15 ottobre 2013

La vera egemonia è quella di Gentile

Il suo pensiero influenza tuttora la filosofia italiana. Da lui Gramsci imparò l'importanza di organizzare la cultura
di Marcello Veneziani
Con Giovanni Gentile finì la grande filosofia italiana. Dopo di lui o non fu grande, o non fu vera filosofia, o non fu italiana. La grande filosofia italiana finì con lui. Dico la filosofia di Vico, e prima di Vico il pensiero di Bruno, Telesio e Campanella, dopo Vico di Rosmini e di Gioberti; ma anche la filosofia di Dante e di Leopardi.
Dopo Gentile la filosofia rielaborò il lutto della sua stessa morte, dopo averne decretato l'agonia e poi annunciato la sua scomparsa. Dopo Gentile l'idea che la filosofia ricercasse la verità e che anzi la verità stessa sgorgasse dal processo attivo del pensiero, scomparve del tutto: il pensiero della crisi disconobbe la verità e la sua ricerca.
Dopo Gentile il pensiero non ebbe più fiducia in se stesso, si risolse nella razionale o irrazionale disperazione, variamente denominata, o si occupò dell'autopsia di se stesso, dell'analisi e della scomposizione dei saperi. Dopo Gentile la filosofia si occupò di linguaggi e procedure. Si negò alla verità, allo spirito e al pensiero assoluto (...)
Benedetto Croce esercitò nella prima metà del Novecento un'influenza che nemmeno Gentile ebbe nei suoi pur rilevanti ruoli pubblici. Croce fu chiaro e acuto scrittore di estetica e filosofia, lettere e storia, critico arguto e scopritore di autori, opere e talenti; assunse col tempo il ruolo inappuntabile di coscienza critica e maestro di libertà; ma la potenza del pensiero gentiliano non trova pari nel Novecento italiano, solo epigoni. Così Antonio Gramsci, fu acuto ideologo, lucido pensatore politico che ripassò la letteratura e la storia nella padella del marxismo militante, intellettuale di prim'ordine e sociologo della cultura e della storia, traduttore del marx-illuminismo in prassi politica e contesto nazionale. Ma non fu filosofo. O lo fu nel solco di Gentile, traducendo il materialismo di Marx in filosofia della prassi, tramite l'attualismo di Gentile. Gramsci rielaborò l'internazionalismo marxista in una filosofia d'impronta nazionale e popolare, da cui derivò l'italomarxismo. Ma la stessa conversione nazionale del marxismo avvenne all'ombra, rimossa e ingombrante, di Gentile. La filosofia della prassi ebbe in Gentile la matrice romantica e in Gramsci la versione neo-illuminista. La stessa idea gramsciana dell'intellettuale organico in cui coincidono cultura e politica - idea condivisa da Piero Gobetti - trova il suo riferimento più rigoroso in Gentile. E l'idea gramsciana, nucleo centrale del suo pensiero, che la conquista della società passi dalla conquista della cultura, fu anch'essa squisitamente gentiliana, non solo sul piano filosofico ma anche sul piano pratico, se si considera che quel progetto fu perseguito attraverso la riforma della scuola, l'organizzazione della cultura, l'enciclopedia italiana. L'idea gramsciana dell'egemonia culturale si situa tra la teoria e l'esperienza di Gentile e poi di Bottai; e deriva dall'interventismo culturale d'inizio secolo, il cosìddetto idealismo militante, più la lezione rivoluzionaria di Lenin a cui restò fedele.
Del resto, il fatto che Gentile abbia, nonostante l'Interdetto tuttora semi-vigente, figliato una vasta e spesso irriconoscente discendenza filosofica, che non ebbero né Croce né Gramsci né gli altri filosofi italiani del Novecento, dimostra la vitalità del pensiero gentiliano, soprattutto in partibus infidelium. Croce ebbe vasti estimatori, Gramsci ebbe molti seguaci politici, militanti di partito ed esegeti ideologici; ma né l'un né l'altro ebbero significativi filosofi che ne proseguirono e ne innovarono la teoria, e non solo perché ambedue non avevano cattedre e istituti con relativi allievi. Ma soprattutto perché l'una fu una grande visione della cultura nella storia e l'altra una grande cultura politica in funzione del Partito-Principe. Il maggior allievo di Gramsci, suo traduttore-traditore in politica, fu lo stesso Togliatti. Di Croce fu vasta l'ammirazione e l'influenza, piccola l'eredità filosofica, minuscola l'eredità politica, in un ramo dell'esile partito liberale. Tra le asprezze reciproche tra i due ne ricordiamo solo una, venata di tenerezza, di Gentile a Croce, del 1942: «Si calmi intanto: diamine, siamo due vecchi ormai, e i giovani ci guardano».
Come in un corpo coerente e tutto proteso all'unità, l'impianto teorico dell'attualismo si annoda alla filosofia civile, anzi si unisce nel nome di quella filosofia dell'identità che è l'impronta principale, e forse l'illusione maggiore, di Gentile. L'identità di pensiero e storia ha una matrice non solo idealistica e mazziniana, ma anche marxiana. La fecondità del pensiero gentiliano e la sua influenza si espressero in due versanti: la potenza teoretica dell'attualismo, unita a un atto di fiducia nell'assoluto del Pensiero, il cui grembo tutto contiene e risolve, la vita e il mondo, l'educazione e la politica, l'arte e la religione. E, l'altro versante, la forza persuasiva e pervasiva della sua filosofia civile che riannoda la storia e la filosofia italiana, l'arte, la letteratura e la religione, l'etica e l'educazione nazionale, cogliendo una linea coerente e vigorosa che si esprime in opere e atti, eventi storici e frutti spirituali (...)
Dell'idealismo il maggior continuatore-innovatore dell'idealismo hegeliano, non solo in Italia, fu Gentile, erede e originale come fu Plotino rispetto a Platone. Dopo di lui Hegel fu imbalsamato nella galleria dei filosofi estinti. O affisso a testa in giù nelle bacheche del marxismo, come esigeva il rovesciamento hegeliano proclamato dallo stesso Marx. Riconoscendo la forza filosofica del marxismo e cogliendone insieme la sua debolezza, il giovane Gentile capì sia l'imponenza filosofica del marxismo, che avrebbe poi pervaso il secolo, sia il suo inevitabile fallimento storico, perché il materialismo marxista fu soppiantato da un materialismo più coerente e nichilista, dissociato dalla tensione storica e ideale.
Non previde Gentile che quel materialismo globale alla fine avrebbe corroso anche lo spiritualismo politico, sconfitto lo Stato etico e travolto la dimensione nazionale. L'importanza della critica gentiliana a Marx non sfuggì a Lenin. Scrivendo il profilo di Marx, il giovane Gentile, fu l'unico filosofo vivente da lui citato. Lo scritto di Lenin risale al 1915 e fu pubblicato nel 1950 in Italia presso le edizioni di Rinascita. Ma il curatore dell'opera, Palmiro Togliatti, fece sparire il riferimento di Lenin a Gentile. Erano ormai lontani i tempi in cui Togliatti recensiva con attenzione su Ordine Nuovo l'opera gentiliana Guerra e fede (nel 1919); c'erano stati di mezzo la nascita del partito comunista, il fascismo, la guerra mondiale e la guerra civile.
«Il Giornale» del 15 ottobre 2013

Nessun commento: