02 marzo 2013

La letteratura non è scrivere storie

L’intervento
di Philippe Djian
Il libro, la protagonista e... le virgolette
Philippe Djian, che col Festival sarà a Roma, è nato a Parigi nel 1949. Autore di culto, tradotto in Italia da Voland (che pubblica sia le sue ultime prove sia la sua backlist), è diventato celebre con «37˚2al mattino», dal quale Jean-Jacques Beineix ha tratto il film «Betty Blue». Per «la Lettura» racconta come scrive e la genesi del suo ultimo libro (vincitore del premio Interallié) che Voland pubblicherà il 7 marzo.

Il titolo di questo romanzo è un “Oh…”, sospeso tra virgolette e con i puntini di sospensione appunto. Quando ho consegnato il manoscritto alla mia casa editrice, Gallimard, mi hanno ridato le prime bozze con il titolo tra virgolette francesi, tipo le caporali. Ho chiesto allora che venissero mantenute le virgolette inglesi, dei piccoli apostrofi un po’ sospesi in aria, perché dal punto di vista visivo corrispondono meglio alla mia idea del libro e poi sono più aerei e sono le ultime parole dell’eroina, se vogliamo chiamarla eroina, il personaggio principale del libro, che è una donna, Michèle. Questo “Oh…” è una risposta che in realtà non lo è veramente. La migliore amica di Michèle ha lasciato il marito e le chiede se le affitta una stanza di casa sua. Michèle non risponde né sì né no, anche se io penso che il suo sia un sì, ma non può dirlo subito.
Mi piaceva chiudere questo romanzo con qualcosa di così aereo tanto più che, grazie alla simpatia e alla comprensione di Antoine Gallimard, ho potuto ottenere queste virgolette inglesi sulle copertine bianche della casa editrice, perché — cosa che non sapevo — c’è un solo font per la famosa copertina bianca. Quando ho chiesto di cambiare le virgolette, le persone addette alla composizione erano un po’ preoccupate, era qualcosa di troppo rivoluzionario… Abbiamo dovuto fare appello direttamente ad Antoine Gallimard, che sorridendo ha dato naturalmente il suo consenso.
Quando ho scritto la prima frase, non sapevo ancora che fosse una donna a parlare. Mi è venuta una frase su un graffio a una guancia e ho cercato di lavorarci. Mi sono detto che non poteva essere pronunciata da un uomo e così mi sono incamminato verso Michèle. In quel momento non sapevo se quella voce avrebbe parlato per un paragrafo o per tutto il libro… non so perché Michèle è caduta e si ritrova a terra. È la lingua che induce la storia. Quando scrivo sento che è la scrittura che costruisce. E non è la storia di uno stupro: lo stupro è ciò che dà il via al romanzo. È piuttosto il romanzo di una donna che è capace di rialzarsi. Quando ho iniziato, istintivamente ho pensato che se provavo a mettermi nei panni di una donna e se provavo a parlare come una donna sarei andato a sbattere contro un muro, se invece rimanevo uno scrittore uomo ma trattavo i pensieri, le aspirazioni e le cose che interessavano questa donna, come un uomo che scrive al posto di una donna, potevo arrivare a qualcosa di interessante. La cosa buffa è che molte lettrici mi hanno detto che sembrava proprio una donna a parlare, ma io non credo affatto. La cosa interessante è che si percepisce che dietro la voce di quella donna c’è un uomo, il lato femminile di uomo.
Scrivendo questo libro mi sono immerso in un’atmosfera tremenda e sono gli uomini a renderla così tremenda. La storia racconta trenta giorni di una donna. È il mese di dicembre: «Dicembre è il mese in cui gli uomini si ubriacano — uccidono, violentano, si accoppiano, riconoscono bambini non loro, scappano, si lamentano, muoiono».
Avrebbe potuto essere anche agosto, noi uomini siamo altrettanto terribili negli altri mesi.
Le mie storie sono come delle favole crudeli. Nelle prime righe sapevo soltanto che Michèle non vedeva il padre da molto tempo, ed è lei che dopo mi ha raccontato che suo padre era in prigione, ed è lei che mi ha spiegato che cosa era successo. La serie di problemi che Michèle ha con la sua famiglia, non è realistica, non è plausibile, ma la letteratura perme non è fatta per raccontare la realtà.
La storia per me non è molto interessante. È un po’ come un campo da gioco, può accadere qualsiasi cosa in quel campo, ci si può divertire, può succedere di tutto ma il mio lavoro è al di fuori. Io lavoro sulla scrittura. All’inizio non ho assolutamente nessuna idea di quello che accadrà. Ho sempre in mente i registi di cui mi sono nutrito nella mia gioventù, registi come Ford o Hawks, e loro come me non erano interessati alla storia; si può magnificare qualsiasi cosa se si sa lavorare la lingua.
Tutti i miei romanzi hanno sempre avuto come protagonisti scrittori perché volevo parlare di letteratura, volevo dire che la letteratura non è raccontare storie, la letteratura è altro, provavo a usare espedienti e temi nei quali potevo introdurre la letteratura e la lingua. Qui ho deciso di cambiare, non ci sono più scrittori ma sono sempre personaggi che hanno a che fare con la lingua. Persone capaci di riconoscere un buon libro, una bella sceneggiatura. Michèle ammette di non essere in grado di scrivere una buona sceneggiatura, ma sa riconoscere quali sono quelle buone. Io sono incapace di dire perché la mia scrittura possa interessare qualcuno, so che interessa me.
Come esergo del romanzo ho messo una citazione di Eudora Welty. È una scrittrice incredibile che ho scoperto per caso. Negli Stati Uniti è molto nota. È di una freschezza e inventiva incredibile, c’è tutto quello che negli scrittori mi appassiona. Dovrebbe essere l’esempio per molti giovani autori: la sua scrittura è superba.
(Traduzione di Valentina Parlato)


«Corriere della Sera - Suppl. La letura di fine febbraio 2013» del gennaio 2013

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