11 luglio 2013

Le parole sono importanti

In calo gli iscritti, non un buon segno
di Ferdinando Camon
La facoltà di lettere non deve morire
Un’inchiesta dice che i nuovi iscritti di Lettere e Filosofia sono in calo nelle università (tranne Pavia). Da qui parte la discussione: come sarà la nuova Italia, con più laureati in Scienze, Ingegneria, Matematica, Medicina e meno in Letteratura, Arte, Filosofia? L’uomo che maneggerà macchine e computer sarà più utile al progresso dell’uomo che maneggia i classici? Per la verità, non è un problema recente. Noi, padri o padri dei padri, abbiamo convissuto con questo problema quand’eravamo studenti universitari.
Pochissimi maschi studiavano a Lettere. Lettere era una mezza facoltà, una facoltà a quei tempi per mezza professione: per donne, che come prima professione avevano la casa. Devo dire però che molte donne ne hanno fatto una professione tutta intera e i pochi maschi che studiavano Lettere erano motivatissimi, e poi son diventati docenti universitari, giornalisti, redattori editoriali, scrittori. O, quelli che han fatto gli insegnanti, ottimi insegnanti. Se il problema è: quale facoltà è meglio scegliere, umanistica o scientifica?, la risposta è: la facoltà verso la quale lo studente si sente portato. La facoltà non si sceglie, è lei che sceglie te. Chi sceglie Lettere ama le parole. Le parole sono la chiave per aprire il mondo. Ogni parola di oggi fu un’altra parola ieri, ma non capisci la parola di oggi se non ci senti dentro la parola di ieri, perché nessuna parola muore ma tutte si trasformano: vale per la Lingua la stessa regola che vale per la Fisica.
Qualcuno dice: la Letteratura si occupa della vita e della morte, la Scienza si occupa del mondo. Non è esatto. Parrebbe che Letteratura e Scienza fossero separate, e invece sono interdipendenti. A casa del Leopardi ho visto un manoscritto dell’Infinito col verso "tra questa / immensità s’annega il pensier mio", a casa di Pablo Neruda in Cile ho visto una fotocopia di quel canto con la parola "immensità" cancellata e sostituita da "infinità". Dunque, ci fu un periodo in cui Leopardi era incerto tra le due forme. Alla fine scelse la parola con la "s". La "s" è una sibilante. Inconsciamente, Leopardi sentiva che nello spazio cosmico si entra con un sibilo. Cinquant’anni fa, un bambino avrebbe indicato la massima velocità con uno sparo, perché conosceva il fucile e il cannone, oggi lo indica con un sibilo, perché conosce il missile.
La domanda: è importante insegnare queste cose?, diventa un’altra domanda: è importante insegnare a parlare ai figli? La domanda: saranno dimenticati gli studi umanistici? diventa un’altra domanda: l’uomo si dimenticherà di sé? Uscendo dalla prima Guerra Mondiale l’uomo si accorge di aver rotto il rapporto con gli altri uomini, la mitragliatrice l’ha tagliato. Perciò la poesia impara le parole isolate, circondate dal silenzio, e nasce l’ermetismo. Non capiamo la Guerra se non studiamo l’ermetismo. Nella seconda Guerra l’uomo rompe il rapporto anche con se stesso: ci sono tanti uomini nell’uomo, e l’uomo non li conosce. È il momento in cui l’umanità fa cose che l’umanità non può ammettere. Non entriamo nella comprensione di questo tempo se non passiamo per la porta del decadentismo. Il fascismo faceva basse opere, il nazismo grandi orrori. È la differenza tra il Superuomo di Nietzsche e il Superuomo di D’Annunzio. Quello è uno Sterminatore, questo è un Esteta.
Le grandi riprese storiche, in tutte le civiltà, hanno coinciso con le grandi riprese letterarie. Le grandi decadenze coincidono con i grandi tramonti letterari. Occupata la Polonia, per far tabula rasa della sua identità e germanizzarla, una commissione tedesca s’insedia all’università di Varsavia (lo racconta Andrzej Wajda nel film Katyn) e convoca i docenti: «Cosa insegna lei?», «Ingegneria», «Necessario. E lei?», «Letteratura polacca», «Non necessario». È la premessa. La conclusione è l’uccisione di tutti gli ufficiali polacchi per spegnere la storia polacca. Per spegnere la storia, prima spengono la letteratura. Tra facoltà umanistiche e facoltà scientifiche, né le prime né le seconde devono morire: se ciascun studente andrà verso la facoltà che ama di più, avremo bravi professionisti e avremo il progresso. Se no, no.
«Avvenire» del 3 luglio 2013

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