fogli di pergamena piegati, tagliati in quaterniones ("quaderni") e riuniti sotto una copertina, essi, per il loro costo molto alto, vennero usati prevalentemente per scrivere le costituzioni imperiali, tanto che il nome" codice" venne in età tardo-imperiale esteso alla raccolta organica di norme legislative che libri di questo genere contenevano; infine le scritture epigrafiche su pietra o bronzo, di natura pubblica o privata, restano ancora oggi il segno più alto e più ricorrente del processo di diffusione della civiltà di Roma e della sua lingua.

Il papiro
La carta di papiro, la charta appunto, era ottenuta intrecciando, come fossero fili di un tessuto, lunghe liste dagli strati interni della pianta, che cresceva per lo più in Egitto; i fogli così ottenuti (paginae, schedae), dopo essere stati seccati al sole, venivano poi incollati per il lato più largo e arrotolati in un rotolo (volumen, da volvere, "far ruotare"). La misura standard del rotolo (scapus) era di venti pagine; prima della vendita l’inizio del primo foglio e la fine dell’ultimo frontes) venivano levigati con la pomice - arida modo pumice expolitus, dice Catullo del proprio libro nella dedica a Cornelio Nepote - e nelle edizioni più eleganti colorati a colori vivaci. Infine il rotolo veniva arrotolato a partire dal fondo o da entrambi gli estremi intorno a uno o due bastoni di legno o d’osso (gli umbilici), con dei pomoli sporgenti (cornua); una buona mano di olio di cedro preservava il materiale dall’umidità e dagli insetti. Si scriveva in genere su due colonne, per il largo in caso di documenti e nel senso della lunghezza se sì compilava una lettera; vi si appendeva un cartellino (index, titulus) con il titolo del libro, che così era conservato in apposite teche.

Come si afferma il libro a Roma
Ma come si passò, a Roma, dalle tavolette di legno sulle quali ancora nel II secolo a. C. Catone il Censore scriveva e conservava le proprie orazioni, al rotolo di papiro? I libri lignei variamente incisi o dipinti a inchiostro oppure i libri lintei erano adatti a testi brevi e di natura particolare, come i libri dei magistrati o quelli che conservavano gli oracoli attribuiti alla Sibilla; erano testi per lo più conservati in uno spazio sacro, in genere un tempio, e non erano fatti per circolare.
Fino al III secolo a.C. la scrittura fu privilegio di pochi (sacerdoti e nobili) e comunque la vita culturale di Roma si svolse prevalentemente attraverso il canale dell’oralità (questa potrebbe essere una delle cause della quasi totale scomparsa della letteratura latina arcaica); solo con i primi contatti con la Grecia e poi con la conquista dell’Oriente nel secolo successivo comparvero nella città i primi rotoli di papiro. I motivi dell’affermarsi del nuovo materiale scrittorio sono vari: i conquistatori portarono a Roma intere biblioteche di papiri razziate nelle capitali dei sovrani greci, con le quali costituirono le prime biblioteche private; la crescita economica e le esigenze dell’amministrazione richiesero l’uso della scrittura e quindi una massiccia alfabetizzazione dei ceti medio-alti; il nuovo materiale era poi di più facile trasporto ed era facilmente reperibile sul mercato egiziano. Ma la causa principale è più profonda: il papiro entrò stabilmente nell’uso quando si impose l’esigenza di una cultura nuova, di derivazione greca e fondata su testi letterari, filosofici e storici, da spendere soprattutto in quella dimensione privata, l’otium, che i romani conobbero solo a partire dal II secolo a. C. Fu l’otium colto che rese necessari testi più lunghi e complessi, facilmente consultabili e di comoda circolazione, riproduzione e vendita: il papiro era un supporto leggero, che consentiva una scrittura chiara; i rotoli erano facili da consultare e potevano contenere molto testo. Per la prima volta il "testo" si identifica con il “libro”: le parole affettuose di Catullo nella dedica del suo liber all’amico Cornelio Nepote si adattano tanto al supporto fisico quanto al contenuto. L’eleganza dello stile, il lepos come dovere della letteratura di derivazione ellenistica, trova un complemento necessario in un volumen altrettanto elegante e ben rifinito, lepidus appunto.

