16 luglio 2013

La vita non è mai pratica burocratica

La "morte a comando" (e per errore) di un italiano in Svizzera
di Carlo Cardia
La stampa ha dato conto nei giorni scorsi di un tragico caso di "suicidio assistito", risalente a pochi mesi fa e praticato in una struttura svizzera a un magistrato italiano precipitato nello sconforto dalla diagnosi di un male incurabile, che non è però mai esistito (come è stato accertato per le insistenze della famiglia). In sé, una vicenda inquietante su cui su dovrà indagare ancora. Le notizie essenziali del caso sono state riportate da diversi giornali e i lettori di Avvenire la conoscono anche per il commento che il 12 luglio le ha dedicato il direttore nella pagina in cui dialoga con loro. L’episodio a me ne ha fatto venire alla mente un altro, narrato da Umberto Veronesi nel suo libro Il diritto di morire del 2005, dove racconta quanto accaduto a un collega medico in un Paese che aveva legalizzato le pratiche suicidarie. Gli riferì il medico di avere «accompagnato un paziente che voleva essere aiutato a morire.
L’inviato dell’organizzazione ha preparato la pozione letale, il paziente ne ha bevuto la metà e poi ha avuto un ripensamento. L’incaricato gli ha detto: "Guardi che così rischia di avere delle sofferenze indicibili. Beva tutto, perché io sono venuto qui perché lei finisca di bere!". Il paziente ha obbedito, ed è morto». L’episodio, aggiungeva Veronesi, «si commenta da sé». Il rischio che si corre, di fronte a questi episodi, e altri meno conosciuti, è quello di ritenere che siamo di fronte a una semplice crepa nel sistema, a un mancato suo funzionamento, mentre passa nella coscienza comune che il rifiuto della vita, avallato dalla legge, praticato da personale autorizzato, costituisca la normalità, quasi una risposta positiva della società a un legittimo desiderio di porre fine alla propria esistenza.
Ma le anomalie che inevitabilmente si determinano tradiscono la vera natura di leggi come quelle che introducono l’eutanasia, il suicidio assistito, che è quella di sottoporre la vita e la morte a scelte personali drammatiche e tuttavia reversibili e superabili, trattarne l’esecuzione alla stregua di una pratica burocratica come altre. La risposta del medico che, di fronte all’esitazione del paziente, lo invita a seguire il protocollo, ci dice che per gli attori che recitano sulla scena la vita umana non è più un valore da tutelare, come non lo è la volontà individuale tanto esaltata dal pensiero relativista; per essi conta solo portare a termine una pratica che ha i suoi tempi, la sua logica, non ammette intoppi che la fermino o la revochino. La vita della persona finisce in un ingranaggio di cui diviene prigioniera, senza possibilità di sfuggire trarsene fuori. Non c’è ripensamento che possa valere, né amore per la vita che all’improvviso si faccia nuovamente sentire, l’errore è irreversibile.
Può darsi anche la possibilità che, dopo la morte dell’interessato, i parenti chiedano il risarcimento danni per la soppressione di un’esistenza che un intero sistema, che in Svizzera già vige e che in Italia qualcuno vorrebbe, ha permesso di cancellare: generando un errore nella mente del malato, stabilendo che nessuno può scoraggiarlo, né offrire alternative alla decisione di scegliere la morte anziché la vita. Nell’enciclica Lumen fidei Papa Francesco afferma con forza che «la fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita», e che essa «diventa luce per illuminare tutti i rapporti sociali», ancor più se sono in gioco valori fondamentali. Le scelte di alcune legislazioni, che permettono di porre fine alla vita in modo cinico e scriteriato, fanno insorgere tristezza, gli episodi terribili di cui ogni tanto veniamo a conoscenza umiliano la nostra umanità, ma c’è una alternativa possibile che è quella di allargare la nostra prospettiva, fare altre leggi per le quali la persona si senta accolta, aiutata, incoraggiata a vivere per sé e per gli altri. Senza la luce della fede la ragione si appanna, smarrisce se stessa, il cinismo relativista può portare al declassamento, e negazione, della tutela della vita che pure il costituzionalismo moderno e le Carte dei diritti umani pongono al vertice dei valori da promuovere e custodire.
Tale cinismo può far approdare le nostre società a un silenzio delle coscienze che è due volte colpevole. Lo è quando episodi come quelli citati scivolano nelle cronache o nelle pagine di un libro senza lasciare traccia, quasi frutti del fato, di un destino malevolo quasi frutti del fato, di un destino malevolo anziché della volontà umana. È ancor più colpevole quando un ordinamento, il legislatore, diversi soggetti sociali, rifiutano di scegliere un’altra strada, per alimentare una concezione più alta e solidale dei rapporti tra gli uomini, che vada in aiuto di chi soffre, garantisca sempre una alternativa al dolore, alla depressione, alla tentazione di rifiutare la vita, sbarri la strada ad ogni errore, eviti che si superi quella soglia dalla quale non si torna più indietro.
«Avvenire» del 15 luglio 2013

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