24 giugno 2013

Le età della protesta

di Gianni Riotta
Una generazione fa il comico Marcello Marchesi divertiva dalla tv in bianco e nero con la gag tenera dell’«uomo di mezza età», i suoi tic e le sue idiosincrasie. Oggi siamo un Paese di «mezza età» e la manifestazione di ieri dei sindacati Cgil, Cisl e Uil ne è testimonianza, non solo nei sorrisi e nei volti di tanti dimostranti in corteo – molti già attivi nell’autunno caldo 1969 in blue jeans -, ma anche negli obiettivi. La segretaria della Cgil Camusso ha chiesto «la restituzione fiscale per i lavoratori e i pensionati, per fare ripartire i consumi e la produzione», primo choc contro l’anemia economica, che non risolverà il ritardo del nostro Paese su produttività, saperi, nuove produzioni. Il leader della Uil, Angeletti, ha parlato con un linguaggio che avrà ricordato ai dimostranti la gioventù, invocando «un piano per il lavoro» e annunciando che «saranno i disoccupati a staccare la spina al governo Letta» (per mettere sotto carica quale governo, il sindacalista non ha detto).
Per confrontare il pacifico e colorato corteo di ieri con la protesta sociale e politica che in questi giorni ha animato la Turchia e il Brasile, basta esaminare le età medie dei tre Paesi, la demografia è carta di identità di una nazione, fattore importante del futuro economico. Gli assi del calcio che si sono sfidati ieri sera sono entrambi giovani, 1990 per l’azzurro Balotelli, 1992 per il campione della Seleçao Neymar: tra i tifosi tutto cambia.
Ai nostri 44,2 anni di media (43 gli uomini, 45,3 le donne), il Brasile oppone una media di 30,3 anni, 29,5 per gli uomini, 31,3 per le donne. La Turchia è, di poco, più giovane, media 29,2 anni, maschi 28,8, femmine 29,6. La «coppia media» italiana ha alle spalle matrimoni, scelte di lavoro, figli e riflette già sulla seconda parte della vita. Le «coppie medie» turca e brasiliana hanno appena finito i venti anni, con tutta la vita davanti.
È chiaro come le scelte politiche divergano davanti a questa differenza. Il sindacato italiano difende per i propri iscritti quel che resta dei frutti del boom economico italiano Anni 60, e dei contratti stipulati dal 1969 in avanti, quando il salario reale dei nostri operai aumentò sensibilmente per la prima volta nella storia. Battaglia nobile, ma che non ha al primo posto l’innovazione, la tecnologia, le start up, la additive manufacturing, le specializzazioni che oggi creano nuovo lavoro anche nei Paesi sviluppati. In Turchia e Brasile l’ondata di protesta guarda oltre i successi del dopo Guerra Fredda, e vuole accoppiare benessere sociale a libertà individuale. Come «La Stampa» ha osservato prima delle proteste che hanno acceso Rio, la presidente Dilma Rousseff ha prematuramente frenato sulla crescita del Brasile, 20 milioni di persone entrate nel ceto medio in pochi anni, agendo un po’ sulla falsariga della prudenza degli slogan sindacali di ieri, «Piano per il lavoro», «Democrazia è lavoro». Troppo presto per gestire il successo, in una nazione dove ancora troppi soffrono nelle favelas, passando la vita su impossibili trasporti pubblici che raddoppiano l’orario di lavoro e con criminalità comune feroce.
Un analogo errore di superbia politica ha compiuto in Turchia il premier Recep Tayyip Erdogan, reprimendo le manifestazioni per la difesa dell’amato Parco Gezi. Il suo islamismo soft, che dapprima aveva confortato tanti cittadini, adesso stucca un Paese che chiede di vivere nel mondo contemporaneo, non di sfuggirlo. Che l’Europa della signora Merkel non sappia rispondere se non con un burocratico «No!» ad ogni dialogo con Istanbul, conferma che le rinunce della «mezza età» sono mal comune tra Italia e Unione Europea.
Nei siti populisti italiani si dà dell’ipocrita a chi ha criticato le violenze dei No Tav per mostrarsi invece attento alle richieste della piazza turca e brasiliana. Osservazione mal riposta, perché i «No Tutto» italiani, No Tav, No Ponte, No Muos, No Ogm, No Gronda, No Ricerca, No Vaccini, non sono molla del nuovo in Italia. Sono la versione radicale del conservatorismo, lo Strapaese del Novecento, il mito di un’Italietta autarchica che si illude, magari leggendo di fretta la polemica antimoderna di Pasolini e Nanni Moretti, di vivere nel passato.
Lo Spi, il Sindacato Pensionati della Cgil, ha deciso di incontrare i suoi tre milioni di iscritti non solo nelle Camere del Lavoro, nei patronati, nei classici luoghi del lavoro, ma anche online, sui social media, Facebook, nei siti web, twitter. Ogni giorno cresce il numero di «anziani digitali», lavoratori e professionisti che lasciano fabbrica e ufficio, ma non il computer.
Vedremo che effetti darà l’esperimento online dei pensionati Cgil. Vedremo come maturerà la protesta turca e brasiliana, gente che ha appena intravisto il benessere e chiede anche libertà privata, «Il pane e le rose» rivendicati dai lavoratori del Massachusetts già nel 1911. Perché se era possibile prevedere che la frenata nella crescita brasiliana avrebbe chiuso il miracolo di Lula, altrettanto scritto nella forza della Storia è – per esempio - che anche il miliardo di cinesi, dopo il riso ottenuto con Deng Xiao Ping, chiedano se non le rose, le meihua, i fiori di susino tradizionali.
Ma se in Italia prevarrà il Partito dello Status Quo, lo schieramento Destra - Sinistra che da venti anni paralizza l’Italia, allineando imprese, sindacato, intellettuali che di passato vivono e intendono continuare a vivere, da noi il pane sarà sempre più raffermo e le rose sempre più sfiorite.
«La Stampa» del 23 giugno 2013

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