13 febbraio 2013

Caro Papa

La logica del mondo, la logica di Dio
di Alessandro D’Avenia
Caro Papa, manca un accento all’ultima lettera di que­sto tuo nome, Papa, e verrebbe fuori un’altra pa­rola. La parola che ogni figlio pronuncia migliaia di volte nella vita e che un figlio di Dio ha la for­tuna di pronunciare molte più volte perché, al­la fine, la vita cristiana è imparare a dire abbà, papà, a Dio.
Alla notizia della tua rinuncia ho avuto paura. Ho provato lo stesso dolore per la morte di Gio­vanni Paolo II: allora avevo 28 anni e mi sentii orfano, piansi come chi ha perso un padre.
Lunedì mi è successo lo stesso. Mi sono sentito orfano. Tu avevi deciso di non essere più Papa. Un altro padre mi veniva meno. È il dolore di un figlio che ha ricevuto moltissimo. Ho seguito il tuo pontificato sin dal momento in cui ti sei af­facciato per la prima volta dal balcone (abitavo a Roma allora). Ho letto i tuoi scritti, mi sono nu­trito delle tue parole sempre profonde e stra­namente semplici per un professore di teolo­gia, perché fondate sul rapporto vero con Dio (quanto gelo nelle parole di alcuni pastori che capita di ascoltare...).
In questi anni in cui la fede è spesso messa alla prova, dileggiata, fraintesa, tu hai fatto da para­fulmine a molte critiche. Le hai prese tutte su di te. Non te ne importava niente di essere colpi­to. Sono beati quelli che vengono colpiti a cau­sa di Cristo e chissà quanta della sporcizia che c’è nella Chiesa è stata gettata su di te per il fat­to di essere quel padre di famiglia che è il Papa. Tu hai sempre dimostrato e chissà con quanto dolore, dal discorso di Ratisbona a quello sul matrimonio, che l’unico consenso che ti inte­ressa è quello di tuo Padre Dio, cioè della verità, del logos.
Per questo ho avuto paura quando hai annunciato la tua rinuncia. Sul momento mi è sembrato un tirarsi indietro. Se ti tiri indietro anche tu, che sei il Papa, che fine facciamo noi? Ho ripensato a una tua frase che mi porto nel cuore: «Fedeltà è il nome che ha l’amore nel tempo». Me la ricordo tutte le volte che il mio e l’altrui amore è messo alla prova e devo ag­grapparmi con tutte le forze all’Amore che muove tutti gli altri amori, oltre che il sole e le altre stelle. In questi anni la mia fede si è raffor­zata grazie a quel logos cortese, fermo e caldo che tu sai infondere alle parole che usi, come (tanto per fare un esempio) queste che ho let­to qualche giorno fa: «Dio, con la sua verità, si oppone alla molteplice menzogna dell’uomo, al suo egoismo e alla sua superbia. Dio è amo­re. Ma l’amore può anche essere odiato, laddove esige che si esca da se stessi per andare al di là di se stessi. L’amore non è un romantico sen­so di benessere. Redenzione non è wellness, un bagno nell’autocompiacimento, bensì una li­berazione dall’essere compressi nel proprio io. Questa liberazione ha come costo la sofferen­za della Croce». Ripensando alla tua frase, leggendo queste pa­role, le tue 'dimissioni' mi sembravano in­comprensibili e mi hanno gettato nello sgo­mento.
Mi sono sentito solo. A che serve difen­dere la propria fede se poi anche il Papa si tira indietro. Poi a poco a poco l’emotività ha la­sciato lo spazio al logos appunto, alla verità, a Cristo, e una grande pace è tornata nel cuore. Dovevo andare oltre il codice di interpretazio­ne soggettivo, emotivo, mondano. Rinunciare rappresenta un fallimento per il mondo, è un gesto di debolezza per il mondo, nel quale si 'è' solo se ci si afferma, a ogni costo. La logica del­la debolezza non è del mondo. Del mondo è la logica del potere e dell’egoismo. Per questo il tuo gesto è un gesto di libertà dall’io e non di fu­ga da Dio, nel quale ti vuoi rifugiare del tutto per continuare a sostenere la Chiesa più e meglio.
Con questo gesto fai trionfare una logica diver­sa, un logos diverso. Quello di chi sa che la sua preghiera silenziosa vale tanto quanto la sua a­zione, e lascia quest’ultima a chi può meglio di lui portarla avanti. Doveva suonare allo stesso modo, fastidiosa e inspiegabile, la frase di Cri­sto ai suoi: «È bene che io me ne vada perché venga a voi un altro consolatore».
Anche Cristo sembra tirarsi indietro, ma così vince: lascia lo spazio alla potenza dello Spirito, non si lascia legare neanche dalla sua condizione umana, dà tutto, anche quella, si espropria di tutto se stesso, perché come tu hai spiegato nel tuo libro più bello 'essere cristiani' è 'essere per'. Egli pone nelle mani dei suoi il compito di continuare le sue opere e afferma che ne faranno anche di più grandi delle sue. Ti ringrazio, caro Papa, per tutto il logos che ci hai donato e ci donerai sino al 28 febbraio, da Papa, ma anche per il logos che ci donerai dopo, nel silenzio che il mondo già chiama sconfitta, sotterfugio, fuga, e che è invece vittoria. Non mi sento più solo, perché ancora una volta mi hai aiutato a guardare all’unica cosa che conta, l’unica di cui c’è bisogno, il Logos stesso. Una sola cosa ti chiedo. Non dare le dimissioni dalla scrittura. Continua a nutrire la nostra fede con il tuo logos. Non farlo sarebbe dare le dimissioni da un talento e il Vangelo parla chiaro in merito... Con affetto​
«Avvenire» del 13 febbraio 2013

