24 settembre 2013

Alla ricerca del nome di Dio

di Vittorio Possenti
Dio rappresenta la più grande e misteriosa parola del linguaggio umano. In quanto grande si ripercuote in echi infiniti, in quanto misteriosa ci sfugge costantemente tra le mani. Come dire Dio? Come raggiungere con la parola e il concetto qualcuno che abita in un segreto inaccessibile? Come accedere al silenzio in cui egli abita? Appare certamente arduo raggiungerlo attraverso il linguaggio pubblico in cui spesso risuona il "si dice" della chiacchiera quotidiana. Forse queste quasi ovvie considerazioni ci potrebbero condurre a pensare che essere atei sia in fin dei conti la scelta migliore e più agevole, quella più coerente.
Eppure, se assumiamo il termine ateismo nel suo schietto significato, ossia fare a meno totalmente di Dio e innescare una battaglia contro la sua stessa idea (antiteismo), abbastanza curiosamente si può notare che il completo ateismo è una posizione nel complesso rara, ma soprattutto ardua per chi la pratica. Vorrei infatti sostenere che, mentre gli "atei pratici", cioè coloro che vivono come se Dio non ci fosse, sono abbastanza diffusi e nella loro posizione esistenziale non si pongono troppo domande, l’ateismo teorico convinto e direttamente avverso a Dio è infrequente. Esiste certo, ma non è così esteso come talvolta pensiamo: in numerosi casi la posizione atea si palesa piuttosto come negazione radicale e attacco alla religione. I nuovi atei degli ultimi 15 anni (R. Dawkins, D. Dennett, M. Onfray, Ch. Hitchens) sembrano aver preso di mira almeno altrettanto la religione che Dio, e forse più la prima. Il titolo di un noto volume di Hitchens suona: «Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa». Balza agli occhi che nei confronti di Dio si impiega un linguaggio meno violento e sprezzante che nei confronti della religione. Naturalmente può darsi che questa differenza sia introdotta per convenienza, per non "aggredire" troppo violentemente il lettore. Propendo per una risposta diversa, quella per cui i nuovi atei più o meno consapevolmente desiderano lasciare aperta una possibilità: la possibilità di Dio. Forse questo era il senso recondito delle domande sollevate da Eugenio Scalfari, ed è il senso esplicito della lettera di papa Francesco. In essa si dice che la possibilità di Dio è il Verbo incarnato, Gesù di Nazareth, incontrato nella concreta comunione di fede vissuta nella Chiesa. Sovviene una gran frase di Pascal: «Non solo noi non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù Cristo, ma non conosciamo noi stessi se non per mezzo di Gesù Cristo; non conosciamo la vita, la morte se non per mezzo di Gesù Cristo».
La possibilità di Dio rilancia il problema di quali siano i linguaggi migliori per dire Dio e per presentare la realtà e la novità del cristianesimo. Credo che sia necessaria una molteplicità di linguaggi in cui si riflette e si rifrange il mistero divino; e che dunque debbano intervenire il linguaggio concettuale e dichiarativo del pensiero teoretico che percorre le diverse vie che conducono a Dio (prove della sua esistenza), il linguaggio del senso comune, quello dell’etica, della bellezza, dell’agape. Cogliere l’esistenza del bene, l’intuizione che vi sono azioni sempre buone e altre sempre cattive, ossia cogliere gli assoluti morali, è una via e un linguaggio che non pochi percorrono. Tra coloro che sono scampati ai lager nazisti alcuni sono pervenuti alla fede in Dio dicendo a se stessi: poiché esiste l’abisso del male e io l’ho sperimentato, deve esistere l’abisso del bene. O anche: esiste l’abisso dell’odio, e allora deve esistere l’abisso dell’amore, della charitas. Qualcosa di analogo vale per l’esperienza della bellezza, per il sentimento che la pura bellezza che talvolta sperimentiamo non può non rinviare a una Bellezza infinita verso cui tendiamo ardentemente. Così hanno pensato Edgar Allan Poe e Charles Baudelaire.
Secondo il primo quando, spinti dalla Poesia o dalla Musica, ci sciogliamo in lacrime, ciò accade in quanto ci sentiamo incapaci di afferrare interamente, «qui sulla terra, una volta per sempre, quelle gioie divine ed estatiche, delle quali attraverso la poesia o attraverso la musica non attingiamo che visioni brevi e imprecise». Baudelaire aggiunge: «È esso, è questo immortale istinto del bello che ci fa considerare la terra ed i suoi spettacoli come un riflesso, come una “corrispondenza” del cielo». Per tentare di nominare Dio abbiamo bisogno di quasi infiniti nomi, come avverte lo Pseudo-Dionigi nel trattato sui nomi divini, come anche di nessun nome, perché egli sfugge a tutti. L’uomo tenta e ritenta, sin quando si accorge che è vero quanto sosteneva un grande santo e un grande contemplativo come Tommaso d’Aquino, ossia che alla fine della nostra inquieta ricerca noi conosciamo Dio come sconosciuto. Sappiamo che egli esiste, non chi egli sia. In ogni caso per conoscere qualcosa di Lui non possiamo separare la storia dei concetti da quella degli amori. E tra gli amori spicca quello dei mistici che ci danno un volto di Dio più profondo di quello che può provenire dalla sola ragione. I mistici ci parlano di Dio con la molteplicità della loro esperienza del divino. Essi vivono la libertà dei figli di Dio e comunicano con Lui. Se vogliamo entrare in un contatto migliore con Dio, con l’Assoluto, dobbiamo ascoltarli di più. La tradizione cattolica è su questo aspetto un poco esitante. La grande disputa tra Fénelon e Bossuet sul quietismo e sul puro amore di Dio ha gettato un’ombra sulla mistica che tarda a diradarsi.
«Avvenire» del 18 settembre 2013

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