29 giugno 2013

Contro l'"omofobia" o contro la libertà di pensiero?

La legge proposta è superflua e rischiosa? Chiarire si può
di Francesco D'Agostino
Tra i primi disegni di legge presentati nella nuova legislatura spicca quello per la criminalizzazione dell’omofobia: è stato depositato poche settimane fa alla Camera, supportato dalle firme di più di duecento deputati, le prime delle quali sono quelle di Scalfarotto (Pd), Tinagli (Scelta Civica), Zan (Sel), Chimienti (Movimento 5 Stelle). I proponenti non negano ovviamente che violenze omofobe possano già essere punite in base alle leggi vigenti, ma osservano che tale punibilità, ove non si prevedano ulteriori specifiche norme penali, ha poca visibilità simbolica e non risponde adeguatamente alle istanze che hanno portato l’Unione Europea, già da molti anni, a proclamare una “Giornata internazionale contro l’omofobia” (che ricorre il 17 maggio) e a richiedere a tutti i Paesi europei forti iniziative in tal senso. Se, come ha detto il presidente Napolitano lo scorso maggio in un importante discorso, «il contrasto all’omofobia deve costituire un impegno fermo e costante non solo per le istituzioni, ma per la società tutta» è più che ragionevole –si dice da parte dei fautori del disegno di legge – che il Parlamento italiano rafforzi la nostra legislazione e la adegui a quella dei tanti Paesi europei che già si sono mossi in questo senso.
Non tutti ne sono convinti. Molti - anche su queste colonne lo si è scritto più volte – pensano che questo progetto di legge sia superfluo, ricordando che il nostro ordinamento giuridico proibisce severamente ogni aggressione all’ integrità fisica e morale delle persone e che sono già previsti nel nostro codice come aggravanti i “motivi abietti”, quelli che stanno alla base delle violenze e delle aggressioni omofobe. Accanto a questo argomento, inoppugnabile, ne viene avanzato anche un altro e, a mio parere, di maggior rilievo. Se approvata, la nuova normativa contro l’omofobia metterebbe in pericolo la libertà di espressione, di ricerca scientifica e di religione: e questo perché qualsiasi giudizio critico che qualifichi come innaturali tutte le pratiche non eterosessuali potrebbe essere qualificato come omofobo e diventare l’occasione per aggredire penalmente chi lo avesse formulato. Si tratta di un’obiezione particolarmente pesante, perché mette in gioco né più né meno che il rispetto dei valori fondanti di una società libera come la nostra.
È indubbio che della forza di questa obiezione i promotori del disegno di legge sembra che siano ben consapevoli. La fronteggiano infatti, ed esplicitamente, nella relazione introduttiva all’ articolato, osservando che ciò che si vuole sanzionare con il loro disegno di legge non sono idee, ma «condotte», specifiche e puntuali, tali da tradursi nell’istigazione a commettere vere e proprie violenze. E per non lasciare equivoci, essi scrivono che non solo non si intende sanzionare opinioni fondate e argomentate, ma nemmeno «mere» opinioni, «quand’anche esse esprimano un pregiudizio».
Sono sufficienti queste dichiarazioni per fugare le perplessità? No. Da più parti si sottolinea che potrebbe essere denunciato come istigazione all’omofobia anche il semplice definire «perversione» l’omosessualità (utilizzando un’espressione oggi desueta, ma condivisa fino a pochi anni fa da decine di studiosi di psicopatologie sessuali) o il qualificarla «peccaminosa» (come fece, venendo poi sanzionato, un pastore luterano svedese dal pulpito della sua chiesa). Il nocciolo del problema quindi è piuttosto spinoso. È indubbio che alla convinzione diffusa e sacrosanta che ritiene intollerabile ogni forma di discriminazione sociale contro gli omosessuali, si accompagni da parte di molti militanti di movimenti gay la pretesa di squalificare ideologicamente e reprimere giuridicamente ogni forma di indagine antropologica, psicologica, filosofica, religiosa a carico dell’omosessualità stessa. È una pretesa indebita e inaccettabile, che può arrivare a sostenere che chi si dichiara contrario alle nozze gay va ritenuto oggettivamente un omofobo.
Se i firmatari del disegno di legge contro l’omofobia sono davvero convinti che le «opinioni» devono restare libere e insindacabili, «quand’anche esse esprimano un pregiudizio», basta, per intanto che facciano una cosa: introducano nel disegno di legge un articolo di legge, nel quale si riconosca senza la possibilità di alcun equivoco l’insindacabilità giudiziaria di qualsiasi giudizio, antropologico, psicologico, religioso, pur se severamente critico, sugli stili di vita omosessuali; affermino che oltre che le pratiche materialmente violente, solo l’istigazione alla violenza contro gli omosessuali e alla loro discriminazione sociale potrà essere punibile: ma niente di più.
In buona sostanza, si tratta di estendere all’omosessualità la “clausola di garanzia” che è implicitamente in vigore negli stati liberali moderni per gli stili di vita eterosessuali, anche nelle loro forme estreme. Non ho il diritto di incitare chi mi ascolta a far perire tra le fiamme chi vive da libertino (come il Don Giovanni di Mozart), ma ho l’assoluto diritto di criticare il libertinismo sessuale, anche con le parole più dure, senza essere accusato di «sessuofobia». Tutto qui. Se dietro il dibattito sulla repressione dell’omofobia non si innestano atteggiamenti ideologici e soprattutto anticlericali, lo si dimostri.
«Avvenire» del 27 giugno 2013