Il seme fertile di una rinuncia

Una diversa visione del sacro
di Ernesto Galli della Loggia
Con il passare delle ore appare sempre più evidente che il gesto con cui Benedetto XVI ha posto fine al suo pontificato, lungi dall'essere un gesto di «rinuncia», è stato in realtà l'opposto: un gesto di governo di grande portata e insieme un atto di alto magistero spirituale. Un gesto che ha qualcosa di quella risolutezza del pensiero, pronta a divenire decisione concreta nella prassi, di cui negli ultimi due secoli hanno dato tante prove le vicende della Germania di cui Ratzinger è un figlio.
Le dimissioni papali vogliono dire con la forza delle cose un'oggettiva desacralizzazione della sua carica. Il contenuto teologico di questa (l'essere cioè egli il vicario di Cristo) rimarrà pure inalterato, ma sono i suoi modi di designazione e il suo esercizio, la sua «aura», che vengono riportati a una dimensione assolutamente comune. Se infatti è possibile che il Papa si dimetta - rovesciando così una prassi secolare del vertice supremo - allora anche altre novità sono possibili. Anche altre prassi secolari possono egualmente essere rovesciate ai livelli inferiori. Con il gesto di Benedetto XVI è dunque il modo d'essere della struttura centrale del governo della Chiesa che viene in realtà messo in discussione: sottoposto al riscontro dei fatti, alla dura prova del tempo e della pochezza umana. E i fatti di quella struttura, come si sa, hanno offerto ultimamente uno spettacolo penoso di cattivi costumi, di calunnie, di giochi di potere, di ambizioni senza freno, di latrocini. Colpa delle regole fin qui in vigore nella Curia e non solo lì: ma quelle regole possono e devono cambiare, dice il gesto del Papa. Come per l'appunto egli ha fatto con una regola (e quale regola!) che lo riguardava. Può ancora, per esempio, la sua stessa elezione essere riservata a un pugno di anziani oligarchi maschi per entrare nel cui novero non si bada a nulla? Può ancora il potere delle Congregazioni essere tutto concentrato nelle loro mani? È ammissibile che esista tuttora un bubbone come lo Ior, la banca vaticana?
Le dimissioni di Benedetto XVI interrogano esplicitamente la Chiesa su queste e molte altre questioni di fondo. Con un sottinteso non detto che però non è difficile intuire: o voi o io. In questo senso esse rappresentano un gesto di governo di assoluta risolutezza: l'unico probabilmente che gli consentiva il suo isolamento politico e la fragilità del consenso interno. Un gesto estremo, il più clamoroso, compiuto senza esitare.
Tuttavia, si dice, le dimissioni sono pur sempre un tirarsi indietro, una rinuncia. Certamente. Ma una rinuncia che in questo caso suona come un invito a ridefinire la gerarchia delle cose, a stabilire priorità più autentiche, a distinguere ciò che conta da ciò che non conta. E dunque a cambiare rispetto a ciò che siamo. Un invito che va ben oltre i confini della cattolicità. Di fronte al travolgente mutamento dell'epoca che incalza da ogni dove, il capo della più antica e veneranda istituzione dell'Occidente, dà una lezione spirituale di segno fortissimo mutando esso per primo attraverso la rinuncia. Le nostre società, noi stessi - esso sembra dirci - non possiamo essere più ciò che fino ad oggi siamo stati. I segni dei tempi ci impongono di trovare altre regole, di immaginare altri scopi, altri ideali per il nostro stare insieme. Dal tratto più intimo, più sobrio, più vero. È di un tale rinnovamento che abbiamo bisogno. Ma la premessa necessaria non è proprio, secondo l'esempio del Papa, dichiarare consapevolmente il proprio tempo finito?
«Corriere della sera» del 13 febbraio 2013

11 febbraio 2013

L'amore ai tempi di Internet

Dalla scelta del locale a quella del cocktail: sì al Martini, no al Negroni, meglio il Mojito dello Spritz San Valentino. Le tecniche e il teorema dei Neg: brevi frasi negative, ironiche, a ferire l'orgoglio della donna
di Luca Mastrantonio
L'abbondanza di incontri e la paura di sbagliare piattaforma hanno reso «disfunzionale» il corteggiamento. Manuale di conquista (reale e virtuale)
Il fascino dell'anonimato «Ma c'è gente anche normale? Voglio dire, gente come me?» È la domanda di chi si informa sui siti web di incontri e vuole sentirsi dire sì, certo. Da chi magari ha fatto la stessa domanda a qualcun altro, ottenendo la stessa risposta e così, a ritroso, si risale fino ai fondatori. I quali sostengono di aver avuto l'idea del dating online dalle chiacchiere con amici che si lamentavano di conoscere poche persone. Il cerchio si chiude e le implicazioni di quell'anche sfumano. In Italia molti lo fanno ma non lo dicono. E se lo raccontano chiedono di restare anonimi ? l'anonimato è il motore psico-sociale di questi siti: riduce la timidezza, allarga il giro, stimola la fantasia. Frequentarli è un lungo, eccitante, deludente, strano appuntamento al buio. Mirato, perché Cupido, nel giocare con le armi di Marte che colpiscono da lontano, prova a togliersi la benda: ieri arco e frecce, oggi sms, chat e algoritmi che elaborano i dati degli utenti e segnalano affinità. Come l'americano OkCupid, il cui test ha domande di ogni tipo. Da «Per te è accettabile abortire?» a «Per te quante volte alla settimana una persona si deve lavare i denti?».

Cupido off/on-line
Ma il corteggiamento? C'è chi lo dà per finito. Ciclicamente. Alternando romanticismo luddista e machismo ferito (Massimo Fini sull'Europeo del 1993 accusava le donne di aver criminalizzato il corteggiamento in molestia). A inizio 2013 il «New York Times» ha fatto il punto (interrogativo): incontri online e tecnologia creano maggiore disponibilità di appuntamenti, ma anche maggiore asincronicità, confusione di ruoli e sentimenti, rendendo il corteggiamento disfunzionale, senza intimità, di breve respiro. È l'apoteosi del rimorchio? La fine del corteggiamento? In realtà sembra che all'aumentare dei modi di corteggiare corrisponda un aumento di errori e di possibilità di «scorteggiamento». Apparentemente nulla di nuovo sotto il sole. Ma le cose sono cambiate all'ombra luminosa degli schermi dove chattare, postare, messaggiare e video-collegarsi con più persone, anche lontane, anche sconosciute. Anche normali. Anche in Italia, secondo i numeri forniti dai principali siti. Un italiano su quattro tra i 25 e i 65 anni - dati dell'istituto Tns raccolti per conto di Meetic - ha iniziato una relazione grazie ad un sito di incontri. Al di là dell'imbarazzo dei singoli ad ammetterlo pubblicamente, il mercato è in crescita.Nativi e tardivi digitaliIl 61 per cento di chi frequenta siti di incontri, in Italia, ha meno di 39 anni. Diviso in due fasce: il 29 per cento è tra i 18 e i 29 anni, il 32 ha tra i 29 e i 39 anni. Così, almeno, secondo l'indagine europea dell'istituto tedesco Trend Research, per conto di C-Date, specializzato in incontri casuali e senza impegno. Su altri siti, invece, la popolazione è più adulta. Il rimorchio via web è praticato dai nativi digitali con naturalezza, dai tardivi con l'entusiasmo consapevole del neofita maturo. E non è detto che il corteggiamento online escluda quello offline. Piuttosto lo integra, completa. O simula. Alle rose rosse corrispondono i «like» su Facebook, alle serenate le canzoni di YouTube, ai «Ti amo» sui muri sotto casa le scritte sulla bacheca.

Cacciatrici e carta fedeltà
Ma i luoghi di corteggiamento virtuali e reali hanno problemi comuni. Ad esempio: poche donne, troppi uomini. Come riequilibrare? Su alcuni siti le donne hanno l'iscrizione gratuita o agevolazioni per i servizi a pagamento. I maschi no. Non basta? Qualcuno ha capovolto lo schema: Luca Vavassori, classe 1982, startupper tra New York e Londra, ha fondato nel 2012 Cacciatrici: «Le mie amiche lamentavano di venire letteralmente inondate da dozzine di messaggi di maschi, metà dei quali a sfondo sessuale. Cacciatrici.it ribalta i ruoli e catapulta la donna nei panni di una Cacciatrice che mette gli ometti di suo gradimento nel suo recinto». A breve partirà anche con GirlShop.it, per ragazze under 35, che avranno a disposizione una «Carta fedeltà: più maschietti ordina, più punti potrà raccogliere, che poi potrà usare per ricevere gadget, gift-card in negozi di abbigliamento, set di trucchi».Semplice, solare, simpatico Il corteggiamento 2.0 inizia dalla compilazione del profilo. Prima ancora di come vestirsi al primo appuntamento. Il profilo è lo specchio delle brame. Proprie e altrui. Fondamentali: foto con occhi e viso scoperti, descrizione breve ma intrigante, personalizzata, senza spararle grosse. Di fatto è una mini-biografia, quasi un genere letterario. Molto praticato, infatti, dalla rivista «McSweeney's» di Dave Eggers. Jimmy Chen ha immaginato il profilo di Raymond Carver per OkCupid. Sarah Marcus ha giocato sulle battute in comune tra i primi appuntamenti e i film horror. Frank Ferri ha consultato degli psichiatri per fare una diagnosi (umoristica) delle frasi usate nei profili. «Casa dolce casa»? Significa: «Agorafobico cerca agorafobica per una relazione a distanza». Il requisito richiesto è «R-i-s-p-e-t-t-o!»? Si tratta di una «donna dominante che cerca un uomo con Sindrome di Stoccolma passiva». L'annuncio «Notte e giorno, giorno e notte» va tradotto così: «Nictofobico cerca fotofobico per divertenti battaglie per l'interruttore».
Le frasi ingenue sono da evitare come quelle ad effetto. Come ricordano le Ocarine, gruppo di blogger che ha segnalato a Solferino28anni (blog del «Corsera» sui giovani) le loro disavventure del dating online. Ne hanno ricavato consigli e regole, come quella delle Tre Esse: diffidare sempre di chi si presenta come «semplice, solare, simpatico». Sono i più noiosi e pigri, conferma la scrittrice Violetta Bellocchio, classe 1977 (Sono io che me ne vado, Mondadori): «Si presentano come se dovessero partecipare ad un reality. Quando leggo "sono semplice, voglio divertirmi" ogni volta penso di rispondergli: "A me invece piace la morte, che peccato!"». La versione femminile a volte è peggio: «Sono un po' pazzerella!». Oppure: «Scoprimi».

