22 ottobre 2013

Lettera ai figli del piagnisteo: la vostra Italia è meglio della nostra

Anticipiamo un brano del nuovo libro di Aldo Cazzullo: una riflessione sulla società di oggi e sulle aspettative dei ragazzi
di Aldo Cazzullo
Noi vivevamo in un Paese più povero, che però non si lamentava
Non ho nessuna nostalgia del tempo perduto. Non era meglio allora. È meglio adesso.Un adolescente dell'Italia di oggi è l'uomo più fortunato della storia. Anche se nato in una famiglia impoverita dalla crisi, ha infinitamente più cose e più opportunità di un ragazzo di qualsiasi generazione cresciuta nel Novecento.
Vive in una casa riscaldata, illuminata, con il bagno e l'acqua corrente, che i miei nonni da giovani avrebbero osservato con la bocca spalancata dallo stupore.
Va al mare, in campeggio, in discoteca, all'estero su voli low cost, ai fast food o nei ristoranti etnici dove mangia piatti esotici: tutte cose che i miei genitori non conoscevano o non potevano permettersi.
Ha la tv a colori con decine di programmi a qualsiasi ora del giorno e della notte, un computer connesso con il mondo intero, il telefonino con cui scaricare qualsiasi canzone o film immaginabile, una varietà di social network per ritrovare i vecchi amici o entrare in contatto con gli sconosciuti. Noi, quando eravamo ragazzi tra gli anni Sessanta e Settanta, avevamo la tv in bianco e nero, e aspettavamo con ansia le otto di sabato sera per vedere i cartoni animati della tv svizzera, tifando invano contro lo struzzo e per Wile E. Coyote (che chiamavamo Willy). Avevamo letto Pinocchio e il libro Cuore. Sandokan e Orzowei ci parvero la modernità.
L'Italia su cui aprivamo gli occhi non era il paradiso in terra. Anzi, era senz'altro peggiore di quella di oggi. Era un Paese scosso da tensioni, talora da tragedie. Era un Paese più inquinato: fabbriche in città, acciaierie in riva al mare, ciminiere, smog. Era un Paese più violento: bombe fasciste, agguati brigatisti, sequestri come quello di Cristina Mazzotti. Era un Paese più maschilista, in cui i «femminicidi» non facevano notizia: chi trovava la moglie con un altro e la ammazzava non commetteva un crimine ma un «delitto d'onore», spesso non finiva neppure in galera. Era un Paese più semplice, con meno aspettative e meno pretese. Non si festeggiava Halloween ma si piangevano i Morti. La marcia più alta era la quarta. C'erano la leva obbligatoria e i maneggi per evitarla, la visita militare, la naja, il car, il nonnismo. I calciatori andavano in vacanza in Riviera sotto l'ombrellone e non in Polinesia. La mafia ufficialmente non esisteva, ma in Sicilia era molto più potente di adesso, anche perché in pochi la combattevano. A Napoli c'era il colera. Ma in ogni città c?erano molti più bambini, e non erano chiusi in casa, a giocare con il Nintendo o l'iPhone o l'iPad, a simulare sport con la Wii, a festeggiare il compleanno con gli animatori ingaggiati dalla mamma, i palloncini, le facce dipinte e i giochi organizzati. Si giocava per strada: a nascondino, ai quattro cantoni sul sagrato della chiesa, a palla avvelenata con le ragazze, a pallone con i maschi, fino a quando non interveniva il vigile o il padrone dell?auto che faceva da porta. Avevamo sempre le ginocchia e i gomiti sbucciati.
L'Italia di allora era molto più modesta e povera dell'Italia di oggi. Ma era un Paese che non si lamentava. Per questo mi piacerebbe raccontarlo ai nostri ragazzi, che si lamentano molto, a volte con ragione e a volte no.Lo so che i nostri giovani hanno di che piangere. L'Italia tratta in modo scandaloso i suoi figli. Ne fa pochi. Li fa studiare male. Li grava di debiti. Non gli offre un lavoro. Soprattutto, non li prepara alle difficoltà che incontreranno.
Viziamo troppo i nostri ragazzi. Tentiamo di accontentarli in ogni capriccio, di anticipare le loro richieste, di prevenire i loro desideri. Li sfamiamo al di là di quanto desiderino. E quando si affacciano sul mondo sono già sazi. (Spesso, anche grassi). Provate a fare un giro davanti a un liceo romano o milanese: non c'è una bicicletta. Hanno tutti lo scooter, o il papà che li porta in macchina. E la colpa, se si deprimono davanti ai primi ostacoli, non è loro; è nostra.
Noi avevamo invece una fortuna: il collegamento tra le generazioni era solido. Non avevamo vissuto la fame e la guerra; ma sapevamo che c'erano state. Non abbiamo memoria diretta della ricostruzione e del boom; ma ne avevamo assorbito l'energia. I nonni non erano simpatici vecchietti che venivano in visita ogni tanto, portando regali e inventandosi qualsiasi cosa per strappare un sorriso ai nipoti. Vivevamo con loro. Mia bisnonna Matilde, detta Tilde, sposò un uomo che non aveva mai visto: non era la persona giusta con cui lamentarmi per le mie prime pene d'amore. Nonno Lorenzo aveva fatto la Grande Guerra e visto i compagni di prigionia morire di tifo; non mi potevo lamentare per il morbillo (che i ragazzi di oggi non sanno cosa sia). L'altro nonno, Aldo, a 12 anni faceva il garzone in una macelleria, e andava a piedi per sedici chilometri da Canale ad Alba: non aveva la bicicletta né i soldi per la corriera, e non sarebbe mai salito sulla corriera senza biglietto. Neppure nonno Aldo era la persona giusta con cui lamentarsi se non mi compravano il motorino.Quel poco che avevamo era infinitamente più di quello che avevano avuto i nostri genitori e i nostri nonni. Era questa consapevolezza che ci impediva di piagnucolare. Anche perché in casa c?era sempre qualcuno che, se ti vedeva triste, abbattuto, scoraggiato, ti diceva: «Adesso basta piangere!».
«Corriere della Sera» del 20 ottobre 2013

16 ottobre 2013

Sport per vincere o per divertirsi?

Per il 55% degli adolescenti primeggiare è la vera essenza dello sport. Ma l’iperallenamento può causare ipertrofia cardiaca
di Maurizio Tucci
Sport per vincere o per divertirsi? Su questa domanda “secolare” gli adolescenti italiani si dividono praticamente in due: il 45% considera “il vincere” quasi una sorta di accessorio, mentre il 55% sostiene (sia pure con varia intensità) che vincere è la vera essenza dello sport. Significative, comunque, le differenze di atteggiamento in base al sesso: la maggioranza delle ragazze (57%) è decisamente di indole decubertiana (l’importante è partecipare), (contro il 35% dei maschi), mentre a sostenere che la vittoria è in assoluto la cosa più importante dello sport è il 14% dei maschi contro appena il 3% delle femmine.

I DATI - I dati, presentati mercoledì al convegno “Adolescenza e Sport”, organizzato dall’Università di Pavia, provengono dall’indagine Adolescenti e Socialità, realizzata dalla SIMA (Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza) e dalla Associazione Laboratorio Adolescenza su un campione nazionale di 2000 studenti di terza media. E nello spaccato dell’adolescente in tuta e scarpette, fornito dall’indagine, si sono analizzati anche gli aspetti legati agli infortuni sportivi. Ad aver subito almeno un infortunio (grave o leggero) praticando sport è risultato essere oltre il 60% del campione (71% dei maschi), mentre il 26% (36% dei maschi) ha risposto di averne subiti più di uno.

INFORTUNI - Calcio e basket sono gli sport nei quali il tasso di infortuni è risultato più alto. Quasi la totalità di chi pratica questi sport ha dichiarato, infatti, che praticandoli ha subito l’infortunio da lui considerato più grave. Seguono, a notevole distanza, danza, ciclismo e atletica leggera. Limitando l’indicazione all’infortunio più grave subito, per il 25% si è trattato di una frattura, per il 20% di uno stiramento muscolare, per il 19% di una distorsione e per il 12% di una ferita. Circa le conseguenza degli infortuni sul proseguimento dell’attività sportiva, l’84,4% non ne ha avute e ha ripreso a praticare normalmente il medesimo sport, mentre il 6,7% ha cambiato sport e il 4% ha smesso di praticare qualunque attività sportiva. Il tasso di infortuni non sorprende Marita Gualea, del Centro Interdipartimentale di Biologia e Medicina dello sport dell’Università di Pavia, che lo considera assolutamente fisiologico, anche tenendo presente che nel computo non sono stati indicati solo gli infortuni gravi.

RISCHI DELL’IPERALLENAMENTO - Ciò che invece preoccupa l’esperta è, più in generale, il disequilibrio “quantitativo” che si registra, negli adolescenti, tra chi fa sport e chi non lo fa: «In Italia – spiega la Gualea - da un lato c’è una percentuale troppo elevata di adolescenti che non pratica sport o lo pratica in quantità del tutto insufficiente rispetto alle esigenze dell’età (i dati dell’indagine SIMA parlano di oltre il 30% n.d.r.), mentre all’altro estremo osserviamo un eccesso di sport altrettanto dannoso. Un esempio per tutti è rappresentato dai casi, non rari, di ipertrofia cardiaca nei giovani atleti causata proprio dall’iperallenamento. Sport sì, quindi, ma nelle dosi giuste e, soprattutto, con la mentalità giusta. Non è confortante, infatti, il dato che emerge dall’indagine secondo cui oltre il 20% degli adolescenti intervistati considera accettabile prendere integratori o medicinali per migliorare le proprie prestazioni sportive. Dato che - lo conferma l’Osservatorio sull’Adolescenza che la Società Italiana di Pediatria porta avanti da oltre 15 anni - è in sensibile aumento. Dell’importanza di un corretto approccio allo sport, sia qualitativo che quantitativo, ne sono assolutamente convinti i pediatri, specie considerando che lo stile di vita dell’infanzia e dell’adolescenza è, oggi, molto più sedentario rispetto al passato: «Per la rilevanza e l’attualità dell’argomento – sottolinea il Presidente della Società Italiana di Pediatria, Giovanni Corsello, - quest’anno abbiamo voluto dedicare gli “Stati Generali” della pediatria italiana, che si terranno il prossimo 20 novembre, proprio allo sport e alla attività fisico motoria di bambini e adolescenti».