Caro Dante, fatti capire

Dibattiti
di Edoardo Castagna
Dante, Petrarca e Boccaccio sono scritti in italiano? Interrogativo paradossale, ma che può nascondere un dettaglio capace di spiegare uno scoglio sul quale tanti studenti – e non solo loro – si arenano. Sono in italiano, ovviamente: ma in italiano antico, una categoria che solo recentemente inizia a farsi strada nella coscienza degli stessi studiosi, rimasti a lungo ancorati a un’idea della nostra lingua come eccezionalmente conservatrice rispetto, per esempio, ai più dinamici inglese o francese. Una delle conseguenze, come ha illustrato su queste pagine la scorsa settimana Maurizio Cucchi, è che, mentre in Francia o in Inghilterra è prassi fornire i classici della letteratura in edizione con traduzione in lingua moderna e testo a fronte, in Italia tale tendenza inizia appena ad affacciarsi. Tra molti dubbi e resistenze. «In effetti – spiega il linguista Luca Serianni – da un lato la distanza che c’è tra il francese moderno e il francese antico è più ampia, paragonabile più a quella che l’italiano ha con il latino che con la lingua di Dante. Dall’altro, va constatato che anche da noi c’è stata una trasformazione significativa, un dinamismo evolutivo, e avvertiamo l’italiano antico come distante da noi. Non sono tanto le singole parole a essere mutate, quando il loro significato». Ma da qui ad arrivare a tradurre i classici in lingua moderna ne corre, per Serianni: «Certo che sono difficili. Ma non tanto da impedire, se sorretti da un opportuno sistema di note e commento, la lettura diretta. Anche perché accanto al valore artistico hanno anche una funzione di riconoscimento identitario, che sarebbe sacrificato con una traduzione moderna. E poi non tutto può essere semplicemente tradotto: Dante o Boccaccio, per essere compresi, hanno comunque bisogno di un apparato di mediazione che aiuti il lettore, giovane o non giovane, a comprendere i riferimenti ai costumi medievali, o al quadro ideale di riferimento».
Ma resta il primo scoglio, quello lessicale. Soprattutto a scuola, come conferma l’insegnante e scrittrice Paola Mastrocola: «Il livello di comprensione letterale da parte degli studenti è bassissimo. E non solo per Dante, ma anche per Svevo o Pirandello. Solo tre, quattro studenti ogni cento riescono a comprendere un romanzo del Novecento. Innanzitutto si arenano sulla lingua, in un’enorme povertà lessicale e sintattica. Poi c’è anche il problema del testo in quanto tale: a loro è sconosciuto il senso stesso della letteratura, il fatto che un autore possa parlare di altri mondi. Con un po’ di fatica magari riescono a penetrare il significato letterale di un’opera di Pavese o di Buzzati, ma poi non comprendono che cosa effettivamente stiano raccontando. Capiscono solo la narrativa contemporanea d’intrattenimento, magari tradotta, come i fantasy. Però io di mestiere faccio l’insegnante di lettere, e il mio compito è trasmettere la tradizione, anche recente. So che molti miei colleghi rinunciano a farlo, e danno in lettura solo testi appena usciti. Ma non possiamo far fuori secoli di letteratura solo perché il livello degli studenti si è abbassato». Tuttavia gli strumenti per tornare ad alzarlo, questo livello, sembrano remoti: «Bisognerebbe partire dalla prima elementare. Sono contraria anche al ripiego sulle traduzioni in italiano contemporaneo dei classici, perché ritengo che le difficoltà debbano essere superate tornando a fare lezione, a spiegare. Ma i programmi ormai non esistono più, capita che dalle elementari fino al biennio del liceo uno studente non abbia mai analizzato un testo letterario. Invece va fatto, va spiegato capillarmente, riga per riga, trasmettendo un metodo che poi potrà essere applicato a qualsiasi altro testo. Tutto è lasciato alla responsabilità individuale dell’insegnante: è triste, ma sta a noi evitare di privare i ragazzi di una grandezza dello spirito».