24 giugno 2013

Le età della protesta

di Gianni Riotta
Una generazione fa il comico Marcello Marchesi divertiva dalla tv in bianco e nero con la gag tenera dell’«uomo di mezza età», i suoi tic e le sue idiosincrasie. Oggi siamo un Paese di «mezza età» e la manifestazione di ieri dei sindacati Cgil, Cisl e Uil ne è testimonianza, non solo nei sorrisi e nei volti di tanti dimostranti in corteo – molti già attivi nell’autunno caldo 1969 in blue jeans -, ma anche negli obiettivi. La segretaria della Cgil Camusso ha chiesto «la restituzione fiscale per i lavoratori e i pensionati, per fare ripartire i consumi e la produzione», primo choc contro l’anemia economica, che non risolverà il ritardo del nostro Paese su produttività, saperi, nuove produzioni. Il leader della Uil, Angeletti, ha parlato con un linguaggio che avrà ricordato ai dimostranti la gioventù, invocando «un piano per il lavoro» e annunciando che «saranno i disoccupati a staccare la spina al governo Letta» (per mettere sotto carica quale governo, il sindacalista non ha detto).
Per confrontare il pacifico e colorato corteo di ieri con la protesta sociale e politica che in questi giorni ha animato la Turchia e il Brasile, basta esaminare le età medie dei tre Paesi, la demografia è carta di identità di una nazione, fattore importante del futuro economico. Gli assi del calcio che si sono sfidati ieri sera sono entrambi giovani, 1990 per l’azzurro Balotelli, 1992 per il campione della Seleçao Neymar: tra i tifosi tutto cambia.
Ai nostri 44,2 anni di media (43 gli uomini, 45,3 le donne), il Brasile oppone una media di 30,3 anni, 29,5 per gli uomini, 31,3 per le donne. La Turchia è, di poco, più giovane, media 29,2 anni, maschi 28,8, femmine 29,6. La «coppia media» italiana ha alle spalle matrimoni, scelte di lavoro, figli e riflette già sulla seconda parte della vita. Le «coppie medie» turca e brasiliana hanno appena finito i venti anni, con tutta la vita davanti.
È chiaro come le scelte politiche divergano davanti a questa differenza. Il sindacato italiano difende per i propri iscritti quel che resta dei frutti del boom economico italiano Anni 60, e dei contratti stipulati dal 1969 in avanti, quando il salario reale dei nostri operai aumentò sensibilmente per la prima volta nella storia. Battaglia nobile, ma che non ha al primo posto l’innovazione, la tecnologia, le start up, la additive manufacturing, le specializzazioni che oggi creano nuovo lavoro anche nei Paesi sviluppati. In Turchia e Brasile l’ondata di protesta guarda oltre i successi del dopo Guerra Fredda, e vuole accoppiare benessere sociale a libertà individuale. Come «La Stampa» ha osservato prima delle proteste che hanno acceso Rio, la presidente Dilma Rousseff ha prematuramente frenato sulla crescita del Brasile, 20 milioni di persone entrate nel ceto medio in pochi anni, agendo un po’ sulla falsariga della prudenza degli slogan sindacali di ieri, «Piano per il lavoro», «Democrazia è lavoro». Troppo presto per gestire il successo, in una nazione dove ancora troppi soffrono nelle favelas, passando la vita su impossibili trasporti pubblici che raddoppiano l’orario di lavoro e con criminalità comune feroce.
Un analogo errore di superbia politica ha compiuto in Turchia il premier Recep Tayyip Erdogan, reprimendo le manifestazioni per la difesa dell’amato Parco Gezi. Il suo islamismo soft, che dapprima aveva confortato tanti cittadini, adesso stucca un Paese che chiede di vivere nel mondo contemporaneo, non di sfuggirlo. Che l’Europa della signora Merkel non sappia rispondere se non con un burocratico «No!» ad ogni dialogo con Istanbul, conferma che le rinunce della «mezza età» sono mal comune tra Italia e Unione Europea.
Nei siti populisti italiani si dà dell’ipocrita a chi ha criticato le violenze dei No Tav per mostrarsi invece attento alle richieste della piazza turca e brasiliana. Osservazione mal riposta, perché i «No Tutto» italiani, No Tav, No Ponte, No Muos, No Ogm, No Gronda, No Ricerca, No Vaccini, non sono molla del nuovo in Italia. Sono la versione radicale del conservatorismo, lo Strapaese del Novecento, il mito di un’Italietta autarchica che si illude, magari leggendo di fretta la polemica antimoderna di Pasolini e Nanni Moretti, di vivere nel passato.
Lo Spi, il Sindacato Pensionati della Cgil, ha deciso di incontrare i suoi tre milioni di iscritti non solo nelle Camere del Lavoro, nei patronati, nei classici luoghi del lavoro, ma anche online, sui social media, Facebook, nei siti web, twitter. Ogni giorno cresce il numero di «anziani digitali», lavoratori e professionisti che lasciano fabbrica e ufficio, ma non il computer.
Vedremo che effetti darà l’esperimento online dei pensionati Cgil. Vedremo come maturerà la protesta turca e brasiliana, gente che ha appena intravisto il benessere e chiede anche libertà privata, «Il pane e le rose» rivendicati dai lavoratori del Massachusetts già nel 1911. Perché se era possibile prevedere che la frenata nella crescita brasiliana avrebbe chiuso il miracolo di Lula, altrettanto scritto nella forza della Storia è – per esempio - che anche il miliardo di cinesi, dopo il riso ottenuto con Deng Xiao Ping, chiedano se non le rose, le meihua, i fiori di susino tradizionali.
Ma se in Italia prevarrà il Partito dello Status Quo, lo schieramento Destra - Sinistra che da venti anni paralizza l’Italia, allineando imprese, sindacato, intellettuali che di passato vivono e intendono continuare a vivere, da noi il pane sarà sempre più raffermo e le rose sempre più sfiorite.
«La Stampa» del 23 giugno 2013

In memoria di sé

di Massimo Gramellini
Il mondo si dimenticherà di me, le mie invenzioni non mi sopravvivranno. Così diceva Steve Jobs in un video inedito del 1994 che da ieri ronza su telefonini e computer di mezzo mondo, in buona parte ideati da lui. Jobs aveva dunque torto a sottostimarsi. Ma non sarebbe mai diventato Jobs se non avesse avuto quel tarlo: il desiderio di diventare immortale attraverso le sue opere. Prima di prenderlo per un fanatico pieno di sé, provate a rifletterci. L’immortalità è una pulsione comune a tutti gli esseri umani quando creano: un figlio, un progetto, una cosa che non c’era. Si tratta di un sentimento naturale. Innaturale, semmai, è averlo irriso o addirittura rimosso. Ho il sospetto che alla base della nostra infelicità di fondo, di questo malcontento cronico che ci fa uscire di casa ogni mattina con la maschera della rabbia e dell’impotenza dipinta sul volto, non ci siano solo le mille cose pratiche che non vanno, ma anche un vuoto interiore: la mancanza di una certa idea di noi stessi come esseri unici e irripetibili che nel loro piccolo possono cambiare un po’ il mondo. Magari meno di Steve Jobs, ma ciascuno nel suo orticello, scovando e liberando il proprio talento, che quasi mai coincide con quello che ci viene indicato o imposto dagli altri.
Chiamatemi illuso. Eppure se ogni persona, nella vita privata e in quella pubblica, pensasse di poter davvero lasciare un segno indelebile del suo passaggio, forse al mondo ci sarebbero meno corruzione, meno miseria, meno squallore. Le decadenze sono sempre frutto della sfiducia, di un cinismo che abdica alle ragioni più profonde del nostro esserci: qui, adesso, per fare - nonostante tutto - qualcosa.
«La Stampa» del 21 giugno 2013

«Scopriamo con Dante il vero viaggio di Ulisse»

di Luca Doninelli

Doninelli: «L’Ulisse dantesco, riletto nei secoli successivi, ha significato l’homo faber, tant’è che forse minor comprensione ha avuto la conclusione di tutta la vicenda. Mentre preparavamo l’incontro, mi hai detto ad un certo punto di esserti stancato di questo modo di leggere questo testo...

