17 agosto 2013

Sui social network trionfa il '68 digitale

Annullamento delle gerarchie culturali, ideologia del tutto gratis, omologazione: la rete a volte fa danni
di Massimiliano Parente
Se fotografiamo ogni istante della nostra vita, quali sono gli istanti eccezionali? Se lo è chiesto, su La Stampa, Gianluca Nicoletti, uno che tra l'altro nella vita ha trascorso un anno in Second Life e ci ha scritto un libro, non certamente un passatista.
Di fatto abbiamo gli hard disk pieni di immagini quotidiane equivalenti, una vale l'altra.
È un esempio tra i tanti dell'annullamento gerarchico della digitalizzazione. Quest'ultimo, paradossalmente, estendendo il discorso alla rete, pare un fenomeno più di matrice marxista che capitalista. Pasolini, che era marxista, la chiamava omologazione, ma credeva sarebbe giunta dall'alto, invece è arrivata dal basso. Viceversa Aldo Busi, che marxista non è, ha denunciato la fine della civiltà letteraria: i romanzi saranno tutti uguali perché privati di «un filtro industriale», ovvero di un sistema verticale di riferimento. Attenzione: non è nostalgia della campagna, al contrario dell'industria, e Busi pone un problema di selezione. In altri termini oggi Proust non avrebbe dovuto convincere André Gide, avrebbe pubblicato la Recherche su Amazon e nessuno se ne sarebbe accorto.
Anche a me, che non sono marxista e quando la batteria dell'iPhone si scarica mi sento morire, viene da pensare che se il futuro del libro è l'ebook, il futuro dell'ebook è il self publishing di massa, cioè l'indistinto. D'altra parte stessa sorte sta toccando ai giornali, settore in cui la svolta non è la sostituzione della versione elettronica a quella cartacea. Non è il mezzo il problema, piuttosto la cancellazione di qualsiasi differenza di autorevolezza, e quindi di gerarchia, di competenza, di verifica minima delle fonti.
Non conta chi ha scritto cosa, conta il commento su Facebook e Twitter, in genere espressione di un qualunquismo senza speranze, una Piazzale Loreto virtuale, frettolosa e cialtrona, dove ogni giorno piccoli opinionisti crescono. Il blog, il tweet, lo status, vincono sulle referenze e le qualifiche, percepite come strutture mediatiche gestite dall'alto. Oscar Giannino non l'ha capito, doveva vantarsi di non avere nessuna laurea per vincere le elezioni in nome della meritocrazia.
È il potere intellettuale della doxa, di cui da noi il movimento di Grillo è solo un effetto, con lo sbarco in Parlamento dell'uomo comune, il cittadino. E se la vecchia casta era pessima, i figli del web sono perfino peggio. Un fenomeno condito in Italia da un certo provincialismo esaltato per il «popolo della rete». Infatti il problema è proprio il popolo, la primavera non araba del pensiero semplice. Oltretutto in nome della «decrescita felice», però attraverso internet, altro paradosso.
Con contaminazioni di incompetenza reciproche dal basso all'alto, hai voglia a spiegare alla comunità scientifica e a Nature per quale motivo abbiamo autorizzato una terapia priva di protocolli scientifici come Stamina o perché abbiamo vietato le ricerche sulle staminali embrionali. Inutile anche spiegarlo a chiunque altro, vi obietterà che non è così, la verità l'ha letta «in rete», sebbene come fonte sia l'equivalente di un muro del cesso.
Italo Calvino individuò epistemologicamente un agosciante «mare dell'oggettività», il quale era comunque un mare di informazioni, mentre oggi anneghiamo nel mare della soggettività. Non un eccesso di informazioni, ma la loro parificazione neppure mercificata. Contano soltanto le opinioni, un totem di gelatina da rispettare, tanto sono tutte uguali, sganciate da ogni conoscenza. Nessuno avrebbe mai pensato, fino a dieci anni fa, che l'abbattimento di ogni gerarchia culturale, il comunismo del pensiero, sarebbe arrivato dallo strumento più avanzato di interconnessione globale inventato dal capitalismo. Casomai un vecchio critico come Harold Bloom se la prendeva con il multiculturalismo, una tendenza comunque arrivata a contaminare i Nobel per la letteratura.
Tutti sanno tutto di tutto e alla fine niente, e a questo aggiungerei la pretesa di gratuità di qualsiasi prodotto dell'ingegno, il sessantottismo digitale: non si vuole pagare per ascoltare una canzone, né per vedere una serie televisiva, né per scaricare un'app. Si ribalta una bella considerazione di Cesare Pavese: «Le cose gratuite costano di più: costano lo sforzo necessario a capire che sono gratuite». Il nuovo mestiere di vivere è gratis. Fino a tre anni fa ci svenavamo per mandare sms, ora è il panico se Whatsapp chiede un abbonamento di 0,89 centesimi all'anno, è già troppo. Ignoranti, uguali e pidocchi. È crollata perfino l'industria del porno, perché abbiamo tutto il porno che vogliamo, senza sborsare un euro, mentre sarebbe giusto pagare per vedere Sasha Grey, con tutta la fatica che ha fatto. Come risultato il nuovo Homo Sapiens ha la soglia di attenzione di una mosca. Alla fine si salverà solo la ricerca scientifica, perché almeno quella, per il momento, non ha bisogno un pubblico.
«Il Giornale» del 24 luglio 2013

Nessun commento: