04 settembre 2013

Chi ha ucciso il liceo classico?

di Roberto I. Zanini
Tutto è cominciato quando hanno ucciso il liceo classico; quando si è cominciato a pensare che il principale compito della scuola fosse di fornire uno sbocco lavorativo ai giovani e, di seguito, quando si è pensato che la scuola dovesse essere pensata in funzione delle esigenze dei giovani, dei loro gusti, delle loro aspettative. È l’immagine del fallimento del sistema scolastico italiano che emerge leggendo La scuola che vorrei (Bruno Mondadori, pp. 122, euro 15), l’ultimo libro di Adolfo Scotto di Luzio, docente di Storia della Pedagogia all’Università di Bergamo, nonché esperto dei problemi della scuola e dell’insegnamento. E non si tratta di un semplice grido d’allarme. È come se si dicesse che l’intero sistema culturale e formativo italiano è all’ultima spiaggia e se non si cambia registro c’è il più che probabile rischio del fallimento totale della nostra società civile.

Eppure sono decenni che si parla di riforma ...
«Ed è giunto il momento di sfatare questo mito così per come si è costituito. A partire dagli anni ’60 si è cominciata a diffondere l’idea che la scuola fosse in crisi. Un’idea di crisi permanente che è stato l’espediente per smantellare le buone basi sulle quali si era retta la scuola e che si erano andate formando fra l’unità d’Italia e la Riforma Gentile».

Smantellare?
«Sì. Un vero e proprio sovvertimento progressivo, tanto che la scuola oggi è caduta in una crisi di senso, che mette in gioco la sua essenziale funzione politica e civile».

Ma qual è il ruolo della scuola nella società?
«Ciò che conta non è il ruolo nella società, ma la sua funzione politica e civile. La scuola è chiamata ad assolvere un ruolo nel progetto di costruzione della comunità politica».

Può essere più esplicito?
«La scuola deve saper porre le basi della convivenza civile, del nostro essere comunità. Invece si pensa che la scuola serva ad assecondare gli interessi dei singoli, le loro ambizioni di carriera e di guadagno economico creando sbocchi di lavoro. Ma se non c’è la scuola non c’è la nazione e viceversa».

Vuol dire che se il suo obiettivo diventa creare sbocchi di lavoro la scuola fallisce?
«Bisogna distinguere due aspetti. Ogni singolo studente va a scuola perché persegue interessi personali. Ma la scuola non può essere pensata per quegli interessi perché altrimenti perde il suo ruolo di istituzione essenziale che ha a che fare con le ragioni della Polis. Compito della scuola è di educare la persona attraverso la cultura».

In una società come la nostra se ne è perso il significato: cosa significa educare?
«Significa formare la persona, nutrirne la personalità, dare la capacità al giovane di stare autonomamente nel mondo, educandolo al giudizio, cioè a quella capacità che ci permette di distinguere fra ciò che è bello e meritevole della nostra ammirazione e ciò che deve essere senz’altro rifiutato».

Il relativismo dominante impedisce un simile approccio.
«Se nessuno ha più il coraggio di dire quali sono i valori che contano tutto diventa relativo. Ma possiamo senz’altro affermare che la scuola italiana è stata capace di assolvere alla sua funzione fino a quando si è fondata sulla cultura umanistica».

Perso quel punto di riferimento si è persa anche la scuola?
«Una crisi che è cominciata negli anni ’60 e si è acuita con la crisi della Repubblica degli anni ’90, quando sono state messe in discussione le basi culturali della Repubblica tirandosi dietro le eredità che ci venivano dal passato».

Lei scrive che bisogna liberare la scuola dalla tirannia dei giovani.
«In questo Paese i giovani sono diventati un pretesto, un artificio retorico. Ma l’idea che la scuola si debba costruire sulle preferenze dei giovani, su ciò che piace a loro è un vero assurdo che si è trasformato nel pregiudizio ideologico della scuola aperta al nuovo, alla tecnologia. Ma in questo modo non fa che aggravare la sua crisi, perché abdica dalla sua funzione educativa. I giovani vanno educati e sono gli adulti gli unici abilitati a educare».

Ma la crisi educativa parte proprio dall’incapacità di almeno un paio di generazioni di adulti di assolvere a questo ruolo.
«Ed è giunto il momento che gli adulti si assumano la responsabilità della loro crisi culturale, che è spaventosa. Quando si parla di scuola non è in gioco un ingranaggio burocratico, una tecnica pedagogica da mettere a punto, ma occorre partire da una seria riflessione su cosa significhi essere italiani e su cosa significhi educare giovani italiani».

Insomma, manca un progetto culturale.
«Abbiamo mortificato il liceo classico che era il fiore all’occhiello del nostro sistema scolastico e sono nati tanti licei con percorsi di studio sempre più generici. Abbiamo abolito la scuola di eccellenza sostituendola con un’idea vaga e patetica di licealità. Il liceo classico era il frutto di un’idea di scuola alla quale avevano contribuito sia l’identità laica e liberale che l’identità cattolica; un’idea di scuola che garantiva che le élite del Paese si potessero formare sul piano della scuola pubblica e allo stesso tempo consentiva a chiunque non avesse altra ricchezza che il proprio talento di frequentare una scuola di qualità. La falsa ideologia democratica che ha guidato le riforme degli ultimi trent’anni ha tolto ai poveri una scuola di grande valore autorizzando i ricchi a comprarsi la scuola migliore. E il discorso sulla meritocrazia non ha alcun senso perché non ci sono i luoghi dove applicarla, non ci sono i contenuti. Gli stessi docenti venendo da un simile percorso depotenziato finiscono per aggravare la situazione. È il risultato paradossale di un Paese che ha demolito il proprio sistema di istruzione. La riprova sono i flussi scolastici con sempre più giovani del Sud che vanno a scuola e all’università al Nord e i giovani del Nord che se possono vanno all’estero».
«Avvenire» del 3 settembre 2013

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