Pontiggia: «Dopo avere accumulato per tutta la vita libri in una misura visionaria, dopo aver amato la cultura nel modo più intenso e anche più articolato (chi ha una biblioteca come la mia, più di 40mila volumi, ha problemi di statica: la casa che crolla, costruzione di una vita, distruzione di un reddito) evidentemente vedo nella cultura una ricchezza, una felicità, un piacere, una dilatazione dell’orizzonte, e così l’ho sempre vissuta. Non so se è un processo legato al passare dell’età o, come penso, a una maggiore lucidità.
Quello che ho scoperto negli ultimi anni è una forma di insofferenza e di impazienza anche nei confronti della cultura. Con questo non voglio assolutamente insegnare a qualcuno a limitare la propria fame e voracità di cultura, ma semplicemente mettere in luce un aspetto importante: una cosa è la cultura come patrimonio di percorsi, di viaggio, di esperienze, di piacere, però ad un certo punto, se devo riflettere sulla vita e la morte, sul tempo che mi rimane, su quello che è veramente importante, questi piaceri perdono di importanza.
Mi ha molto colpito per esempio leggere dei libri di Taubes, un rabbino molto attratto dal cattolicesimo e dalla teologia protestante, che ha tenuto un corso alla radio a Berlino poco prima di morire, (era malato terminale di cancro, e non sapevano se avrebbe terminato il suo ciclo di lezioni) e a un certo punto dice: “Ma lasciamo perdere Hegel, cosa mi interessa…: è importante san Paolo, è importante la Lettera ai Romani”. Su Hegel era uno degli studiosi più preparati, ma questo atteggiamento nei confronti di una cultura che in condizioni di normalità, di curiosità, di acquisizione pacata, è importante, se noi invece lo misuriamo con le questioni più ultime che ci riguardano, diventa improvvisamente sfocato.
Personalmente, e lo dico non per narcisismo e neanche per fare confessione, ma semplicemente come messa a fuoco di un punto importante, credo che la cultura non è il sapere che ci riguarda nel modo più stretto. Il sapere appartiene anche alla cultura, ma la cultura nel suo insieme è un patrimonio da cui noi possiamo attingere in condizioni particolari; è il sapere che ci riguarda e che è veramente importante ed essenziale per noi. Allora, quando Luca mi ha proposto di parlare di Ulisse mi è venuto in mente tutto il cumulo di studi che avevo fatto all’università e poi dopo l’università sulla figura di Ulisse e i suoi significati. In questo momento la figura di Ulisse non mi interessa, soprattutto quella costruzione secolare che è stata fatta su di lui. Allora voi dite: “Perché ha accettato di parlare?”, beh, perché penso che se ne può parlare nel modo che mi interessa.È sconcertante che Dante ponga nell’Inferno Ulisse e nello stesso tempo dia questo ritratto magnanimo, generoso, grandioso del suo coraggio. L’ambiguità.
Dante fa di Ulisse un personaggio ambiguo, un personaggio colpevole da un lato di frode, però anche capace di questi slanci; questo non è una sorpresa, in fondo uno dei procedimenti che adotta Dante è proprio quello dell’ambiguità. Secondo me è importante leggere Dante sottraendosi al ricatto, al peso, all’invadenza di tutte le interpretazioni che sono state date (uno per cultura può anche approfondirle, trarne giovamento, arricchimento); mi sembra importante leggere Dante nella semplicità della sua costruzione, nell’impiego e nella scelta delle parole, perché allora scopriamo non solo il substrato sapienziale in senso religioso e speculativo di Dante, ma anche la sua capacità di far fruttificare la parola in significati sorprendenti e sconcertanti».

Doninelli: «Una cosa che mi sono sempre chiesto (forse perché io mi sono sposato e ho avuto figli, quindi il mio destino è stato, dopo un po’ di avventure giovanili, quello del padre di famiglia) era come faceva Ulisse a sapere che non sarebbe diventato “del mondo esperto” restando a Itaca. Questo è interessante, perché lui vuol dire che essere padre, essere marito, essere figlio, non è un’esperienza».

Pontiggia: «Questo è un punto importante ma purtroppo molta critica non si pone il problema. È interessante quello che tu dici, non è un problema estraneo al testo, perché anche in Omero (che Dante non conosceva direttamente) c’è Ulisse che riparte la mattina e affronta il viaggio e poi pone il remo nella sabbia dell’approdo: ci sono immagini stupende che Dante non conosceva ma che sono significative; voglio dire, già l’Ulisse omerico era un uomo che ripartiva. Penso che effettivamente si possa acquisire una coscienza, una conoscenza dei vizi umani e del valore anche stando a casa, altrimenti cadiamo nell’assurdità di Lawrence, che accusava Cristo di non avere una sufficiente conoscenza dell’umanità perché non era passato attraverso il matrimonio; ma figuriamoci se la conoscenza, dal punto di vista umano, passa attraverso l’esperienza diretta. Una esperienza messa a frutto e portata avanti poi con grande lucidità nella propria vita privata può essere l’orizzonte del mondo.
Condivido l’idea che Ulisse poteva diventare esperto degli uomini e del valore anche vivendo con Penelope, col vecchio padre, col figlio; del resto Kierkegaard faceva dell’uomo sposato che viveva con totale adesione la vita coniugale l’emblema della vita etica realizzata; lui non si è mai sposato, nonostante fosse stato tentato più volte da questa piena realizzazione, però ci dà un’immagine straordinariamente forte. Qui Dante probabilmente propone un ideale eroico di continuo superamento che si manifesta anche nell’abbandono della patria: lasciare Itaca vuol dire avventurarsi, e infatti lui parla di “aspro mare aperto”, probabilmente è un senso epico dell’avventura. Hanno anche detto che il viaggio di Ulisse nella Commedia è una microepopea all’interno dell’epopea della Commedia, con questo bisogno di diventare esule, che era forse la strada per Ulisse. Ma non penso che Dante ne voglia fare un ideale etico da seguire necessariamente, anche perché poi si conclude con un fallimento: la nave viene affondata. Ecco, da un punto di vista narrativo mi colpisce come lavora Dante: comincia il racconto di Ulisse con una subordinata. “Quando”. Non dice “Io ero...”, dice “Quando”, e allora subito c’è un interesse, entriamo subito in medias res con una subordinata: “Quando mi dipartii da Circe”.
Da notare che questo viaggio non verrà mai descritto in termini visivi, se non nell’ultima parte: prima è un viaggio quasi geografico, geografico-storico, topografico. Questo è uno dei segni del genio di Dante, soprattutto perché lavora sulle parole in modo strepitoso, cioè tutti i nomi propri in Dante acquistano un risalto: “ma riconoscerai che io son Piccarda”. Piccarda è un nome fantastico. Ricordo quando ai corsi di scrittura mi dicevano: “Ma se si chiama Teresa”, è un bel nome, ma voglio dire, Piccarda è un nome potente. “Ricordati di me che son la Pia”, sono tutti nomi straordinari quelli usati da Dante, tutti nomi che hanno una forza evocativa, carichi, e anche Morrocco, l’isola dei Sardi, la Spagna, Seuta… tutte parole cariche di ricchezza evocativa, e in questo è erede dei Greci, che avevano un senso musicale del nome proprio che ci incanta ancora oggi: Alcinoo, Euridice, Orfeo, Filottete, sono nomi stupefacenti. E anche quelli dei luoghi: Naupatto, Eubea, Fteotide, se pensiamo ai nomi lombardi Carate, Albiate, Carugate…
Il mondo celtico va bene però questo suffisso in ate non è che apra degli orizzonti. Se leggiamo la topografia di Omero è stupefacente, ma basta prendere una carta topografica della Grecia antica: Acaia, Laconia, Argolide, non c’è un nome sbagliato, sono nomi strepitosamente belli; quindi Dante è grande maestro in questo e lo è anche perché, se avete notato, quando un reduce racconta un percorso in territori, magari reduce dalla Russia, comincia con un repertorio di nomi russi che nessuno sa dove collocare; i reduci ricordano soprattutto i nomi, perché la memoria è fissata su nomi che hanno avuto potere di incatenare l’attenzione e l’emozione, e Dante in questo modo non solo ci dà un’immagine geografica molto più suggestiva e più efficace che se avesse descritto i luoghi, ma ci dà anche l’autenticità del racconto di chi ha vissuto questo viaggio, di chi ha vissuto l’avventura: un racconto molto credibile, molto piano, molto convincente».
«Avvenire» del 23 giugno 2013

04 giugno 2013

Tronti: «Rabbia e rancore contro il bersaglio sbagliato»

La discriminazione dei cristiani
di Alessandro Zaccuri
Impegnativo editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul «Corriere della Sera» di domenica. Riferendosi alle recenti inchieste di «Avvenire», il politologo passa in rassegna alcuni tra gli episodi più clamorosi di marginalizzazione e vessazione contro i cristiani in Europa. Un fenomeno che, connesso alla volontà di ridurre la fede a «puro fatto privato», porta a misconoscere il ruolo decisivo svolto dal cristianesimo a favore dell’idea stessa di libertà di coscienza
Rabbia e rancore, scaricati sul primo bersaglio a disposizione. È in questa prospettiva che il filosofo Mario Tronti (protagonista tra i più inquieti e originali della sinistra italiana, molto noto anche per la sua recente posizione di «marxista ratzingeriano») suggerisce di analizzare il fenomeno descritto da Ernesto Galli della Loggia nel suo editoriale dell’altro giorno. «Mi pare – dice – che questa ventata di intolleranza anticristiana rientri in un clima generale più volte denunciato, ma che non accenna ad attenuarsi».
A che cosa si riferisce?
«Al degrado della dimensione antropologica, che è forse il dato più evidente della crisi di civiltà in cui ci stiamo dibattendo da alcuni decenni. Le società occidentali sono in preda a una deriva che coinvolge per intero la sfera dei valori, sempre più ridotta a favore di una competizione selvaggia tra gli individui. Un quadro già di per sé inquietante e che ha subìto un’accelerazione drammatica per effetto della crisi economico-finanziaria».
Sì, ma perché prendersela con la religione?
«Una volta abbandonati a se stessi, privi dei riferimenti elementari fin qui costituiti per esempio dalla famiglia, gli individui sono condannati a concentrarsi sugli obiettivi sbagliati. Nella fattispecie la coscienza cristiana, che ha svolto un ruolo tanto importante nella formazione della mentalità europea, viene percepita solo come controparte con cui polemizzare, scaricando così la rabbia accumulata altrove. Una rabbia che ormai non ha più alcuna connotazione di rivolta, ma si esaurisce in un rancore pronto ad abbattersi contro ciò che è più vicino, più familiare e, in fin dei conti, più vulnerabile».
Tutto in nome della libertà?
«In nome di una concezione distorta e antistorica della libertà, che non coglie alcune contraddizioni di fondo. La principale, a mio avviso, sta nel fatto che, prendendo di mira il cristianesimo, ci si scaglia non solo contro la tradizione che sta all’origine dell’idea stessa di libertà, ma anche contro una forza che ancora oggi potrebbe fornire una soluzione ai problemi da cui siamo angosciati. Mentre in teoria si invoca la responsabilità suprema dell’autodeterminazione, in pratica non si fa altro che rivendicare il proprio diritto all’irresponsabilità. Il diritto, in parole povere, a fare quello che si vuole: qualsiasi desiderio dev’essere sancito per legge, qualsiasi capriccio dev’essere ratificato dal costume. E qualsiasi elemento si opponga a questo meccanismo, dev’essere spazzato via. Religione compresa».
Eppure, nel frattempo, non viene riconosciuto il diritto dei medici all’obiezione di coscienza ...
«Caso delicatissimo, che invece si pretende di liquidare con il solito appello ai diritti individuali. Ma in questo modo si disgregano quegli stessi valori che per tanto tempo hanno garantito la coesione della società. Il risultato è una frantumazione che si traduce in una costante, e preoccupante, caduta etica. Il nodo è sempre lo stesso: nel momento in cui non si accetta che l’azione del singolo possa avere un limite, ci si batte perché i limiti vengano cancellati e una malintesa libertà possa dettar legge».
Ma ci sarà pure un rimedio, no?
«C’è ed è, una volta di più, qualcosa che rischiamo di lasciarci alle spalle. Si tratta di una concezione della politica diversa da quella che si sta purtroppo diffondendo, un poltiica in virtù della quale posizioni differenti possono trovarsi a dialogare senza essere condannate allo scontro. Una cultura civile, un luogo di una tolleranza autentica, quella stessa tolleranza che è sempre stata presentata come il più alto tra i valori della laicità. E che oggi dalla laicità viene tradita e abbandonata».
«Avvenire» del 4 giugno 2013

Botturi: «Non solo irrilevanza, la secolarizzazzione è una sfida»

Il dibattito sui cristiani discriminati
di Alessandro Zaccuri
Cristiani sempre più discriminati in Europa: anche Ernesto Galli della Loggia rilancia l’allarme. Gli fanno eco le riflessioni di intellettuali credenti e non credenti
Si fa presto a dire secolarizzazione. «In realtà – osserva Francesco Botturi, ordinario di Filosofia morale alla Cattolica di Milano – il quadro descritto domenica sul “Corriere” da Ernesto Galli della Loggia si presta a tutta una serie di valutazioni, che non hanno necessariamente come punto di partenza la pretesa “irrilevanza” della religione sulla scena pubblica».
Non sarà troppo ottimista, professore?
«Non direi, se non altro perché il fenomeno è in atto da tempo, risale già al Pontificato di Giovanni Paolo II e si traduce in un rinnovato atteggiamento di interesse per l’esperienza cristiana. Nel contesto occidentale, insomma, lo spazio di indifferenza che, per effetto della secolarizzazione, si era creato intorno al fatto religioso tende sempre più a ridursi, come dimostra anche l’attenzione con cui l’opinione pubblica ha seguito le recenti vicende relative alla vita della Chiesa cattolica».
Nessuna marginalità, dunque?
«Quanto sta accadendo è più complesso, perché complessa è la secolarizzazione in sé, specie in questa sua fase crepuscolare. Al rinnovo di interesse per la religione corrisponde infatti il rinfocolarsi di un atteggiamento a sua volta non inedito nella mentalità europea. Mi riferisco al tentativo di escludere la fede dall’ambito della sfera pubblica, tentativo che ai giorni nostri si presenta in modo tanto più forte quanto più il vettore della secolarizzazione tende a esaurirsi».
Può essere più chiaro?
«Si insiste molto, e giustamente, sulla tendenza a relegare la fede nell’ambito privato. Ma questa è soltanto la fase più debole e transitoria dell’intero processo. Quella che stiamo vivendo è in effetti la stagione successiva, nella quale si fronteggiano i due elementi che ho fin qui cercato di descrivere: da un lato la rivalutazione della religione come fonte di identità o comunque di senso, dall’altra un dispositivo ad excludendum, per cui alla religione stessa viene negata qualsiasi cittadinanza pubblica, con le conseguenze che Galli della Loggia ha voluto elencare. Ma in questo momento le premesse ideali o, se si preferisce, ideologiche che stavano alla base della secolarizzazione sono sempre più labili, sempre meno percepite. L’intolleranza che ne deriva ha caratteristiche eminentemente pratiche e quindi tanto più sbrigative».
C’è una via d’uscita?
«La stessa che tutto l’Occidente è oggi chiamato a percorrere: davanti al travaglio che segna il nostro tempo, siamo chiamati a uno sforzo di pensiero, nel senso di una riproposta dei valori che passi attraverso un’opera di rifondazione. Per dirla con una formula, riuscirà a sopravvivere soltanto ciò che sarà radicalmente ripensato».
Vale anche per la religione?
«Certo, ma vale anche per il suo opposto, e cioè per questa falsa tolleranza dietro la quale si maschera l’intolleranza di quanti postulano che la fede non possa esprimere alcunché di fondamentale e tanto meno di fondativo. Se davvero si vogliono sostenere queste tesi, però, non basta appellarsi allo schema della religione come sentimento privato. Si tratta di una posizione ormai datata, che non rende giustizia della criticità attuale».
Tempi duri per i cristiani?
«Siamo tutti risospinti nell’agone e non è detto che questo sia un male. L’alternativa è secca: o come credenti riusciamo a contare sul piano dei fondamenti oppure non contiamo affatto. È la logica di ogni evoluzione culturale, alla quale occorre rispondere elaborando un linguaggio pubblico, capace di rendere conto della nostra identità e, insieme, di mostrarsi sensibile al pluralismo».
«Avvenire» del 4 giugno 2013