SPORT PER TUTTI - Ma fare sport fa bene a tutti? Gian Luigi Marseglia, Direttore della Clinica Pediatrica dell’Università di Pavia, spiega: «Sono rari i casi in cui lo sport debba essere completamente vietato, ma per bambini e ragazzi che soffrono di qualche patologia occorre attenersi scrupolosamente alle indicazioni del pediatra. Vanno comunque sfatati molti pregiudizi che c’erano in passato. Anni fa, ad esempio, esisteva la convinzione che i bambini e gli adolescenti affetti da asma non dovessero praticare alcuna attività sportiva. C’era nei loro confronti, da parte dei familiari, e qualche volta anche su consiglio medico, un atteggiamento di eccessiva protezione e tutto ciò che era “movimento” era considerato una potenziale causa di asma. Oggi invece – prosegue Marseglia – sappiamo che far praticare sport ad un soggetto asmatico (scegliendo quegli sport – come ad esempio nuoto, sci di fondo, ginnastica artistica - che coinvolgono in maniera continuativa e regolare i muscoli respiratori) produce benefici non solo di natura fisica (aumento della tolleranza allo sforzo, miglioramento del quadro clinico), ma anche psicologica, perché fa aumentare la fiducia in sé stessi e favorisce una maggiore indipendenza sociale». L’impatto psicologico positivo che lo sport ha su un adolescente è, ovviamente, a beneficio di tutti. «In una età in cui il rapporto con il proprio corpo che cambia repentinamente è spesso fonte di disagio – osserva Alessandra Marazzani, psicologa di Laboratorio Adolescenza - lo sport offre alle ragazze a ai ragazzi la possibilità di vivere questa trasformazione in modo più aperto e sereno, perché accedere al proprio corpo che cambia attraverso lo sport fa sì che ciò avvenga con meno imbarazzi o giudizi negativi».
«Corriere della Sera» del 16 ottobre 2013

15 ottobre 2013

Buttiamo Gramsci. Appello per una cultura non organica

di Corrado Ocone
Devo dire che ho sempre un po’ di ritrosia nel parlare di destra e sinistra: sia perché le giudico categorie fuorvianti, come le altre, ad esse connesse, di conservatori e progressisti (chi oggi in Italia vuole conservare maggiormente lo status quo, la destra o la sinistra?); sia anche perché mi sembra che esse siano un legato del quel periodo ideologico che, iniziato con la Rivoluzione francese, ha poi messo capo, in qualche modo, alle tragedie del “secolo breve”. Non nego però che, da un punto di vista empirico, cioè di mera utilità pratica, le categorie in questione servano, quasi come una segnaletica delle forze in campo. Venendo poi in Italia, le cose si complicano ulteriormente perché sembrano esistere, in questo momento, almeno due sinistre, e almeno due destre. Con l’aggiunta che la sinistra moderata ed europea dà spesso l’impressione di essere succuba dell’altra, quella che potremmo chiamare giacobina , o “indignata” in modo permanente e effettivo, che fa riferimento ad un blocco di potere costituito da certa magistratura, vari organi di stampa e da un vasto fronte di intellettuali e opinione pubblica così detta “riflessiva”. A destra troviamo ugualmente due fronti: uno in qualche modo tradizionalista, comunitarista e diffidente del mercato (il suo motto potrebbe essere “Dio, Patria e Famiglia”), e un altro liberale e liberista. Il tutto con la presenza trasversale, a destra come a sinistra, di gruppi di cattolici che, con la loro adesione più o meno forte ai dogmi della Chiesa, complicano maggiormente il quadro.
Si può dire, in ogni caso, che la sinistra moralista è quella che esercita sul dibattito culturale una vera e propria “egemonia”, imponendo i temi, le retoriche e gli stilemi di pensiero e anche i nomi dei protagonisti. Che non sempre, o raramente, sono i più meritevoli o originali. Si assiste pertanto al paradosso di un Paese in maggioranza di destra la cui cultura politica è quasi esclusivamente appannaggio della sinistra (è la tesi sviluppata dallo storico Roberto Chiarini in un istruttivo volume appena uscito per i tipi di Marsilio: Alle origini di una strana repubblica). E si assiste anche ad un sovvertimento della realtà che ha portato, ad esempio, uno studioso pur bravo come Massimiliano Panarari a parlare, con sommo plauso degli ambienti radical chic, di una “egemonia sottoculturale” che sarebbe stata non solo esercitata ma studiata a tavolino dalle “tv berlusconiane” negli ultimi anni: una tesi che fuorvia perché omette di dire che essa si applica al limite non al mondo delle élites culturali ma a quello delle persone poco colte o istruite, che in quanto tali sono sempre esistite e sempre esisteranno in una società di massa (a parte il fatto che qualcuno, ad esempio il sottoscritto, potrebbe non concordare sul tono valutatativamente negativo dell’espressione “egemonia sottoculturale” credendo che molte manifestazioni ad essa riconducibili siano state invece un veicolo di laicizzazione e deideologizzazione del costume nazionale).libertà
In ogni caso, preso atto di questa situazione di predominio intellettuale della sinistra, ogni tanto da destra si ode un’imprecazione fatta di frasi del tipo: “dobbiamo occuparci di più della cultura”, “non dobbiamo sottovalutarla e lasciarla nelle mani della sinistra”, “dobbiamo creare una nostra rete di intellettuali”. Anche se capisco i motivi che spingono a farle, ritengo che queste affermazioni non convengano ad un fronte liberale. Esse sono espressione, infatti, col segno cambiato, di un modo di ragionare “gramsciano”. Per Gramsci, in effetti, l’intellettuale, al pari di ogni altro cittadino militante, deve mettere le sue competenze, nello specifico il suo sapere, a disposizione della parte politica propria: deve contribuire certo all’elaborazione della linea politica, ma deve anche essere una “cinghia di trasmissione” di essa una volta approvata. Egli, in questo modo, deve essere il costruttore dell’ “egemonia” del Partito sulla società, cioè deve contribuire a far sì che esso conquisti i cittadini a partire dalle teste, imponendo loro un modo di ragionare “corretto” o “appropriato”. La conseguenza di ciò è che l’uomo di cultura, lungi dal rispondere a quello che dovrebbe essere il suo demone, la “verità” (potremmo dire in maniera meno impegnativa una visione “disinteressata” e “imparziale” sul mondo e sulle cose), sottomette questa ad esigenze politiche, a torto ritenute superiori. Ovviamente, oggi quasi nessuno si definirebbe un “intellettuale organico” con compiacimento. Fatto sta, tuttavia, che un modo di ragionare siffatto è stato interiorizzato profondamente ed è diventato una sorta di luogo o senso comune nella società.
Ecco, una destra liberale, la destra tout court, dovrebbe dare il suo contributo per superare il gioco a somma zero che porta ad opporre intellettuali di destra a intellettuali di sinistra. Dovrebbe fare invece una campagna liberale, appunto, per la liberalizzazione e depoliticizzazione (e in Italia anche destatalizzazione) della cultura. Sul tema dell’“autonomia della cultura” essa potrebbe dare veramente un apporto non effimero al cambiamento.
«Il Giornale» del 15 ottobre 2013

La vera egemonia è quella di Gentile

Il suo pensiero influenza tuttora la filosofia italiana. Da lui Gramsci imparò l'importanza di organizzare la cultura
di Marcello Veneziani
Con Giovanni Gentile finì la grande filosofia italiana. Dopo di lui o non fu grande, o non fu vera filosofia, o non fu italiana. La grande filosofia italiana finì con lui. Dico la filosofia di Vico, e prima di Vico il pensiero di Bruno, Telesio e Campanella, dopo Vico di Rosmini e di Gioberti; ma anche la filosofia di Dante e di Leopardi.
Dopo Gentile la filosofia rielaborò il lutto della sua stessa morte, dopo averne decretato l'agonia e poi annunciato la sua scomparsa. Dopo Gentile l'idea che la filosofia ricercasse la verità e che anzi la verità stessa sgorgasse dal processo attivo del pensiero, scomparve del tutto: il pensiero della crisi disconobbe la verità e la sua ricerca.
Dopo Gentile il pensiero non ebbe più fiducia in se stesso, si risolse nella razionale o irrazionale disperazione, variamente denominata, o si occupò dell'autopsia di se stesso, dell'analisi e della scomposizione dei saperi. Dopo Gentile la filosofia si occupò di linguaggi e procedure. Si negò alla verità, allo spirito e al pensiero assoluto (...)
Benedetto Croce esercitò nella prima metà del Novecento un'influenza che nemmeno Gentile ebbe nei suoi pur rilevanti ruoli pubblici. Croce fu chiaro e acuto scrittore di estetica e filosofia, lettere e storia, critico arguto e scopritore di autori, opere e talenti; assunse col tempo il ruolo inappuntabile di coscienza critica e maestro di libertà; ma la potenza del pensiero gentiliano non trova pari nel Novecento italiano, solo epigoni. Così Antonio Gramsci, fu acuto ideologo, lucido pensatore politico che ripassò la letteratura e la storia nella padella del marxismo militante, intellettuale di prim'ordine e sociologo della cultura e della storia, traduttore del marx-illuminismo in prassi politica e contesto nazionale. Ma non fu filosofo. O lo fu nel solco di Gentile, traducendo il materialismo di Marx in filosofia della prassi, tramite l'attualismo di Gentile. Gramsci rielaborò l'internazionalismo marxista in una filosofia d'impronta nazionale e popolare, da cui derivò l'italomarxismo. Ma la stessa conversione nazionale del marxismo avvenne all'ombra, rimossa e ingombrante, di Gentile. La filosofia della prassi ebbe in Gentile la matrice romantica e in Gramsci la versione neo-illuminista. La stessa idea gramsciana dell'intellettuale organico in cui coincidono cultura e politica - idea condivisa da Piero Gobetti - trova il suo riferimento più rigoroso in Gentile. E l'idea gramsciana, nucleo centrale del suo pensiero, che la conquista della società passi dalla conquista della cultura, fu anch'essa squisitamente gentiliana, non solo sul piano filosofico ma anche sul piano pratico, se si considera che quel progetto fu perseguito attraverso la riforma della scuola, l'organizzazione della cultura, l'enciclopedia italiana. L'idea gramsciana dell'egemonia culturale si situa tra la teoria e l'esperienza di Gentile e poi di Bottai; e deriva dall'interventismo culturale d'inizio secolo, il cosìddetto idealismo militante, più la lezione rivoluzionaria di Lenin a cui restò fedele.
Del resto, il fatto che Gentile abbia, nonostante l'Interdetto tuttora semi-vigente, figliato una vasta e spesso irriconoscente discendenza filosofica, che non ebbero né Croce né Gramsci né gli altri filosofi italiani del Novecento, dimostra la vitalità del pensiero gentiliano, soprattutto in partibus infidelium. Croce ebbe vasti estimatori, Gramsci ebbe molti seguaci politici, militanti di partito ed esegeti ideologici; ma né l'un né l'altro ebbero significativi filosofi che ne proseguirono e ne innovarono la teoria, e non solo perché ambedue non avevano cattedre e istituti con relativi allievi. Ma soprattutto perché l'una fu una grande visione della cultura nella storia e l'altra una grande cultura politica in funzione del Partito-Principe. Il maggior allievo di Gramsci, suo traduttore-traditore in politica, fu lo stesso Togliatti. Di Croce fu vasta l'ammirazione e l'influenza, piccola l'eredità filosofica, minuscola l'eredità politica, in un ramo dell'esile partito liberale. Tra le asprezze reciproche tra i due ne ricordiamo solo una, venata di tenerezza, di Gentile a Croce, del 1942: «Si calmi intanto: diamine, siamo due vecchi ormai, e i giovani ci guardano».
Come in un corpo coerente e tutto proteso all'unità, l'impianto teorico dell'attualismo si annoda alla filosofia civile, anzi si unisce nel nome di quella filosofia dell'identità che è l'impronta principale, e forse l'illusione maggiore, di Gentile. L'identità di pensiero e storia ha una matrice non solo idealistica e mazziniana, ma anche marxiana. La fecondità del pensiero gentiliano e la sua influenza si espressero in due versanti: la potenza teoretica dell'attualismo, unita a un atto di fiducia nell'assoluto del Pensiero, il cui grembo tutto contiene e risolve, la vita e il mondo, l'educazione e la politica, l'arte e la religione. E, l'altro versante, la forza persuasiva e pervasiva della sua filosofia civile che riannoda la storia e la filosofia italiana, l'arte, la letteratura e la religione, l'etica e l'educazione nazionale, cogliendo una linea coerente e vigorosa che si esprime in opere e atti, eventi storici e frutti spirituali (...)
Dell'idealismo il maggior continuatore-innovatore dell'idealismo hegeliano, non solo in Italia, fu Gentile, erede e originale come fu Plotino rispetto a Platone. Dopo di lui Hegel fu imbalsamato nella galleria dei filosofi estinti. O affisso a testa in giù nelle bacheche del marxismo, come esigeva il rovesciamento hegeliano proclamato dallo stesso Marx. Riconoscendo la forza filosofica del marxismo e cogliendone insieme la sua debolezza, il giovane Gentile capì sia l'imponenza filosofica del marxismo, che avrebbe poi pervaso il secolo, sia il suo inevitabile fallimento storico, perché il materialismo marxista fu soppiantato da un materialismo più coerente e nichilista, dissociato dalla tensione storica e ideale.
Non previde Gentile che quel materialismo globale alla fine avrebbe corroso anche lo spiritualismo politico, sconfitto lo Stato etico e travolto la dimensione nazionale. L'importanza della critica gentiliana a Marx non sfuggì a Lenin. Scrivendo il profilo di Marx, il giovane Gentile, fu l'unico filosofo vivente da lui citato. Lo scritto di Lenin risale al 1915 e fu pubblicato nel 1950 in Italia presso le edizioni di Rinascita. Ma il curatore dell'opera, Palmiro Togliatti, fece sparire il riferimento di Lenin a Gentile. Erano ormai lontani i tempi in cui Togliatti recensiva con attenzione su Ordine Nuovo l'opera gentiliana Guerra e fede (nel 1919); c'erano stati di mezzo la nascita del partito comunista, il fascismo, la guerra mondiale e la guerra civile.
«Il Giornale» del 15 ottobre 2013