Baciare con la mente
Le mail no. Per rimorchiare non vanno bene, troppo prolisse. Per corteggiare sì, meglio. Ma l'incontro non è assicurato. Come nel romanzo Le ho mai raccontato del vento del nord dell'austriaco Daniel Glattauer (Feltrinelli). Storia di un intenso amore epistolare tra due sconosciuti, nato per un indirizzo sbagliato tra Emmi e Leo. Frase cult: «Scrivere è come baciare, solo senza labbra. Scrivere è baciare con la mente». Molto citata, esprime lo spirito del corteggiamento via chat ed sms. Ma la frase più efficace per approcciare una ragazza, secondo una ricerca del sito Badoo, è proprio «hai delle labbra bellissime». Gli uomini timidi non la usano, temono sia troppo esplicita e fanno gli stilnovisti, ipocriti, parlando degli occhi. Ma se le donne amano il rossetto, una ragione ci sarà: le labbra sono la parte che vogliono valorizzare. Per chi non ama le sorprese, comunque, mai chattare con utenti senza foto: in Closer (2004) lo scrittore interpretato da Jude Law seduce Clive Owen fingendosi donna.

La puntualità (non) è tutto
Il primo appuntamento resta il momento fondante. Punto di arrivo del corteggiamento online, punto di partenza di quello off-line. Il rispetto dei tempi determina i ruoli. Come nella scena di Jules et Jim (1962) di Francois Truffaut in cui Catherine e Jim si devono vedere presso un caffè parigino, alle sette. Lui arriva con qualche minuto di ritardo per ottimismo, e non vedendola teme che lei se ne sia già andata; aspetta, ma se ne va poco prima che lei, più ottimista di lui, arrivi. Così nella didascalia all'inizio del film c'è il senso di tutto: «M'hai detto ti amo. Ti dissi: aspetta. Stavo per dirti: eccomi. Tu m'hai detto: vattene». Sono 87 caratteri, spazi inclusi. Meno di un Tweet. E dentro c'è amicizia, amore, la guerra, una famiglia, un auto nel fiume, un mulino, tanta malinconia. L'impossibilità della felicità al di fuori del matrimonio (Truffaut dixit).Come sa Marcello, romano, trentenne, che ha scritto a Solferino28anni per raccontare il suo lieto fine. Dopo mesi di avventure online ha trovato Magdalena, polacca. Corteggiata via Skype. Oggi sono sposati, con prole.

