12 agosto 2013

India, madri surrogate tra regole e business

Il mercato dei figli
di Assuntina Morresi
«A chi appartengono questi nove mesi?» è l’efficace titolo di un articolo dell’Indian Express di qualche anno fa a firma della sociologa indiana Amrita Pandé, una delle prime voci levatesi a denunciare il fenomeno delle maternità in vendita nel suo continente. «Quando ho cominciato le mie ricerche sulla maternità surrogata, nel 2005, la gente si chiedeva se avessi capito bene quello di cui mi occupavo. Donne che rimangono incinte per qualcun altro? Nel nostro Paese? Perché non ne abbiamo mai sentito parlare? Gli interrogativi spaziavano dall’incredulità alla fascinazione. Negli ultimi due anni, comunque, i media indiani e internazionali hanno pubblicato così tante storie di "interesse umano" su questo argomento che adesso io posso discuterne praticamente con chiunque legga un giornale».
Amrita Pandé si chiede come mai non ci sia ancora una legge, in India, a regolare un mercato come quello dell’utero in affitto, considerata l’enormità del business. E suggerisce che la domanda andrebbe formulata in modo diverso: forse in India non ci sono leggi proprio perché la maternità surrogata è un business tanto redditizio? In effetti da anni l’India è in attesa di una vera legge che regoli la fecondazione assistita, che include la «maternità in vendita» – come, senza ipocrisie lessicali, viene chiamata dalla sociologa – riconosciuta legale dal 2002. Attualmente sono in vigore solamente linee guida – «National guidelines for accreditation, supervision & regulation of art clinics in India» – emanate nel 2005 dall’Indian Council of Medical Research, dove sull’accesso alla maternità in conto terzi si legge che «la maternità surrogata mediante procreazione assistita dovrebbe essere considerata normalmente solo per pazienti per i quali è fisicamente o medicalmente impossibile/non desiderabile portare a termine una gravidanza».
Lo scorso dicembre l’analogo indiano del nostro Ministro dell’Interno ha stabilito che gli stranieri che vogliono accedere ai servizi di maternità surrogata debbano procurarsi un visto medico particolare, e non uno solo turistico com’era possibile fino a quel momento. Possono farne domanda le coppie straniere eterosessuali sposate da almeno due anni, provenienti da un Paese dove la pratica è legale (il testo completo dei requisiti per avere il visto si può leggere a pagina 7 del report del Centre for Social Research sintetizzato da Avvenire martedì 6 agosto).
Un divieto rigoroso per tutte le coppie straniere conviventi, etero e omosessuali, e per i single, quindi, come sostenuto da alcuni organi di stampa e da talune organizzazioni? Più che altro, alla prova dei fatti, un argine purtroppo debole e aggirabile: molte cliniche indiane continuano a pubblicizzare apertamente i propri servizi di maternità surrogata per single e coppie gay, come si può vedere ad esempio dal sito di «Delhi-Ivf & Fertility Research Centre», a New Delhi, che ne parla esplicitamente (e non è la sola struttura): «Molti stranieri vengono in India per avere un bambino, anche se sono genitori singoli», e «molti stranieri vengono in India per la maternità surrogata per coppie gay», (http://www.surrogacyindiacentre.com/gay_surrogacy.html). I più prudenti, come www.newlifeindia.com, spiegano invece che le coppie omosessuali vengono dirottate in Thailandia dalle stesse organizzazioni indiane.
Le pressioni esterne e le richieste per l’utero in affitto sono tali che il 28 maggio l’Indian Express ha rivelato un progetto del Ministero dell’Interno teso a facilitare l’accesso per gli stranieri alla maternità surrogata in India: la proposta è di estendere il visto medico anche a singoli, uomini o donne. In questo modo la maternità surrogata sarebbe accessibile praticamente a chiunque: single, conviventi, sposati, omo ed eterosessuali, e le disposizioni per concedere il visto sarebbero in linea con quanto previsto dalla legge ancora in discussione.
Ma in India il dibattito è aperto: la legge sulla fecondazione assistita deve ancora essere approvata, e molti operatori del settore – come Samit Sekhar, direttore del Programma di maternità surrogata in un centro Infertilità dell’Hydrabad – fanno aperto riferimento al testo in discussione osservando come non vi sia alcun serio argine alle pratiche descritte. In effetti, «The Assisted Reproductive Technology (regulation) Bill 2010» – la norma in attesa di approvazione – prevede l’accesso alla maternità surrogata a singoli (uomini o donne) oppure a coppie intese come due persone che vivono insieme e hanno una relazione sessuale ritenuta legale in India. Un criterio di fatto estremamente "inclusivo", che apre a tutti la maternità in conto terzi, e che conferma – almeno per ora – un orientamento governativo tutt’altro che restrittivo e, anzi, di allargamento dell’attuale "mercato".
Nel report del Center for Social Research, a proposito di questo argomento, a pagina 105 si legge che «durante le visite sul campo, dalle nostre osservazioni sono emersi dubbi sulla presenza o meno di poche coppie gay/omosessuali arrivate in India per avvalersi di un servizio di maternità surrogata a buon mercato, in assenza di una legge concreta. Anche per coppie indiane gay/omosessuali la maternità in conto terzi sta emergendo come l’unica opzione, visto che l’adozione è proibita per queste coppie in India». Nello stesso report, a pagina 22 si richiama un articolo del 2 giugno 2012 del London Sunday Telegraph, nel quale si può leggere: «La cultura degli "uteri in affitto" sta sollevando timori per motivi etici, così come per la sua natura sfruttatrice e il suo impatto sulla condizione socio-economica delle donne. Tale cultura è popolare tra quegli omosessuali che sono pronti a tutto per avere una famiglia».
D’altra parte, nel Paese in cui la legge vieta esplicitamente l’aborto legato alla selezione del sesso abbiamo comunque milioni di bambine che mancano all’appello, e l’aborto selettivo delle femmine resta una pratica diffusissima: le discriminazioni a carico delle donne indiane sono ancora pesanti, e l’esistenza di norme a riguardo non ha mutato, nella sostanza, antichissimi costumi. Se le istituzioni indiane non riescono a far rispettare il divieto rigoroso di praticare aborti selettivi, un fenomeno sotto osservazione a livello internazionale, come si fa a sostenere che linee guida e visti medici dovrebbero essere, invece, in grado di arginare lo sfruttamento delle donne più povere e più fragili, da parte di coppie e singoli, omo ed eterosessuali, quando ne deriva un mercato tanto lucroso?
La sociologa Pandé picchia duro, in proposito: «In un Paese dove le donne difficilmente hanno diritti riproduttivi, dove c’è un tasso di mortalità materna straordinariamente elevato, dove c’è una storia di sterilizzazione di massa, dove i corpi delle donne sono usati per testare i nuovi contraccettivi a lungo termine dall’Occidente, ci concediamo il lusso di deviare le risorse verso nuove tecnologie riproduttive come la maternità surrogata? Mentre alle donne povere si "consiglia" la sterilizzazione, quelle più ricche sono "consigliate" sui differenti modi per avere un proprio figlio biologico. Sembra che abbiamo creato la nostra versione dell’eugenetica (di classe)».​​​​
«Avvenire» del 12 agosto 2013

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