14 ottobre 2013

Big Bang o Genesi, il falso dilemma

Meissner
di Andrea Galli
«Tra scienziati, anche in privato, capita molto raramente di parlare di filosofia o teologia. C’è molto pudore ad affrontare certi temi». Krzysztof Meissner, 52 anni, docente di fisica teorica all’università di Varsavia, è uno dei massimi studiosi di fisica delle particelle in Europa, ha lavorato nei più importanti centri di ricerca al mondo, da Harvard, all’École polytechnique di Parigi, al Cern di Ginevra. Per cui, quando confessa di sentirsi spesso frustrato dalla mancanza di spazi di confronto con i propri colleghi sulle domande ultime che fanno da sfondo allo scavo scientifico, lo fa a ragion veduta.
Anche per questo è uno dei partecipanti più convinti al “Cortile del dialogo”, l’appuntamento mutuato dal Cortile dei gentili che si tiene oggi e domani a Varsavia, organizzato dall’arcidiocesi con il patrocinio del Pontificio Consiglio della cultura. Evento che sarà aperto dal cardinale Gianfranco Ravasi – domani porterà il suo saluto anche il presidente della Repubblica Bronislaw Komorowski – e a cui partecipano nomi prestigiosi della cultura polacca, come il sacerdote e cosmologo Michael Heller, il filosofo Piotr Gutowski, lo storico Krzysztof Pomian, il sociologo Andrzej Zybertowic.
Meissner attualmente sta lavorando insieme al fisico Hermann Nicolai, del Max Planck Institut Potsdam, a una versione “allargata” della teoria standard dell’universo, alla ricerca di una seconda «particella di Dio», dopo il Bosone di Higgs. Una sfida vertiginosa, più che ambiziosa. Il bisogno di ricongiungere in qualche modo sapere scientifico e umanistico non lo lascia mai, anche per il fatto che l’apertura intellettuale è nel suo nel Dna. Suo bisnonno materno era Wincenty Lutoslawski, che stabilì la cronologia delle opere di Platone con un’analisi stilometrica dei testi, marito a sua volta della poetessa spagnola Sofia Casanova. Cugino di sua nonna materna era il grande compositore e direttore d’orchestra Witold Lutoslawski. Ma l’elenco degli intellettuali, politici e artisti in famiglia è sorprendentemente lungo.

Professor Meissner, qual è la differenza tra uno scienziato credente e uno no?
«Nel modo di fare ricerca, nessuna. Entrambi usano gli stessi mezzi, usano la stessa matematica. La differenza è nell’approccio al risultato finale. Le leggi che governano l’universo si rivelano sempre semplici, eleganti, con un che di perfetto nella loro essenza. Se uno non crede in Dio constata questa perfezione e si ferma lì. Se uno è credente non può non vedervi un riflesso della perfezione di Dio. Quello che cambia è insomma il significato attribuito alle scoperte, l’ottica con cui le possiamo guardare e apprezzare».

Tra le porte sul mistero che la scienza apre, qual è la principale per lei?
«È la stessa esistenza di leggi universali. Leggi che sono appunto semplici, eleganti, perfette, a cui rispondono tutte le cose. Un universo sorto dal caso dovrebbe essere caotico. Se ci fossero delle leggi non potrebbero essere universali nel tempo e nello spazio. Potrebbe esserci una certa misura di correlazione fra la cose, non di più. La presenza di leggi universali, che è la condizione di possibilità della ricerca scientifica, leggi che non cambiano dal lunedì al mercoledì, è qualcosa di stupefacente, che non smette di sorprendermi dopo tanti anni. La considero più che un indizio, direi quasi una prova della presenza di una realtà trascendente, del fatto che c’è qualcosa di più grande del mondo in cui viviamo. Cosa sia questa trascendenza, se sia un Dio personale o una divinità panteistica, è un quesito per rispondere al quale abbiamo bisogno della fede. Ma, ripeto, che ci sia una dimensione che trascende il nostro mondo, per me come scienziato è evidente».

C’è chi cerca di vedere anche nella fisica quantistica lo spazio per un «ritorno di Dio». Lei cosa ne pensa?
«Penso che non dobbiamo tirare in ballo l’intervento divino per colmare le lacune della nostra conoscenza. Ma una cosa va detta. Fino alla fine del XIX secolo è stata dominante una visione della scienza, originatasi anche per influsso della Rivoluzione francese, fortemente deterministica. Si era convinti che conoscendo le condizioni del mondo in un dato momento sarebbe stato possibile ricostruirne il passato e anticiparne il futuro. C’è chi voleva persino chiudere le facoltà di fisica, perché da allora in poi sarebbero state sufficienti quelle di ingegneria ... Un determinismo che riguardava anche l’uomo. Ogni fenomeno era ritenuto spiegabile e prevedibile. La fisica quantistica ha spezzato le catene di questo determinismo duro e semplicistico e ha reso il mondo più interessante. Si può dire che abbia anche ricreato le condizioni per riflettere sull’altro grande mistero che, secondo me, spinge a considerare l’esistenza di una realtà trascendente e che sfugge al determinismo, il libero arbitrio dell’uomo».

E del Big Bang cosa pensa?
«Sul Big Bang io sarei molto più prudente di altri nel giudicarlo un "assist" della scienza all’esistenza di Dio. Prima di tutto perché non sappiamo se il Big Bang sia realmente esistito, o meglio: i nostri strumenti di fisica teorica ci permettono di capire l’universo solo fino a un certo punto di densità, oltre al quale non possono esserci più di aiuto. Può esserci stato un punto zero, un inizio di tutto, ma non possiamo escludere, andando a ritroso, di entrare in una sorta di tempo negativo, oltre il punto zero. Ho sempre considerato quindi azzardato mettere in parallelo il Big Bang e la Genesi. Anche i credenti non dovrebbero mai dimenticare che la Bibbia è una verità rivelata sulla relazione tra l’uomo e Dio, non su quella tra l’uomo e la realtà materiale».
«Avvenire» del 13 ottobre 2013

13 ottobre 2013

Il nostro nome finisce sul barattolo

Etichette e personalizzazione
di Maria Luisa Agnese
Prodotti per la generazione 2.0: dalle bevande agli abiti, l’ossessione di essere protagonisti come negli autoscatti
Nel giro di pochi mesi due prodotti molto amati che fanno prepotentemente parte del nostro immaginario collettivo, hanno decapitato il proprio marchio sull’etichetta, per sostituirlo con una serie di nomi propri, Stefano, Giorgia, Gabriele, Marta. Un harakiri sorprendente nel mondo del marketing, consumato in nome della personalizzazione, della comunicazione individuale, virale ed emotiva. Ha iniziato la Coca Cola, con un mega lancio internazionale partito dall’Australia che ha immesso sul mercato milioni di lattine individualizzate, e una campagna pubblicitaria in gran parte estesa ai social network, in modo da creare un fenomeno di condivisione virale basato sul passaparola.
Poco dopo Nutella non ha avuto paura di arrivare seconda e quasi ricalcare la strategia Coca Cola, creando etichette con i più popolari nomi italiani e appoggiandosi a una campagna pubblicitaria fortemente emotiva che pesca nella memoria di tutti noi, ricollegando mondo adulto e mondo infantile.
Prodotti trasversali e mass market che si arrendono alla personalizzazione, al bisogno di distinguersi e uscire dal gregge, di differenziarsi autoaffermando la propria personalità. Un’urgenza che si aggira da tempo in una società parecchio livellata, ma che è esplosa quasi come un paradosso nel mondo apparentemente appiattito dei social network.
Così oggi anche la moda va a caccia di t-shirt personalizzate, di collanine con le iniziali (anche sul fronte del lusso, Fendi docet) e le cifre del proprio nome piovono su tutti gli status symbol, in versione aggiornata rispetto al tradizionale monogramma sulla camicia da uomo. Su camicie per donna, valigie, borse da viaggio e non solo, basta pensare ai bauletti con le iniziali di Vuitton e Valextra. Iniziali minuscole quasi nascoste o grandi e invasive, in stampatello o in corsivo, nomi interi, dipinti o ricamati, quasi dei tatuaggi sulla stoffa, un’esigenza di griffe personale che testimonia quello stesso bisogno di lasciare il segno e insieme di autodefinizione che il mass market ha intercettato con decisione.
Una piccola ossessione presto estesa anche ai bambini, e come potrebbe essere altrimenti, visto che ormai hanno tutto? A Natale è d’obbligo chiedersi cosa regalare ai pargoli di personalizzato, anche se non si tratta di figli del privilegio consumistico come Suri Cruise: lo ha fatto nel 2012 il sito Eonline, individuando il set di piatti con il nome dipinto vicino alla sirenette per lei e ai pirati per lui, come da stereotipo. Mentre My Style, marchio di nicchia e parecchio glamour, estende il problema a tutto l’anno («Come essere unici fin da piccoli?») e propone per loro zainetti su misura e customizzati.
L’ansia di raccontarsi per come si è, per far sì che gli altri ci vedano come vogliamo noi e non a lente deformata, è il nuovo logorio della vita contemporanea: un po’ lo stesso meccanismo che sta dietro all’orgia di autoscatti su Instagram, dove ognuno segue il mantra «Mi racconto io, senza filtri», con una narrazione personale e continua.
Due pulsioni, parallele e sostanzialmente endemiche della società contemporanea, quella che porta a distinguersi, a differenziarsi e quella che invece porta a immergersi annegando nel mainstream della comunicazione.
«E la pubblicità è brava a pigiare alternativamente un pulsante o l’altro» dice il sociologo Domenico De Masi. Quello che i pubblicitari invece sanno fare meno bene, secondo il sociologo, è il loro mestiere specifico di creativi: «Anzi constato la loro incapacità. Si autodefiniscono creativi, come io o lei potremmo mettere “simpatici” sul nostro biglietto da visita. Ma che cosa stanno inventando di nuovo? Dopo Benetton e Oliviero Toscani proprio nulla. È tutto un ripetersi ebete di miliardi di spot analoghi».
Sicuramente è così sul piano creativo, ma intanto Internet sta cambiando le nostre vite e il nostro mondo interiore e i più furbi a capirlo sono stati proprio i grandi prodotti trasversali di massa. Aspettatevi una cascata di imitatori.
«Corriere della Sera» del 13 ottobre 2013

10 ottobre 2013

L'apprendimento comincia in fasce: ecco perché siamo nati per leggere

Educazione
di Gian Arturo Ferrari
A prima vista «Nati per leggere» non pare il nome di una associazione destinata a promuovere la lettura e i libri presso i bambini piccoli e piccolissimi. Che sembrerebbe invece richiedere denominazioni più alate, più evocative, più allusive. Che so, «Liber», «Librus», «Pagina», «Lectura» e via dicendo. O più infantili, «Libromio» o «Miolibro», «Coccolibro», «Cicciolibro» e anche qui via dicendo. «Nati per leggere» invece, brusco e spicciativo com'è, ha più l'aria di un comando, di una sollecitazione a sbrigarsi. Non è un invito, ma un'asserzione perentoria. E anche, aggiungiamo pure, non così immediatamente persuasiva. Perché mai dovremmo essere nati proprio per leggere? Siamo nati per tante cose, certo, tra le quali anche per leggere. Senza dire che la maggior parte di quelli che nascono ? nel mondo in generale, ma in particolare in Italia ? finiscono per non leggere del tutto o per leggere molto ma molto saltuariamente. E allora che finalità sarebbe mai quella che dopo essere stata enunciata in modo così imperativo viene in realtà realizzata solo da una minoranza piuttosto esigua? Eppure, nella sua voluta e un po' legnosa severità, «Nati per leggere» ha tre grandi vantaggi. Il primo è quello di legare la lettura alla nascita, o per meglio dire di proporla come la vera nascita, di trasformarla da un fatto culturale in un fatto naturale, quasi biologico. Il secondo di essere una sorta di rivendicazione e di protesta per un mancato riconoscimento e dunque per converso una specie di dichiarazione di intenti, un programma d'azione. Il terzo di essere, nella sostanza, vero. Siamo nati, come spiegò qualche tempo fa Francois Jacob, per trasmettere il messaggio genetico che abbiamo ricevuto. E sta bene. Ma è anche vero che questo non è un tratto specifico della specie umana, dell'Homo sapiens, bensì è comune a tutto il vivente, animale o vegetale che sia. Se vogliamo venire più vicino a noi e cercar di isolare ciò che davvero identifica e determina l'umanità e il suo destino, il che cosa ci stiamo a fare al mondo, finiamo obbligatoriamente per passare dalla scrittura e dunque dalla lettura. In un senso profondo ed essenziale noi siamo davvero nati per leggere. Nella sua sbrigativa ruvidezza «Nati per leggere» dice da un lato la verità e dall'altro proprio dicendo la verità si propone come slogan, manifesto, motto di una nuova evangelizzazione alla lettura e soprattutto alla lettura precoce. Che è iniziata, l'evangelizzazione, nel 1999, quando alcuni bibliotecari e alcuni pediatri hanno deciso di mettersi insieme, di dar vita alla associazione e di iniziare in concreto l'intervento sui bambini. Negli ultimi dieci anni, da un lato l'attività si è estesa e oggi vi sono impegnate più di 1.000 biblioteche e 800 pediatri che lavorano a oltre 500 progetti locali. Ma dall'altro si sono venuti modificando alcuni concetti di base, primo fra tutti quello di precocità.
Ognuno di noi, che siamo grandi e forti lettori, conserva e mantiene (in realtà restaura e ricostruisce) preziosi ricordi delle sue prime letture. Io rivedo (o credo di rivedere...) la rilegatura verde e i disegni liberty in bianco e nero di un libro delle fiabe di Andersen. Risento (o credo di risentire...) la voce di mia nonna che, come in una fiaba, mi legge un libro di fiabe. Ma questi ricordi, come gli innesti di memoria dei replicanti di Blade Runner, sono già contaminati, plasmati, modificati dalla lettura. I libri si sono insinuati in noi e si sono trasformati in noi. C'e un prima, un momento anteriore in cui è scattata la molla, la porta segreta si è aperta, siamo entrati nel mondo dei libri e i libri sono entrati in noi. Quando? Quando è successo? Oggi le neuroscienze sono in grado di dare una risposta molto più accurata di quindici anni fa. E la risposta è: prestissimo. Non solo nei primissimi anni, ma nei primi mesi di vita. Lì, quando di lettere e di alfabeto non è proprio il caso di parlare, ma di immagini e di colori sì. E ancor prima quando vi sono solo suoni, ma tra questi suoni c'è una voce, e la voce - calda, affettuosa e materna - parla e racconta, e parla e racconta proprio a te, lì si è iniziata ad aprire la porta segreta che ha fatto dei neonati o dei bambini piccoli che siamo stati i lettori di oggi. E dunque se si vuole portare alla lettura quelli che oggi ne sono privati o esclusi bisogna cominciare presto, prestissimo. È vero, naturalmente, che non è mai troppo tardi. Ma questa è una verità individuale, vale per i singoli e sottintende un impegno, uno sforzo e una fatica immani. La verità dei grandi numeri è al contrario che il treno perduto nella primissima e prima infanzia non ripassa più, non lo si può più riprendere, che chi è rimasto escluso allora lo resterà per sempre. Il primo e più immediato obiettivo di «Nati per leggere» e del suo stratega e presidente, il pediatra Giorgio Tamburlini - un italiano di frontiera (è triestino) asciutto e risoluto - è proprio diffondere il più possibile questa consapevolezza, far sì che mano mano divenga comprensibile a tutti i genitori che il destino dei loro bambini si gioca in gran parte lì, tra quei libretti colorati. Poi potrà venire tutto il resto. E alla fine anche questi bambini, come i grandi e forti lettori adulti di oggi, potranno dimenticare come hanno cominciato a leggere, crederanno di averlo sempre fatto e costruiranno su questo gli opportuni ricordi. Perché saranno non programmaticamente, ma nella realtà, nati per leggere. E cresciuti leggendo.
«Corriere della Sera» del 7 ottobre 2013

Morire democristiani da sventura ad auspicio

E Pacciardi disse: «Meglio una messa al giorno che una messa al muro»
di Pierluigi Battista
Dicono: «moriremo democristiani». E lo dicono con costernazione e raccapriccio. Se davvero fosse verosimile, tuttavia aggiungerei, da elettore che mai e poi mai ha optato in vita sua per lo Scudo Crociato, ma che ha visto tutte le miserie della Seconda Repubblica: magari.
Una «damnatio memoriae» politico-storiografica getta sulla storia dell'Italia governata dalla Dc l'ombra fosca di un passato ignobile. E invece, magari qualche merito il partito che raccolse l'eredità di Sturzo e De Gasperi, può legittimamente vantarlo. Chissà se morirà democristiana, ma l'Italia democristiana visse in regime di libertà, grazie alla partecipazione dei cattolici alla guerra di liberazione antifascista e alla storica vittoria contro i comunisti stalinisti del 18 aprile del 1948. L'Italia democristiana, incalzata dalle altre forze politiche, dai sindacati, dalle spinte delle organizzazioni sociali, varò una coraggiosa e lungimirante riforma agraria. Nell'Italia democristiana una Nazione devastata e piegata dalla guerra trovò in pochi anni la forza di reagire, di crescere, di mettersi in cammino. L'Italia democristiana cambiò in pochi anni la sua natura e divenne una potenza industriale, all'avanguardia nella chimica, nella siderurgia, nella produzione metalmeccanica. L'Italia democristiana, descritta come il regno dell'immobilismo, conobbe una rivoluzione gigantesca lasciando integro il suo sistema democratico e il rispetto delle libertà fondamentali: dalla miseria si passò in meno di una generazione alla civiltà dei consumi, l'ascensore sociale era in pieno movimento, il benessere diffuso con una velocità impressionante, cambiando radicalmente la vita di milioni e milioni di italiani in un quadro di stabilità democratica che ha del miracoloso.
L'Italia democristiana era molto bacchettona, ma con la Dc al governo l'Italia ebbe (tardivamente) il divorzio e le donne che abortivano non furono più criminalizzate. L'Italia democristiana consentiva il dissenso, l'opposizione, la cultura libera. Alberto Ronchey ha raccontato che Randolfo Pacciardi, quando nel '48 gli chiedevano se non si sentisse prigioniero del clericalismo, rispondeva così: «meglio una messa al giorno che una messa al muro». Sentenza che, nella sua ruvida icasticità, riassume i termini di un intero ciclo storico.
L'Italia democristiana ha conosciuto storture, stragi impunite, statalismo, corruzione. Ma non voleva essere una società santa e perfetta, come sempre accade nei regimi liberal-democratici in cui si sa che la dittatura della virtù è l'anticamera del totalitarismo. Nella guerra fredda l'Italia democristiana, con sbavature terzomondiste e anti-israeliane e qualche servilismo, è sempre stata dalla parte giusta: quella atlantica. Nell'Italia democristiana si tendeva a smorzare i conflitti, a non infierire sui vinti, a tenere insieme la società, a garantire la rappresentanza di tutti gli interessi, persino troppo. Moriremo democristiani? Magari fosse vero.
«Corriere della Sera» del 7 ottobre 2013

«Noi, paladini dell'arte totale nel Rinascimento degli anni 60»

La rassegna curata da un fondatore del movimento nato mezzo secolo fa
di Alessandro Beretta
Balestrini: anche oggi è possibile l'esperienza del Gruppo 63
Un'avanguardia tout court, non solo letteraria, ma anche per la musica, le arti visive e il cinema: è così che il Gruppo 63, come una coloratissima sorgente di idee, esplose cinquant'anni fa nella cultura italiana. L'occasione per riscoprirlo è nella rassegna «63x50», che da venerdì 18 ottobre a domenica 3 novembre si terrà all'Auditorium di Roma per poi attraversare l'Italia (programma completo su www.alfabeta2.it). Una manifestazione coordinata dallo scrittore e artista Nanni Balestrini che ne è stato, fin dai primi passi, uno dei principali protagonisti.
«63x50» è un viaggio attraverso le produzioni in tutte le diverse arti da parte del Gruppo 63: com'è affrontarlo oggi?
«Non malinconico, per fortuna, e credo sia bello perché dà un'idea del complesso delle tendenze culturali delle arti negli anni 60, un momento straordinario non solo in Italia. A parte la novità di quanto si produceva in quegli anni simili a un Nuovo Rinascimento, ciò che ci interessava era mostrare l'intersezione tra i diversi campi, paralleli tra di loro e che si alimentavano a vicenda».

Era una contaminazione voluta tra le diverse arti?
«C'era una relazione molto stretta e il segno preciso è nella nascita stessa del Gruppo 63, a Palermo, in un Festival di musica contemporanea che organizzava anche mostre di arti visive. Il nome ce lo offrì il musicista Luigi Nono che aveva assistito in Germania a una riunione del Gruppo 47, con scrittori come Günter Grass e Heinrich Böll, e che ci suggerì di provare a fare un'esperienza simile».
Poi, da quel primo anno in cui erano presenti anche, tra gli altri, Alberto Arbasino, Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Giorgio Manganelli, il Gruppo 63 si ritrovò per cinque anni. Come mai smetteste?
«Perché il laboratorio aveva dato i suoi frutti: dare vita a una nuova generazione di scrittori. Eravamo partiti in polemica con la letteratura che ci precedeva, perché era un'Italia che si stava trasformando con il miracolo economico, che da agricola diventava industriale, ma non trovavamo chi la rispecchiasse. Eravamo in polemica con scrittori come Bassani e Cassola perché li sentivamo passati, mentre Gadda, a suo modo, ci sembrava l'unico predecessore attuale».

Lei stesso ha praticato diverse arti, come la scrittura, la pittura, il video: le ha vissute come pratiche distinte?
«Per me son state molto vicine, tanto che a Roma, dove si terrà nel corso della rassegna una mostra dedicata alle arti visive intitolata Arte Totale: il Gruppo 63, curata da Achille Bonito Oliva, siamo in diversi ad averne toccate di più: Gianfranco Baruchello fece anche cinema, Giuseppe Chiari era anche musicista e così via. Non c'erano solo gli incroci tra le arti, ma spesso più arti incontravano la stessa persona».

Parlarne oggi può essere uno stimolo per i giovani?
«Sotto diversi punti di vista: indirettamente offre uno spunto polemico di fronte alla situazione italiana, in cui l'ultimo ventennio di politica ha degradato la cultura rendendola secondaria, e in generale perché il consumo culturale di massa ha penalizzato le produzioni di eccellenza, che poi fanno la storia delle arti. L'invito ai giovani, è a riscoprire che un'esperienza come quella è sempre possibile. Certo, c'erano delle condizioni più favorevoli di adesso, e oggi probabilmente serve più impegno e sacrificio, ma ne dovrebbe valer sempre la pena».



Su quest'argomento il quotidiano "Avvenire" ha dedicato alcuni articoli-intervista ai maggiori esponenti del Gruppo:
- Un'avanguardia, non una setta (25 agosto)

- Ma fu davvero avanguardia? (10 agosto)

- Eccesso di serietà, limite per la scrittura (28 agosto)
- Cesare Cavalleri: Neoavanguardia, terremoto vano (17 agosto)
- Balestrini: dalla tv al computer, tutta un'altra lingua (3 agosto)
-
«Corriere della Sera» del 7 ottobre 2013

Quant'è astratta la democrazia atea

Il nuovo libro del direttore di «MicroMega» ignora la continua commistione tra fedi secolari e religiose nel mondo globale
di Marco Ventura
Flores d'Arcais vuole relegare i credenti in una condizione di minorità politica
«La democrazia è atea, imprescindibilmente». Paolo Flores d'Arcais pianta la sua tesi al centro del libro «La democrazia ha bisogno di Dio» Falso! (Laterza). La sbatte in faccia ai tanti per i quali, da Tocqueville in poi, la democrazia non sta in piedi senza Dio. La democrazia di Flores d'Arcais è il regno dell'autonomia e dell'autosufficienza dell'uomo. Si fonda su un «ethos repubblicano» che è «potere-di-tutti-e-di-ciascuno». È una società di «liberi/eguali» in cui valgono solo fatti, logica e razionalità; una comunità «che si dà da sé la propria legge», dove il cittadino argomenta «sotto la propria responsabilità, con la propria testa, utilizzando i soli strumenti che lo rendono con-cittadino».
Ne discende l'incompatibilità con la democrazia di fonti d'ispirazione superiori, «dogmatica volontà irrelata», sovranità divina alternativa a quella umana. Se vuole stare nella dinamica democratica, non resta al credente che abbandonare ogni pretesa di dedurre norme direttamente o indirettamente dalla propria fede. Dio può sopravvivere alla democrazia, secondo l'autore, solo accettando l'«esilio dorato nella sfera privata della coscienza» e ingiungendo ai suoi rappresentanti in terra di non interferire col governo repubblicano. Dio, infatti, non può che dividere la società e drammatizzare i conflitti; producendo una «ghettizzazione reciproca di stampo iper-feudale, cuius religio eius lex», oppure una «guerra civile di religione, per imporre come legge, erga omnes, la volontà del proprio Dio».Giacché sempre di questo si tratta, scrive il filosofo: di ammantare della Maestà di Dio le proprie «ubbie, frustrazioni e altri spurghi dei fondali psichici». I tentativi di sostenere il contrario, per Flores d'Arcais, sono fallaci; o peggio, pericolosi. Vengono dall'intransigenza cattolica di Wojtyla e Ratzinger, dal cripto islamismo di Tariq Ramadan; soprattutto, dai «democratici stanchi di lottare», come l'«agnostico» Habermas. L'ambizione di legittimare Dio nella sfera pubblica è invariabilmente, per l'autore, «mero revival di tradizionalismo teocratico», rinuncia all'autodeterminazione, «atavico richiamo di nostalgia gregaria stratificata nella più antica materia grigia, pronto a riemergere con prepotenza non appena vacilli la speranza».Nella logica repubblicana, il credente è «civicamente minus habens perché incapace di interiorizzare autonomamente la scelta pro-democrazia e in grado di riconoscerla solo affidandosi» all'autorità religiosa di riferimento. Se vuole integrarsi nel sistema democratico, egli deve pertanto appendere Dio all'attaccapanni, come fa lo scienziato prima di entrare in laboratorio: uscendo così dalla propria «condizione permanente di minorità».
L'alternativa dell'autore, la democrazia «priva di fondamenti», sembra a sua volta una fede, prodotta dalla medesima immaginazione che partorisce Allah o Shiva. Flores d'Arcais afferma invece che la sua è «una ideologia» sopra le parti, che «fa corpo unico con la democrazia», un «habitus psicologico e morale» che non ha pretesa di universalità, agli antipodi delle tante divinità che soggiogano l'uomo.
Il limite della proposta di Flores d'Arcais sta nel suo dualismo. Nella divisione del mondo in due emisferi: i credenti da una parte; i non credenti dall'altra. E nel destino inevitabile di ciascun universo: il credente dovrà liberarsi negando l'Altro da sé con cui si relaziona; mentre spetterà al non credente respingere la tentazione di contemplare alcunché oltre la «nuda identità astratta» della cittadinanza.
Si tratta di un dualismo potente, radicato, i cui argini sono tuttavia rotti ogni giorno dalle correnti della realtà. Credenti e non credenti si mischiano. Fedi religiose e fedi secolari si confondono. Gli dei si moltiplicano. In seno alla stessa comunità, spesso all'interno della stessa persona. Chi è emancipato? Chi responsabile? Chi capace di decidere «con la propria testa»? È succube o consapevole la ragazza francese che porta il velo? È emancipato o schiavo il redentorista che langue in una cella cinese? È cittadino o fedele l'ateo che idolatra Wall Street? Le categorie «credente» e «non credente» fotografano solo in piccola parte la realtà. Lo stesso autore deve issarsi sopra la fenomenologia del credere, costruendo un'astrazione che funzioni a prescindere, un ideale che si sottrae al giudizio della realtà.
La provocazione di Flores d'Arcais non è per questo meno stimolante: sfida il credente a dimostrarsi libero e il non credente a onorare il sogno dell'autore; riposa su un'esigenza di emancipazione, di non «indifferenza etica», che innesca una competizione virtuosa. Potrebbe mettere fuori gioco i credenti, l'autore, nella pagina finale, quando condanna l'«illusione che un Altro ci possa salvare in luogo del nostro impegno, della faticosa passione di essere cittadini». È invece una conclusione che abbracceranno molti credenti non inquadrabili nella categoria di chi ha privatizzato Dio per farsi cittadino. Perciò può servirci, la democrazia atea di Flores d'Arcais, per mettere in discussione schieramenti e ideologie. Ma non ci è utile per capire e governare un mondo che centrifuga credenti e non credenti, scompigliando ogni fede. Se prescindono da questa realtà, non ci servono né la democrazia atea, né quella religiosa.
«Corriere della Sera» del 7 ottobre 2013

Dieci regole per insegnare oggi

di Silvana Mazzocchi
Essere insegnante oggi. Un lavoro spesso precario, malpagato, trascurato. Come se educare i giovani di oggi, gli adulti di domani, fosse non una priorità, ma solo un obiettivo di secondaria importanza. Ma se le responsabilità di una scuola troppo spesso non all'altezza delle esigenze sociali sono dei governi che non sempre hanno rispettato il dovere di garantire una buona formazione, anche gli insegnanti possono e devono migliorare il loro modo di fare scuola. Si devono evolvere e assorbire le moderne tecniche della comunicazione; devono essere attenti, creativi, coinvolgenti. Ma, soprattutto, devono essere motivati, appassionati del loro lavoro, un impegno difficile e insieme fondamentale per la società.
A condividere suggerimenti, riflessioni, strategie e consigli pratici sul che e come fare è Isabella Milani con L'arte di Insegnare (Vallardi), un manuale che raccoglie tutto quello che è necessario sapere per stare bene in cattedra e per sviluppare una nuova didattica. Non pure nozioni, ma metodo e volontà, per tirare fuori il massimo da ogni studente.
Isabella Milani è lo pseudonimo di un'insegnante e blogger che ha trascorso trent'anni nella scuola e che ha ora raccolto i più validi consigli pratici da insegnante a insegnante. Ecco come gestire le classi, anche le più difficili, come attirare e tenere l'attenzione degli allievi, come conquistare l'autorevolezza indispensabile, come motivare gli alunni e garantire aiuto ai più difficili e opportunità di lavorare al meglio ai più dotati.
Isabella Milani sa che insegnare non è facile, ma preferisce puntare su ciò che "devono" fare gli insegnanti, piuttosto che scaricare ciò che non va sugli studenti o, genericamente, su genitori e società. E, semplificando al massimo i suggerimenti, riesce a fornire un manuale in grado di accompagnare per mano chiunque abbia la "passione" di stare in cattedra. A garanzia di una Scuola migliore.

Dopo trent'anni di esperienza, qual è il suo modello di scuola?
Il mio modello di scuola prevede edifici sicuri, sedie comode, aule spaziose, al massimo 20 alunni per classe, un esercito di insegnanti preparati e aggiornati, risorse da gestire per aiutare i ragazzi in difficoltà e per preparare meglio quelli che hanno maggiori capacità. È una scuola che non lascia indietro nessuno perché è organizzata per tirare fuori il meglio da ognuno.
La scuola deve essere - oggi - più seria che mai. Deve essere capace di far star bene gli alunni, per diventare un'alternativa al mondo diseducativo nel quale viviamo, per "rieducare" i bambini e i ragazzi a impegnarsi, a studiare, a faticare. Non si potrà ottenere questo finché alla scuola non verranno assegnate le risorse necessarie e agli insegnanti preparati non verrà restituito il rispetto che meritano. Soprattutto da parte dei genitori.
Nel libro consiglio agli insegnanti: prima date e poi chiedete. Vale anche per la società e per lo Stato.

Se dovesse sintetizzare i suoi consigli in un decalogo, come lo declinerebbe?
1) Prima date e poi chiedete: agli alunni date rispetto, attenzione, coerenza, comprensione. Prima voi.
2) Entrate in classe pieni di entusiasmo: l'entusiasmo è contagioso. Come la noia.
3) Ricordate che anche i ragazzi difficili sono vostri alunni: non sono maleducati, ma male educati; hanno bisogno di aiuto più degli altri.
4) Mettetevi sempre in discussione. Aggiornatevi, leggete, studiate, confrontatevi.
5) Fate sentire ai ragazzi che volete aiutarli e che vi interessano. Diteglielo.
6) Date molta importanza alle regole e rispettatele voi per primi.
7) Avere una buona autostima è essenziale: gli alunni vi vedono come vi vedete voi. Se non vi stimate non vi stimeranno neanche loro.
8) Privilegiate concetti e metodi: i puri contenuti si trovano anche nel web.
9) La lezione perfetta è quella che costruite insieme agli alunni. È un dialogo, non un monologo. Non si può apprendere senza partecipare.
10) Per essere autorevoli dovete essere preparati e guadagnarvi la fiducia e il rispetto dei ragazzi.

Qual è l'identikit dell'insegnante ideale ai nostri giorni?
E' lo stesso di sempre: già Quintiliano, quasi duemila anni fa, parlava di un insegnante serio ma non cupo, affabile ma non sguaiato, che non doveva avere i vizi che non ammetteva negli altri, che doveva essere disponibile, spiegare in deve conoscere anche il mondo nel quale vivono i suoi alunni: non può fingere che il mondo non sia cambiato.
Un insegnante deve essere un insegnante, un educatore disponibile a vedere al di là di quello che il ragazzo appare: non un amico, non uno psicologo, non un genitore, ma una persona che vuole aiutare l'alunno a tirare fuori il meglio di sé, motivandolo, trasmettendogli il desiderio di imparare. Deve insegnare ad imparare. Non basta insegnare. Bisogna voler insegnare. Non si può diventare insegnanti per ripiego.
Un insegnante autorevole deve avere tutti questi requisiti: deve essere giusto, onesto, coerente, forte, comprensivo, gentile, rispettoso, equilibrato, serio e misurato. Un insegnante deve essere preparato, non solo sulla sua materia, ma anche su tutto quello che riguarda le problematiche dei ragazzi.
«La Repubblica» del 3 ottobre 2013

L'utopia moderna di Dante

Esce la «Monarchia» nella edizione commentata delle opere pubblicata da Salerno
di Luciano Canfora
Immaginava un impero universale come garanzia di pace
La Monarchia, che non è solo la più compiuta delle opere dottrinali di Dante, ma anche la più moderna, fu messa dalla Chiesa all'Indice dei libri proibiti, nel primo «indice» elaborato dal Sant'Uffizio nel 1559. La ragione di ciò è molto semplice: ad una lettura disincantata appare evidente che il grande poeta cristiano del Medioevo, che aveva messo la teologia in poesia allo stesso modo in cui Lucrezio aveva messo in poesia la fisica epicurea, si schierava - col suo trattato politico - contro l'ingerenza della Chiesa nei confronti del potere laico e proclamava la totale uguaglianza e parità delle due autorità. Pur consapevoli del rischio di frettolosi cortocircuiti, possiamo ben collocare quel trattato al vertice di una nobile, ma non folta tradizione rappresentata emblematicamente dalla formula cavouriana «libera Chiesa in libero Stato». Quel celebre e davvero memorabile discorso parlamentare di Cavour, malvisto dal sanfedismo del tempo suo, era in realtà sommamente rispettoso della dignità e della libertà della Chiesa. È storia nota come la Chiesa abbia impiegato moltissimo tempo a comprendere questo e a prenderne atto e ad agire di conseguenza: agevolata in ciò dalla definitiva perdita del potere temporale, ma rallentata in tale processo dal diverso e spesso altalenante orientamento dei pontefici volta a volta regnanti. I quali - in quanto sovrani assoluti e depositari perciò di poteri vastissimi - possono imprimere rapide e radicali inversioni di rotta. Come vediamo ancora oggi.
Resta il fatto che il cuore di Dante batte per l'impero (si passi l'espressione metaforica). Nel primo libro di questo trattato sulla monarchia, Dante dimostra che la monarchia universale è necessaria al benessere terreno in quanto permette, tramite la pace universale che ne è il portato, il fine supremo: l'attuazione e il pieno dispiegamento dell'intelletto in ambito speculativo e in ambito pratico. Nel secondo libro rivendica, come già nel Convivio, al popolo romano il diritto all'impero. Nel terzo affronta il tema più delicato: la monarchia universale trae il suo diritto e la sua legittimità direttamente da Dio, non attraverso la mediazione papale, non ha cioè bisogno del «Vicario». E la nota ancora più audace, che dà il tono e il senso all'intero trattato, consiste nel proclamare che il fine naturale dell'uomo - cioè la perfetta moralità sorretta dalla filosofia - è autonomo rispetto al fine soprannaturale che a sua volta consiste nella felicità eterna, verso cui l'uomo è guidato dalla «rivelazione». Come l'impero è autonomo dalla Chiesa, così la ragione lo è rispetto alla fede.
Questo impianto teorico spiega bene perché a Giustiniano, cioè all'imperatore cesaropapista per eccellenza, venga riservato un posto di così grande spicco nel Paradiso di Dante e a lui tocchi di tessere l'esaltante elogio di Giulio Cesare. Elogio che stride con il privilegiato trattamento ammirativo riservato al nemico implacato di Cesare, cioè Catone Uticense, quale guardiano del Purgatorio.
Ma soprattutto non sfuggirà la forte carica utopica che è racchiusa in tutto il trattato: l'idea di una pace universale conseguente all'unico governo universale. Tale governo però viene concepito non già come sostitutivo dei molteplici poteri statali e comunali già esistenti, ma è sovraordinato ad essi. Non si tratta di «un governo di tutti i popoli fusi in un solo Stato, ma di una suprema giurisdizione, fatti salvi gli Stati particolari con proprie leggi e propri governi» (Luigi Russo). Non è chi non veda in tale concezione l'utopia anticipatrice di una istanza che sempre fu viva, e che al tempo nostro è antidoto indispensabile all'arroganza di singole potenze inclini ad attribuirsi unilateralmente il ruolo di gendarmi del mondo.
«Corriere della Sera» del 7 ottobre 2013

Perché (ora) sono inutili più fondi alla scuola

Stipendi bassi e poco peso alla meritocrazia: incapaci di attrarre gli insegnanti migliori
di Andrea Ichino
L’Italia investe molto nell’istruzione, ma spende male. Studiamo più ore e siamo meno bravi degli altri
I risultati della prima indagine Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competence) sono una doccia fredda per chi pensa ancora che la scuola italiana sia, nonostante tutto, migliore di quella di altri Paesi.
Quando il confronto non si basa su aneddoti («mia figlia ha frequentato un anno all’estero ed era la piu brava ...»), ma sui risultati di questionari uguali in 24 Paesi e ai quali hanno risposto campioni rappresentativi della popolazione di età compresa tra i 16 e i 65 anni, il quadro è disastroso. Siamo in fondo alla classifica sia per le competenze linguistiche sia per quelle matematiche. E il disastro riguarda non solo i giovani ma anche gli anziani, a dimostrazione del fatto che i problemi della scuola italiana derivano da lontano, dal suo impianto dirigistico e centralizzato che deve essere radicalmente cambiato. Non continuiamo a illuderci sulle virtù del liceo classico!
Agli italiani viene invece costantemente detto che è solo un problema di risorse destinate alla scuola, ma i dati Ocse (Education at a Glance ) esaminati dal Rapporto del Forum «Idee per la crescita» (vedi e-book del Corriere della Sera) mostrano una realtà diversa.
Nel 1999-2000 la spesa annua per studente era maggiore in Italia rispetto alla media dei Paesi Ocse in tutti e tre i livelli di istruzione: pre-scolare, primaria e secondaria. Ad esempio nel caso della secondaria, lo Stato italiano spendeva 7218 dollari per studente mentre la media Ocse era 5957 dollari (e il confronto è in termini reali, ossia a parità di potere d’acquisto della moneta). È vero che i governi Berlusconi hanno tagliato pesantemente la spesa per l’istruzione e lo hanno fatto nel modo peggiore possibile, ossia colpendo alla cieca non solo chi meritava di essere punito, ma anche chi con fatica e senza riconoscimenti teneva in piedi la scuola italiana. Tuttavia, nel 2008-2009 la spesa per studente secondario italiano era comunque di 9112 dollari, di poco inferiore alla media Ocse di 9312. E in ogni caso, non sono certo questi tagli la causa della pessima performance dei quarantenni e cinquantenni nella indagine Piaac.
Ha ragione chi nota che lo Stato italiano spende poco per la scuola in proporzione al Pil e in proporzione alla spesa pubblica totale, ma quello che conta per valutare se le risorse sono scarse o sufficienti è la spesa per studente. E il motivo per cui questa spesa, nonostante tutto, è alta in Italia deriva dal forte calo demografico che ha caratterizzato il nostro Paese. Lo Stato italiano non spende poco per i suoi studenti, spende male! E per questo la decisione recente del governo Letta di aumentare i finanziamenti alla scuola, non è affatto rassicurante. Se prima non impariamo a spendere bene, è inutile versare più risorse nella scuola: sarebbe come trasportare acqua con un secchio bucato.
Si sente però anche dire che siano pochi gli insegnanti in Italia o scarse le ore di insegnamento. Anche in questo caso i dati Ocse presentano una realtà diversa. Nella scuola secondaria c’erano in media 10,3 studenti per insegnante in Italia nel 1999-2000 contro una media Ocse di 14,3. Le cifre corrispondenti per il 2009-2010 erano 12 e 13,8. Le ore obbligatorie di insegnamento erano 1020 in Italia nel primo periodo contro una media Ocse di 935 (1023 e 899 nel secondo periodo). I dati sono simili per gli altri livelli di istruzione.
Se le risorse economiche, gli insegnanti e le ore di insegnamento per studente non sono inferiori alla media Ocse, perché allora siamo ultimi nella indagine Piaac?
Viene naturale chiedersi se lo Stato sia in grado di attrarre i laureati migliori alla professione di insegnante dando loro l’autonomia di cui hanno bisogno per disegnare meglio l’offerta formativa e spendere in modo più efficace le risorse.
Gli insegnanti italiani sono pagati poco in rapporto al Pil pro capite, rispetto a quanto sono pagati in media gli insegnanti nei Paesi Ocse. E a questo si aggiunge una lunga gavetta di precariato in cui conta soprattutto l’anzianità e non il merito, per diventare docenti. È difficile pensare che in questo modo si possano attirare i laureati migliori (soprattutto nelle materie scientifiche e tecniche) a meno che non si tratti di persone che abbiano una vera passione totalmente disinteressata per questo mestiere (e per nostra fortuna ce ne sono).
Eppure, ad ogni concorso per la scuola il numero di candidati è sempre largamente superiore al numero di posti disponibili. È un fatto per certi versi sorprendente, ma è facile ipotizzare che non siano i migliori laureati a essere attratti da questa professione, che paga poco ma chiede anche poco (l’orario di lavoro di un insegnante italiano è inferiore alla media Ocse) e assicura il posto fisso.
All’iniquità di una situazione che punisce chi lavora con impegno e premia invece chi la prende come una comoda rendita, bisogna rapidamente porre fine. Lo Stato italiano ha ampiamente dimostrato di non essere in grado di farlo. È bene allora che, pur conservando il ruolo di finanziatore e regolatore delle scuole pubbliche, lasci ad altri il compito di gestirne le risorse umane e finanziarie.
«Corriere della Sera» del 10 ottobre 2013

08 ottobre 2013

«Si può vivere bene a 90 anni. Il segreto è ritrovarsi in armonia con la memoria»

Il sociologo: il tempo che scorre e il significato dell'esistenza
di Domenico De Masi
Da Sofocle ai giorni nostri: il viatico per la serenità
Sempre un suicidio impressiona, perché ha la forza di parlare, contemporaneamente, sia al nostro inconscio, sia alla nostra sfera cosciente. Ha la forza di confonderci perché le domande che pone sono più delle domande cui risponde. Comunque il suicidio esprime, in chi lo consuma, un bisogno inconscio di entrare nel mito, di trovare, attraverso la morte, un'identità più forte di quella che si attingerebbe morendo involontariamente. Colpisce soprattutto il suicidio dei bambini (una triste novità dei nostri tempi) perché si sottraggono all'esperienza, e il suicidio dei vecchi perché ci sottraggono la memoria. Un vecchio che si uccide crea un vuoto panico perché distrugge il tesoro dei suoi ricordi: quel patrimonio denso di consapevolezze dal quale, secondo i Greci, nasceva la storia e l'architettura, la poesia, la danza e tutte le altre arti, fondate sui valori positivi del diletto e della virtù.Un vecchio si suicida quando, nell'eterno conflitto tra eros e thànatos, nella lotta tra questi due giganti che - secondo Freud - «le nutrici cercano di placare cantando una ninna nanna che parla del cielo», vince la stanchezza di vivere. Per evitare questa tentazione di una fine traumatica, occorre riconciliarsi con la propria memoria, con la propria cerchia di parenti ed amici, con il significato stesso della vita. Sofocle aveva 84 anni quando decise, per nostra fortuna, di insegnarcene la strada. Venti anni prima, nel pieno della sua maturità, aveva scritto l'Edipo re, in cui l'eroe, venuto a conoscenza dei crimini commessi pur senza saperlo, si cava gli occhi e prende la via dell'esilio. Dopo avere vagato tutta la vita, amorevolmente assistito dalle figlie Antigone e Ismene, giunge in un boschetto non lontano da Atene. E qui, venti anni dopo, Sofocle ambienta Edipo a Colono, un inno alla sua e alla nostra vecchiaia.
La riflessione di una vita ha portato Edipo a concludere che non basta la responsabilità per essere in colpa. Quando uccise il padre e sposò la madre, non conosceva la loro identità, dunque non si macchiò di nessun peccato e, accecandosi, espiò molto più di quanto avesse dovuto. L'esperienza e la riflessione gli hanno fatto capire che la colpa non risiede nell'azione, ma nel cuore.
Il vecchio re, finalmente consapevole della sua innocenza, è in grado di capire, e soprattutto di far capire a chi lo circonda, di quale ordine morale abbiamo bisogno vivendo in una società confusa. Per conseguire questa capacità di orientamento, ogni vecchio deve venire a patti con la propria esperienza, per quanto terribile essa sia. È questo il momento in cui, senza la forza che ci può venire dagli amici e dai parenti, l'auto-distruttività rischia di prevalere. Secondo l'oracolo, la terra che avrebbe accolto il corpo di Edipo sarebbe stata baciata dalla vittoria. Edipo si appoggia al braccio caritatevole delle figlie e va a morire, serenamente, dentro le mura accoglienti di Atene. Qui il vecchio Sofocle ci offre il viatico per la felicità. Riconciliato con se stesso, consapevole della forza miracolosa contenuta nel suo corpo e del dono che egli fa offrendo se stesso alla città amica, Edipo, che in un momento disperato si era tolto la vista, ora dona agli ateniesi la speranza di un futuro trionfante e pacificato. La tragedia termina raccontando il distacco di Edipo dalla sua riconquistata comunità: «L'ha preso con sé un messaggero degli dei; o si è aperto per lui, benignamente, senza dolore, il vuoto della terra. Se n'è andato senza gemiti, senza affanni, senza sofferenza. Una cosa meravigliosa!».
Qualche tempo fa ho ascoltato un ministro che, per giustificare la mancanza di posti di lavoro, aizzava una folla di giovani contro i vecchi, responsabili, a suo dire, di avere scialacquato le risorse proprie e dei propri figli. Credo di non avere mai assistito, nella mia vita, a un peccato più grave di quello commesso impunemente da questo ministro privo di pietas, che diabolicamente contrapponeva le generazioni invece di ricomporle in una collettività armonica. In una società disorientata, dove si è smarrito il discrimine tra bene e male, bello e brutto, vivo e morto, locale e globale, nomade e stanziale, scienza e fede, solo la saggezza della vecchiaia può ripristinare questa armonia.
«Corriere della Sera» del 7 ottobre 2013

Questione di umanità

La morte che Lizzani si è dato: il vero nodo
di Alessandro Zaccuri
Parliamo sempre di vita, quando parliamo di morte. Il problema non è l’ultimo istante (un respiro che si spezza, un salto nel vuoto), ma l’innumerevole serie di istanti che lo precedono. Solo la paziente costruzione dei giorni riesce ad attribuire un senso all’ultimo giorno, in cui tutto sembra andare perduto. Allo stesso modo, non si può ragionare di morte se prima non ci si capisce sulla vita. È una questione non più rimandabile, anche dal punto di vista della convivenza civile, perché è una questione di democrazia e la democrazia è anche l’arte di venire incontro al più debole, all’inerme. Come la malattia, e spesso insieme con essa, la vecchiaia è una di queste condizioni estreme, al cospetto delle quali ci si gioca tutto. Coraggio, bellezza, fantasia: ognuno compili il suo elenco di virtù. Quel che conta è sapere che verrà un momento in cui si sarà messi alla prova e bisognerà dimostrare – a se stessi, anzitutto – che non si sta spacciando moneta falsa. Che quelle virtù, insomma, sono autentiche, sono per sempre. Non sono buone solo per i luminosi pomeriggi d’estate, ma anche per le fredde notti d’inverno.
Il guaio è che la vecchiaia, oggi, fa paura, imbarazza, ripugna, tant’è vero che si cerca continuamente di camuffarla sotto una coltre di eufemismi. Il guaio ulteriore, e supremo, è che anche i vecchi ormai non sopportano più la vecchiaia. Non tutti, d’accordo, però basta una notizia terribile come quella di cui si discute in queste ore per risvegliare un’ondata di insofferenza. Non verso la morte, invocata anzi come soluzione, ma verso la vita. Meglio, verso quella particolare forma – fragilissima e misteriosa – che la vita assume con l’avanzare dell’età. Il regista Carlo Lizzani se n’è andato all’età di 91 anni, lo sappiamo. Ha "staccato la chiave", per usare l’espressione del suo biglietto d’addio. E allora eccoci qui, ancora una volta, a discutere sul diritto alla morte e sulle relative "prestazioni" che lo Stato sarebbe obbligato a erogare per non privare di questo presunto diritto nessuno dei suoi cittadini. Con il dovuto rispetto per tutti, ma l’impressione è che in circostanze come questa si preferisca invocare la norma per evitare il confronto sui valori, e che si fabbrichi una nuova ideologia per sfuggire al rapporto con la realtà.
Non è, per essere chiari fino in fondo, una questione di fede, quanto piuttosto di mera, nuda umanità. Una questione di fede nell’uomo, se si preferisce, ma nell’uomo tutto intero, comprese le sue molte debolezze. Forse invecchiare sarebbe più facile, se non si fosse immersi nella convinzione che solo la giovinezza – non importa se artificiale e illusoria – vale la pena di essere vissuta. Non si pretenderebbe il diritto alla morte, se ci si ricordasse più spesso di essere mortali. Non ci si vergognerebbe della propria vecchiaia, se si imparasse a riconoscere qualcosa di sé (qualcosa di umano, e cioè di comune e condiviso) nei vecchi che via via abbiamo incontrato. Non è un cammino facile e proprio per questo è esistita una lunga tradizione di meditazioni sulla senilità e di riflessioni che invitavano ad "apparecchiarsi" alla morte.
Vero è che, su questo, gli artisti sono sempre stati scettici. L’inglese Mervyn Peake, per esempio, ci ha lasciato una magnifica manciata di versi, nei quali sostiene che nessun uomo è mai a suo agio con «le cose più grandi». «Per morire non c’è maestro – scriveva – e per nascere neppure». Erano parole dettate dalla baldanza della maturità. Peake morì nel 1968, a soli 57 anni, consumato da un parkinsonismo precoce e inarrestabile. A fianco c’era la moglie, i figli erano con lui. Magari aveva ragione, quando sosteneva che non si impara mai ad amare. Si può imparare, però, a essere amati. Anche in vecchiaia, anche nella malattia.
«Avvenire» dell'8 ottobre 2013

06 ottobre 2013

Resuscitare Darcy (e i sogni d’amore)

di Maria Serena Natale
Poiché la reazione istintiva di fronte a una perdita è la rimozione, rimuoviamo. Non parliamo dell’uomo perfetto, ironico e ombroso, dolce ma discreto, remoto e appassionato che soggiace al fascino dell’imbranata cronica. Sorvoliamo sulla sua scomparsa dal diario della single più famosa del mondo che avevamo lasciato trentenne e sovrappeso avviata verso una maturità di delizie e ritroviamo una 51enne sola, con due figli e un equilibrio psichico pericolosamente legato ai messaggi di un improbabile amante 29enne. In attesa di leggere le ragioni dell’imputata Helen Fielding, l’ideatrice di Bridget Jones che dalla prossima settimana sarà nelle librerie britanniche con il terzo capitolo della saga e intanto lascia trapelare poche risicatissime anticipazioni, s’impone una domanda: perché l’insostenibile normalità della vita adulta di Bridget lascia tanta amarezza?
Il successo dei primi due romanzi — 15 milioni di copie vendute e trasposizioni cinematografiche di culto — si basava sul gioco di specchi che condensava nella protagonista le insicurezze inconfessate di una generazione spezzata tra le durezze della vita indipendente e la nostalgia dell’amore romantico.
Bridget-Renée Zellweger ingrassava e guardava film sdolcinati come milioni di trentenni alle prese con gli eterni archetipi del maschio: il fascinoso irraggiungibile pieno di problemi — Hugh Grant — e l’algido imperturbabile, profondo e premuroso — Colin Firth. Anche se dimagriva con fastidiosa facilità e poteva contare su paracadute che non sempre si aprono nella realtà, era una di noi. Con un pizzico d’incanto.
Ritrovarla vent’anni dopo incollata al cellulare in attesa dei messaggi del giovane Roxster; presa fra Twitter, Facebook, Instagram e WhatsApp; persa tra bimbi dimenticati a scuola e cinquantenni in piena crisi adolescenziale… non dà lo stesso calore. C’è la realtà riflessa ma manca il sogno, quella brezza leggera che solleva piano e avvicina alle stelle, la certezza sopita di una gioia a venire. Quel sentimento di fascinazione tanto più necessario nei momenti di crisi.
Biancaneve, Alice, Cenerentola… i remake in chiave pulp-noir-pop con principesse, fatine e cacciatori buoni finiscono regolarmente in cima al gradimento di un pubblico che non è mai stato così disincantato eppure bisognoso di girandole di luce, lotte epiche, amori eterni, di fiabe post-moderne capaci di esercitare il potere ipnotico e balsamico delle grandi costruzioni narrative con il loro carico di inquietudini e conflitti. Sarà anche manipolabile e consolatorio ma, come in psicanalisi e nella poesia, il sogno racconterà sempre di bisogni inappagati e aspirazioni profonde, di un oltre che può diventare forza di cambiamento.
Le stesse monarchie non hanno mai goduto di tanta popolarità come nell’epoca della democrazia digitale: tra abdicazioni, matrimoni, scandali e incoronazioni in Gran Bretagna, Norvegia, Svezia, Danimarca, Spagna e Paesi Bassi attraggono attenzione mediatica e affetto sincero. Non è il risvolto politico che appassiona ma il velo lungo di Kate all’altare, quel mondo lontano di carrozze, fregi, stemmi e ricami; i petali e le briciole al popolo, lo spettacolo di prerogative arcane prive di qualsiasi residuo della quotidiana lotta per la sopravvivenza. Persino la normalità inscenata dai film che negli ultimi anni hanno tentato di restituire l’intimità della vita di corte funziona solo finché rafforza il mito, l’alterità percepita.
È la forza originaria della monarchia, impalcatura di potere e ordine sociale che si fonda sul mistero e trova legittimazione nel diritto di sangue e nel volere divino prima, nella tradizione poi.
Costitutivamente razionale e priva di quell’alone di sacralità, la repubblica non ha la stessa presa emotiva sulle masse. D’altronde quando la corona annulla le distanze dal mondo «borghese» nel tentativo di modernizzarsi, perde mordente. È il caso dei reali svedesi, che negli ultimi 25 anni sono scesi dal 90 al 60 per cento dei consensi.
Quale incanto potrà mai esserci negli sms di Roxster?
Pur con le sue nevrosi e insoddisfazioni, il linguaggio da maschiaccio e la smania di sdrammatizzare, Bridget era una principessa che credeva nel grande amore e manteneva una purezza d’altri tempi. Non a caso era riuscita a lasciarsi alle spalle Daniel-Hugh Grant per continuare a cercare «qualcuno di più straordinario».
Lui era lì, disegnato sul modello austeniano del gentiluomo di Orgoglio e Pregiudizio, nobile d’animo prima che di casato, in piedi nella neve, elegante, serio e devoto a una giovane fragile donna, «mi piaci così come sei»… I giornali inglesi che hanno letto in anteprima il seguito della storia dicono sia morto.
Non è leale, rivogliamo Mark Darcy.
«Il Corriere della Sera» del 5 ottobre 2013

05 ottobre 2013

Scienza web, c'è una fabbrica delle "bufale" a pagamento

Una clamorosa inchiesta di Science porta alla luce i fumosi meccanismi che si nascondono dietro alla selva delle riviste accademico-scientifiche open access: uno studio privo di fondamento, realizzato ad hoc e riempito di errori elementari, è stato accettato nel 60% dei casi. Basta saldare il bonifico
di Simone Cosimi
Un autentico Far West fra le riviste accademico-scientifiche online cosiddette open access. I cui contenuti sono cioè disponibili più o meno gratuitamente al pubblico, specializzato o meno. Una situazione in mano al lucro, fatta di tante ombre e pochissime sicurezze, portata alla luce da un'inchiesta basata su uno studio scientifico del tutto privo di fondamento. A firmare sia l'inchiesta che l'operazione sotto copertura, il collaboratore di Science e biologo molecolare John Bohannon. La finta ricerca, dedicata al presunto effetto di alcune molecole estratte dai licheni sulle cellule tumorali, è stata volontariamente costellata di errori elementari. Tanto che qualsiasi recensore "con non più di una conoscenza in chimica da scuola superiore e l'abilità di capire lo sviluppo dei dati" avrebbe dovuto cestinarla in un batter d'occhio. Peccato non sia andata così: negli ultimi otto mesi, fra gennaio e agosto, ben 157 riviste online su 304 hanno accettato di pubblicare la clamorosa bufala scientifica. Spesso senza richiedere alcuna modifica al misterioso autore. La ricerca fittizia architettata dal cronista del magazine è stata infatti respinta da soli 98 comitati scientifici mentre devono ancora rispondere all'appello 49 testate. Di queste, 29 sembrano abbandonate a sé stesse e la restante ventina ha fatto sapere al giornalista di essere ancora in fase di valutazione.
L'inchiesta, pubblicata su Science, non ha lasciato nulla al caso. Bohannon ha realizzato versioni superficialmente diverse dello stesso paper - così si chiamano i documenti scientifici che vengono sottoposti all'approvazione delle riviste specializzate - pur tenendo fermi i contenuti, le conclusioni e i dati. "Il paper - spiega nel suo lungo servizio - ha preso questa struttura: la molecola X estratta dalle specie Y di licheni inibisce la crescita delle cellule tumorali Z. Per sostituire queste variabili ho creato un database di molecole, licheni e cellule cancerogene e ho scritto un programma per computer al fine di generare documenti diversi fra loro. A parte queste differenze, il contenuto scientifico di ogni paper è identico". Il documento contiene in particolare un paio di esperimenti segnati da stravaganti inesattezze: uno è pieno di errori, l'altro, in teoria dedicato ad approfondire come l'uso di quelle molecole renda più sensibili le cellule alla radioterapia, perfino privo di conclusioni. Fra l'altro, Bohannon ha curato nel dettaglio ogni aspetto dell'operazione, visto che ha inoltrato le centinaia di proposte di pubblicazione, al ritmo di una decina a settimana, sotto falsa identità. Ha ideato infatti un ricercatore africano di fantasia, battezzato Ocorrafoo M. L. Cobange, in forze all'altrettanto fantomatico Wassee Institute of Medicine. Come se non bastasse ha curato anche l'aspetto linguistico, dando al documento - grazie a una serie di risciacqui su Google Translate - un tono grammaticalmente corretto ma che desse l'idea di un autore non madrelingua inglese. Insomma: c'erano tutti i segnali per sbugiardarlo a una prima e perfino parziale lettura della sua proposta.
Quanto ai destinatari, sono finite nel mirino riviste formalmente dedicate alle scienze farmaceutiche o alla biologia, alla medicina generale e alla chimica. Nomi come European Journal of Chemistry o Journal of International Medical Research. Testate all'apparenza affidabili e spesso legate, a scorrere la catena di controllo, a titanici gruppi industriali come Elsevier, il più grande editore mondiale in ambito medico, Sage o Wolters Kluwer. E invece spesso contraddistinte da board scientifici piuttosto oscuri, sedi misteriose e magari localizzate nei Paesi del Terzo mondo. Un terzo addirittura in India, che sembra il vero motore di questo genere di business della bufala, o almeno dell'imprecisione. Uffici e persone con cui è difficile entrare in contatto. Se non, questo il dato che accomuna il settore, nel caso del pagamento della tassa di pubblicazione. Quando una ricerca viene ritenuta affidabile e ne viene dunque deliberata la pubblicazione, il ricercatore è infatti tenuto a pagare un obolo che, nel caso di Bohannon, oscilla fra i 150 e i 3100 dollari. D'altronde è il modello finanziario sul quale si regge la Babele della scienza open access: "Dalle umili e idealistiche origini, circa un decennio fa, le riviste scientifiche open access si sono trasformate in un'industria globale, sorretta dalle tasse di pubblicazione richieste agli autori piuttosto che dai tradizionali abbonamenti - ha scritto Bohannon - molte di queste sono torbide. L'identità e la residenza dei direttori e dei revisori, così come i finanziamenti dei loro editori, sono spesso appositamente oscurati". In sostanza, mentre le riviste scientifiche tradizionali si affidano a salati e spesso inaccessibili abbonamenti, quelle a libera consultazione vivono di questo scivoloso meccanismo. Che conduce a una facile equazione: più pubblicazioni uguale più guadagni.
"Se fossero finite nel mirino le classiche riviste in abbonamento - ha detto David Ross, biologo dell'università della Pennsylvania che più di un anno fa ha dato a Bohannon lo spunto per l'indagine - credo fortemente che si sarebbero ottenuti gli stessi risultati. Ma senz'altro l'open access ha moltiplicato questa sottoclasse di riviste e il numero delle ricerche che pubblicano. Tutti pensiamo che la consultazione libera sia un'ottima cosa, la questione è come arrivarci davvero". Risultati sconfortanti, dunque, dal test: per il 60 per cento dei paper sottoposti al giudizio delle varie riviste non sembra esserci stata infatti alcuna revisione collettiva. In caso di rigetto la notizia può essere magari letta positivamente, ma nei tanti via libera collezionati - la regola, non l'eccezione - significa davvero che nessuno ha neanche letto lo sconclusionato documento. Anche quando qualche modifica è stata richiesta, ha raccontato il biologo, si è trattato spesso di spicciole questioni di formattazione, modifiche testuali, allungamento dell'abstract o di fornire qualche immagine in più. Appena 36 comitati hanno mosso obiezioni sulla sostanza scientifica della ricerca firmata dal professor Ocorrafoo Cobange.
«La Repubblica» del 5 ottobre 2013