Cocktail, cena, cinema
La puntualità, dicevamo, è solo il primo passo. Conta la scelta. Del locale, ad esempio, per l'aperitivo (o la cena). Per Carolina Cutolo (classe '74), autrice di Romanticidio (Fandango), il corteggiamento non è finito. Ha moltiplicato occasioni e linguaggi. A lei, per esempio, che fa la bar-tender a Roma, piace indovinare la personalità in base a cosa uno beve. Il cocktail Martini? «Denota mistero e confidenza, una scelta di classe, apprezzata anche da chi non ne conosce la storia ma ne sente il fascino». Il Negroni è da evitare: «Depone male, della serie: "Da sobria non ti piaccio?". Astenersi timidi». Con lo Spritz non si sbaglia, «ma è come non dire niente». Meglio un Mojito, «avventuroso, ma spesso deludente». Ci si può spingere fino al Sex on the beach, «esotico». Ma attenti ai nomi deficienti, tipo il Blow job (specialità da siti porno). Il massimo? «L'Irish coffee. Se l'altro ci sta, si prende il caffè, vuole tirare tardi».
Anche la scelta del film è importante (al cinema, per il primo appuntamento, a casa dal secondo in poi). Ma senza troppa enfasi. Si esce per stare assieme, non per vedere quel film. Altrimenti finisce così: «Scusami tantissimo per il film dell'altra sera etc... (sic!) ? scrive Sara, una ragazza conosciuta su Badoo da Andrea ? avevo promesso alla mia amica di vederlo con lei, però poi forse tornava a casa nel weekend quindi ho aspettato a risponderti. Poi mi sentivo in colpa per non averlo fatto e quindi ho evitato. Adesso che ti trovo in chat ne approfitto per scusarmi prima di essere del tutto fuori tempo massimo. Riproviamo domani?». Ecco il corteggiamento disfunzionale: ruffianeria (scusami tantissimo), postmodernità (etc...), falsi alibi (il silenzio giustificato con il senso di colpa), asincronia e presunzione di innocenza (non è troppo tardi, vero?). Era meglio una telefonata.

L'amore è un dardo
Se il corteggiamento online punta al primo appuntamento, il corteggiamento reale punta al secondo. Come arrivarci? Se l'amore è un dardo ? verso frainteso del Trovatore di Giuseppe Verdi che brucia di passione «Ah! L'amor, l'amore ond'ardo» ? gli sms sono freccette. Vanno a segno, bucherellano il muro, fanno un male cane. I Pick Up Artist - gli artisti del rimorchio - consigliano come comportarsi tra il Day1 e il Day2. Richard De La Ruina, su www.puatraining.it, suggerisce di: puntare sul «call-back humour», l'ironia complice per qualcosa che si è fatto assieme; giocare allo specchio, cioè essere breve se lei è breve, non usare i faccini se lei non li usa; pilotare falsi dilemmi per rivedersi (vino bianco o rosso? Commedia leggera o film d'autore?).Per il testo, si più chiedere aiuto. A muse e poeti. La scrittrice Claudia Durastanti, classe 1984 (Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra, Marsilio), da Londa racconta: «Scippavo poesie a Diane Di Prima, scrivevo via sms "stanotte dormirò con un diamante sotto la lingua e tu verrai a dargli la caccia" per vedere chi ci cascava. Una mia amica si è messa con uno dopo averlo tampinato con le poesie di Milo De Angelis online; è proprio la distorsione della letteratura per bassi (alti?) fini che mi fa sorridere».

Fantasia metropolitana
Per Alcide Pierantozzi, classe 1985, (autore di Ivan il terribile, Rizzoli), i messaggi servono a tastare il terreno, ma non fanno testo: «È inutile stare lì a scriversi stupidaggini. Mi piace offrire cene, se posso. Un gesto semplice, elegante. Altrimenti, fino a qualche anno fa, regalavo dei luoghi. Non è che comprassi terreni fuori Milano, ma invitavo la persona prima dell'appuntamento a dirmi un numero da 1 a 20, un colore, una stazione della metro; la portavo in metro da casa mia alla fermata corrispondente al numero che mi aveva detto (ad esempio 5, dopo 5 fermate scendevamo), una volta in strada la prima persona che indossava un abito del colore che aveva detto andava seguita. Il luogo in cui la persona si fermava era il regalo. Un posto in cui sarebbe stata bene e lontana dalla sofferenza per sempre. Patetico, ma mi fa tenerezza pensarci».