Anche Serianni è contrario all’ipotesi di tradurre i classici, perché «sarebbe come pretendere di imparare uno sport senza fare fatica. Certo, si può decidere di non svolgere nessuna attività sportiva, così come si può decidere di non leggere mai un classico. Ma se lo si fa un po’ fatica è addirittura opportuna. Poi, con alcune singole iniziative si può anche concordare: per esempio Il principe di Machiavelli è un testo che si rivolge a un pubblico largo e indifferenziato, e tradurlo può essere utile per raggiungerlo meglio. Ma Dante, no: si può decidere di non leggerlo, naturalmente, ma se lo si fa, lo si deve fare in originale. D’altra parte, pensiamo al successo che hanno riscosso le letture non solo di Roberto Benigni, ma anche quelle più tradizionali di Vittorio Sermonti».
Per le traduzioni si apre così uno spiraglio, se riferite a un ben preciso destinatario. Che può anche essere scolastico: «Perché bisogna capire di quale scuola parliamo – osserva Eraldo Affinati, scrittore e insegnante –. Nei licei magari si può anche affrontare direttamente il testo, ma io insegno a ragazzi difficili, a forte rischio di abbandono scolastico. Per loro quella di Dante e Petrarca è quasi una lingua straniera, da conquistare; nel loro caso portare il testo antico in un linguaggio moderno può essere il grimaldello per arrivare poi, in un secondo momento, all’italiano antico. Ma prima ancora di quello linguistico, c’è il problema della concentrazione: riuscire a stare fermi, seduti sui banchi per una mezz’ora, è già una conquista. E anche la lettura lo è. Come ho raccontato nel mio Elogio del ripetente, fino a dieci-quindici anni fa potevo leggere I Malavoglia o I promessi sposi anche in un istituto professionale senza soverchie difficoltà. Oggi non più: questi ragazzi hanno una formazione anche logica differente rispetto alle generazioni precedenti, ragionano in modo più associativo che deduttivo. Abituati dal computer a leggere per frammenti, sono capaci piuttosto di intuizioni – magari folgoranti». Computer che nelle scuole italiane sono ancora merce rara... «Ci stiamo adeguando, ma è chiaro che se potessi avere in una classe un tablet per ogni studente, allora sarebbe molto più facile dialogare con loro. Comunque si possono trovare anche altri strumenti: per esempio, proprio in questo momento sto usando per leggere la Divina Commedia la Guida all’Inferno del dantista e petrarchista Marco Santagata: in pratica un riassunto in prosa che evidenzia per ogni canto temi, personaggi, luoghi, ambienti, motivi. È il primo passo, utile per avvicinarsi al testo vero e proprio. Che è il punto d’arrivo, non di partenza».
«Avvenire» del 31 ottobre 2013

Napoleone vinto anche da Dio

Il rapporto con Cristo e la Chiesa cattolica dell'imperatore morto due secoli fa secondo il cardinale Giacomo Biffi
di Giacomo Biffi
Materialista e saccheggiatore di chiese e di conventi, miscredente e fedifrago, anticlericale e sequestratore del papa: questa è l’opinione che molti hanno di Napoleone Bonaparte, opinione tanto diffusa quanto acriticamente accolta. Se andiamo alle fonti, e in particolare a queste conversazioni, scopriamo qualcosa di strabiliante. Napoleone grida con fierezza: «Sono cattolico romano, e credo ciò che crede la Chiesa».
Durante gli anni di isolamento a Sant’Elena Napoleone si intratteneva spesso con alcuni generali, suoi compagni di esilio, a conversare sulla fede. Si tratta di discorsi improvvisati che – come rivela uno dei suoi più fidati generali, il conte de Montholon – furono trascritti fedelmente e poi dati alle stampe da Antoine de Beauterne nel 1840. Dell’autenticità e della fedeltà della trascrizione possiamo essere certi, visto che, quando de Beauterne pubblica per la prima volta le conversazioni, sono ancora in vita molti testimoni e protagonisti di quegli anni di esilio. Napoleone ammette con candida onestà che quando era al trono ha avuto troppo rispetto umano e un’eccessiva prudenza per cui «non urlava la propria fede». Ma dice anche che «allora se qualcuno me lo avesse chiesto esplicitamente, gli avrei risposto: "Sì, sono cristiano"; e se avessi dovuto testimoniare la mia fede al prezzo della vita, avrei trovato il coraggio di farlo».
Soprattutto attraverso queste conversazioni impariamo che per Napoleone la fede e la religione erano l’adesione convinta, non a una teoria o a un’ideologia, ma a una persona viva, Gesù Cristo, che ha affidato l’efficacia perenne della sua missione di salvezza a «un segno strano», alla sua morte sulla croce. Perciò non ci stupiamo se Alessandro Manzoni nell’ode Cinque Maggio dà prova di conoscere la sua fisionomia spirituale quando scrive: «Bella Immortal! Benefica/ Fede ai trïonfi avvezza!/ Scrivi ancor questo, allegrati;/ che più superba altezza/ al disonor del Golgota/ giammai non si chinò». L’imperatore si sofferma a lungo con il generale Bertrand, dichiaratamente ateo e ostile alle manifestazioni di fede del suo superiore, regalandoci un’inaudita prova dell’esistenza di Dio, fondata sulla nozione di genio, una lunga conversazione sulla divinità di Gesù Cristo. Degni della nostra ammirazione sono anche le considerazioni sull’ultima Cena di Gesù e i confronti tra la dottrina cattolica e le dottrine protestanti.
Alcune affermazioni di Napoleone mi trovano singolarmente consonante. Ad esempio, quando dice: «Tra il cristianesimo e qualsivoglia altra religione c’è la distanza dell’infinito», cogliendo così la sostanziale alterità tra l’evento cristiano e le dottrine religiose. Oppure la convinzione che l’essenza del cristianesimo è l’amore mistico che Cristo ci comunica continuamente: «Il più grande miracolo di Cristo è stato fondare il regno della carità: solo lui si è spinto ad elevare il cuore umano fino alle vette dell’inimmaginabile, all’annullamento del tempo; lui solo creando questa immolazione, ha stabilito un legame tra il cielo e la terra. Tutti coloro che credono in lui, avvertono questo amore straordinario, superiore, soprannaturale; fenomeno inspiegabile e impossibile alla ragione».
Alla luce di queste pagine non possiamo non ammettere che Napoleone non solo è credente, ma ha meditato sul contenuto della sua fede maturandone una profonda e sapienziale intelligenza. Questa a sua volta si è tradotta in fatti molto concreti: ha domandato con insistenza al governo inglese di ottenere la celebrazione della Messa domenicale a Sant’Elena; ha espresso gratitudine verso sua madre e de Voisins, vescovo di Nantes, perché da loro è stato «aiutato a raggiungere la piena adesione al cattolicesimo»; ha concesso il suo perdono a tutte le persone che lo hanno tradito. Infine, le conversazioni riferiscono le convinzioni di Napoleone sul sacramento della confessione e i suoi rapporti con il papa Pio VII, rivelando che «quando il papa era in Francia (...) era esausto per le calunnie in base alle quali si pretendeva che io lo avessi maltrattato, calunnie che smentì pubblicamente». Queste conversazioni non solo hanno lasciato un segno indelebile nella memoria dei generali compagni di esilio, ma hanno anche concorso alla loro conversione.
Napoleone Bonaparte, Conversazioni sul cristianesimo, prefazione di Giacomo Biffi, Edizioni Studio Domenicano 2016 (€10)
«Avvenire» del 29 ottobre 2013