I cristiani e la libertà minacciata

L'intolleranza verso la religione
di Ernesto Galli Della Loggia
Una grande rivoluzione sta silenziosamente giungendo al suo epilogo in Europa. Una rivoluzione della mentalità e del costume collettivi che segna una gigantesca frattura rispetto al passato: la rivoluzione antireligiosa. Una rivoluzione che colpisce indistintamente il fatto religioso in sé, da qualunque confessione rappresentato, ma che per ragioni storiche, e dal momento che è dell'Europa che si parla, si presenta come una rivoluzione essenzialmente anticristiana.Ormai, non solo le Chiese cristiane sono state progressivamente espulse quasi dappertutto da ogni ambito pubblico appena rilevante, non solo all'insieme della loro fede non viene più assegnato nella maggior parte del continente alcun ruolo realmente significativo nel determinare gli orientamenti delle politiche pubbliche ? non solo cioè si è affermata prepotentemente la tendenza a ridurre il cristianesimo e la religione in genere a puro fatto privato ? ma contro il cristianesimo stesso, a differenza di tutte le altre religioni, appare oggi lecito rivolgere le offese più aspre, le più sanguinose contumelie.
Ecco alcuni esempi, tra gli innumerevoli che potrebbero farsi, di quanto sto dicendo (tratti in parte da una dettagliata denuncia pubblicata su un recente numero di Avvenire). In Irlanda le chiese sono obbligate ad affittare le sale per le cerimonie di loro proprietà anche per ricevimenti di nozze tra omosessuali; a Roma, nel corso del concerto del Primo Maggio un cantante ha mimato il gesto rituale della consacrazione dell'ostia durante l'eucarestia avendo però tra le mani un preservativo al posto dell'ostia; in Danimarca il Parlamento ha approvato una legge che obbliga la Chiesa evangelica luterana a celebrare matrimoni omosessuali nonostante un terzo dei ministri di questa si siano detti contrari; in Scozia due ostetriche cattoliche sono state obbligate da una sentenza a prendere parte a un aborto effettuato dalle loro colleghe, mentre dal canto suo l'Ordine dei medici inglese ha stabilito che i medici stessi «devono» essere preparati a mettere da parte il proprio credo personale riguardo alcune aree controverse. Ancora: in un recente video di David Bowie, in cui la celebre rockstar è abbigliato in modo che ricorda Gesù, la scena mostra un prete che dopo aver percosso un mendicante entra in un bordello e qui seduce una suora sulle cui mani subito dopo si manifestano le stigmate; in Inghilterra, a un'infermiera è stato proibito di portare una croce al collo durante l'orario di lavoro, mentre una piccola tipografia è stata costretta ad affrontare le vie legali per essersi rifiutata di stampare materiale esplicitamente sessuale commissionatole da una rivista gay; in Francia, in base alla legislazione vigente, è di fatto impossibile per i cristiani sostenere pubblicamente che le relazioni sessuali tra persone dello stesso sesso costituiscono secondo la loro religione un peccato. E così via in un profluvio impressionante di casi (per informarsi dei quali non c'è che andare sul sito wwww.intoleranceagainstchristians.eu).
Senza contare che ormai in quasi tutti i Paesi europei, al fine proclamato di impedire qualunque pratica discriminatoria, è stata cancellata l'erogazione di fondi alle istituzioni cristiane, così come è stata cancellata la clausola a protezione della libertà di coscienza nelle professioni mediche e paramediche. Non si contano infine in tutte le sedi più o meno ufficiali, a cominciare da quelle scolastiche, i casi di cancellazione, a proposito delle relative festività, della parola Natale, sostituito dal neutrale «vacanze invernali» o simili.Ce n'è abbastanza da suscitare la preoccupazione di qualunque coscienza liberale. Qui infatti non si tratta tanto di cristianesimo, di Chiesa, o di religione, bensì di qualcosa di ben più importante: si tratta di libertà. E di storia. Di consapevolezza cioè che in Europa la libertà religiosa ha rappresentato storicamente l'origine (e la condizione) di tutte le libertà civili e politiche. Essere assolutamente liberi di adorare il proprio Dio, di propagarne la fede, di osservarne i comandamenti, di aderire alla visione del mondo e al senso dell'esistere che questi definiscono, di praticarne pubblicamente il culto; ma anche naturalmente essere libero di non avere alcun Dio e alcun culto: da qui è partito il cammino della libertà europea. E c'è bisogno di ricordare che si è trattato del Dio cristiano?La libertà religiosa vuol dire alla fine null'altro che la libertà della coscienza, cioè il non essere obbligati per nessuna ragione ad abbracciare idee o comportamenti contrari ai dettami accettati nel proprio foro interiore. Che è appunto la libertà di autodeterminarsi: e pertanto anche di parlare, di scrivere, di discutere a sostegno delle proprie convinzioni, così come di ascoltare quelle altrui e magari farsene convincere.Insomma, libertà religiosa da un lato e dall'altro libertà di opinione e di parola ? che sono i due pilastri della libertà politica ? vanno all'unisono. È innanzi tutto da questo punto di vista, dunque, che è quanto mai preoccupante il fatto che oggi, in Europa, in molti luoghi e per molti versi, la libertà dei cristiani appaia oggettivamente messa in pericolo. E non importa che ciò avvenga per il proposito di proteggere da supposte discriminazioni questa o quella minoranza. È anzi semplicemente paradossale, dal momento che nell'attuale panorama del continente sono i cristiani in quanto tali che appaiono una minoranza. Lo sono di certo ? e massimamente i cristiani cattolici e la loro Chiesa ? rispetto al mainstream dell'opinione e del costume dominanti e culturalmente accreditati. Basta vedere come nelle materie più scottanti alcuna voce autorevole, riconosciuta generalmente come tale, si alzi quasi mai a sostegno del loro punto di vista; come ogni accusa nei confronti loro e del loro clero raccolga sempre larghissimo favore; come ogni attribuzione di responsabilità storica per qualunque cosa negativa del passato, anche la più fantasiosa, sia invece sempre di primo acchito giudicata fondatissima. È forse ora che l'Europa che si dice e si vuole «Europa dei diritti» ? ma che finisce troppo spesso per essere solo l'Europa del pensiero unico politicamente corretto ? ricordi il celebre ammaestramento di una grande figlia dell'ebraismo rivoluzionario, Rosa Luxemburg. La quale si può presumere che come ebrea e rivoluzionaria sapesse bene ciò di cui parlava: «La libertà è sempre e solo la libertà di chi la pensa diversamente».
«Corriere della Sera» del 2 giugno 2013