Il teorema dei Neg
Sadica Tea Falco (1986). L'attrice di Io e te di Bernardo Bertolucci su Facebook ha scritto che «per corteggiare una donna non devi corteggiarla». Sono fioccati «mi piace» e commenti senza risposta (lei, fedele al paradosso, non si fila chi la corteggia). Qualcuno si è rifugiato nella citazione di Teorema di Marco Ferradini. Canzone cui tutti, almeno una volta nella vita, hanno creduto: dice prendi una donna, trattala male... Assomiglia alla teoria dei Neg, molto in voga in America e importata anche in Italia: brevi frasi negative, ironiche, da conficcare nell'orgoglio della donna per spingerla a riconquistare autostima attraverso il corteggiatore. Qualche esempio: «Che bei capelli, è una parrucca?»; «Fai la modella? - se dice sì -. Già, voi modelle ve la tirate un sacco». Il guru di questa tecnica è il protagonista di Magnolia (1999), conduttore tv di Seduci e distruggi, interpretato da Tom Cruise. Ma il primo Neg è attribuito al filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855). Scriveva nel Diario di un seduttore di «neutralizzare» la femminilità della donna «con l'ironia e il comune buon senso». Lei «quasi giunge a perdere la femminilità dinanzi a se stessa, ma non può rimanere sola in questo stato. Si getta allora tra le mie braccia, non come fossi un amante, no, ma ancora in modo neutrale». Così «la sua femminilità si ridesta e viene portata al massimo della tensione, fino a farla urtare contro questo o quel limite reale. Ella l'oltrepasserà, e la femminilità raggiungerà un'altezza sovrumana, e mi apparterrà con passione totale».
Né Kierkegaard né Tom Cruise, però, dicono che se sbagli tempo, mossa o battuta, vieni piantato in asso. O diventi l'amico neutro. Terrore di tutti i corteggiatori. Virtuali o reali.
«Corriere della Sera» del 9 febbraio 2013

07 febbraio 2013

Se la fantascienza è archeologia

Dall'antica Grecia al Seicento, le radici della science fiction sono profondissime. E danno ancora buoni frutti
di Luca Gallesi
Tanto per fare chiarezza sul luogo comune che relega la letteratura fantascientifica nella narrativa di serie B, tra i western e i gialli, è bene ricordare che il primo racconto di fantascienza risale al dialogo Icaromenippo di Luciano di Samosata, che descrive un viaggio sulla Luna del filosofo cinico Menippo di Gadara, a cui si ispireranno, molti secoli dopo, Le avventure del Barone di Münchhausen.
Molti gli autori che si sono cimentati col genere in opere che possiamo definire «classici»: da Cyrano de Bergerac, con le Histoires comiques a Jonathan Swift, coi Viaggi di Gulliver, dalle storie di Jules Verne a gran parte della produzione di H.G. Wells, passando per Mary Shelley e Frankenstein, E.A. Poe, coi suoi racconti del terrore, R.L. Stevenson, inventore di Jekyll e Hyde, fino a molti racconti di Kipling e ad alcuni romanzi di Jack London, per giungere ad alcuni insospettabili contemporanei come il Cormac McCarthy autore de La strada o il Philip Roth di Il complotto contro l'America o anche il Jonathan Lethem di Ragazza con paesaggio. Senza ovviamente dimenticare la Guida galattica per autostoppisti di Douglas Adams. H.P. Lovecraft e Stephen King compongono un capitolo a parte, e ormai passano per «classici», anche se non tutta la loro produzione è dello stesso livello, cosa che vale anche per autori usciti dal ghetto «spaziale» come Philip K. Dick, Ray Bradbury e J.G. Ballard.
Detto questo, ben venga la ripubblicazione, da Mimesis, di quello che fu un lavoro pionieristico: Il senso del futuro, di Carlo Pagetti, che nel '67 fu la sua tesi di laurea con Agostino Lombardo e nel '70 venne pubblicato dalle Edizioni di storia e letteratura nella collana «Biblioteca di Studi Americani», di cui l'odierna ristampa conserva l'indice di tutti i titoli pubblicati da autorevoli accademici come Sergio Perosa e Claudio Gorlier, Elémire Zolla e Glauco Cambon. Tutti nomi prestigiosi, come prestigioso è diventato Pagetti, nel frattempo salito in cattedra a sua volta, ma senza dimenticare la propria passione giovanile, che coltiva ancora come curatore dell'edizione italiana delle opere complete di Philip K. Dick.
Il senso del futuro, ovvero La fantascienza nella letteratura americana, come recita il sottotitolo, è rimasto quello di allora, ma con l'aggiunta di un'introduzione dell'autore in cui vengono ribaditi scopi e intenzioni dell'opera: dimostrare che nella fantascienza confluiscono forme di riscrittura che guardano alla grande tradizione del romance americano, quel filone letterario che unisce Poe, Hawthorne, Melville e persino Twain. Per dimostrarlo, Pagetti parte da lontano, e prende le mosse addirittura dalla Tempesta di Shakespeare, che può essere considerato il paradigma di molta narrativa fantastica e fantascientifica, col suo protagonista mezzo alchimista e mezzo stregone al comando di personaggi che potrebbero essere tanto creature fantastiche quanto alieni extraterrestri.
Pagetti ci mostra «le meraviglie del possibile» presenti in opere e autori che non avremmo mai considerato di fantascienza: Moby Dick può benissimo diventare un Alien dell'Ottocento, così come Rip Van Winkle di Washington Irving è uno dei tanti viaggiatori nel tempo che diventeranno una presenza fissa nella fantascienza della prima metà del secolo scorso; Orwell e Huxley, in compagnia del britannico Burgess, riprendono la tradizione utopistica rinascimentale di Moro, Campanella e Bacone, mentre Ray Bradbury e William Golding, coi suoi bambini cattivi che adorano Il signore delle mosche si affiancano a Salinger nel riprendere il sano cinismo di uno Swift che non perde occasione per ricordarci la naturale cattiveria dell'animo umano, spazzando tutte le melense ipocrisie sul tema.
La fantascienza, neologismo coniato nel 1926 da Hugo Gernsback, il leggendario direttore di Amazing Stories, nasce come «un affascinante romanzo fantastico in cui si mescolano fatti scientifici e visioni profetiche», ma più che sulla scienza e sul futuro, gli autori di storie spaziali ci raccontano qualcosa sulla natura umana da una prospettiva diversa, che permette loro un'inusitata libertà d'azione e quindi un originale sguardo sulla condizione umana. Condizione che le scoperte scientifiche non hanno migliorato, e la tecnologia non ha reso più sopportabile. L'atmosfera di incertezza e inquietudine che oggi respiriamo senza quasi accorgercene era stata prefigurata dalla letteratura fantascientifica dello scorso secolo, e gli alieni che ci raffiguravamo con tentacoli e antenne forse sono già tra noi, e ci spiano con microchip, telecamere e codici a barre.
«Il Giornale» del 6 febbraio 2013

La rete è ormai la nostra vita: non più difesa ma formazione

Riduttivi gli allarmi sulla sicurezza, educhiamo le persone
di Chiara Giaccardi
Una serie di notizie degli ultimi giorni porta alla ribalta, se ancora ce ne fosse bisogno, la crescente centralità del Web per un numero sempre più elevato di persone, e per la totalità dei giovani. Non senza preoccupazioni, espresse talora con toni piuttosto allarmistici, che sollecitano l’urgenza di misure e azioni preventive e formative adeguate: dal Safe Internet Day 2013, ieri, la giornata voluta dalla Commissione europea dedicata alla sicurezza in rete dei ragazzi, al Rapporto sul Cyberbullismo commissionato da Save the Children, fino al progetto del Ministero dell’Istruzione «Generazioni connesse» per sensibilizzare i minori a un utilizzo consapevole di Internet e dei nuovi media. Intanto l’Istat registra i cambiamenti nei consumi, dove la crisi incide su tutto tranne che sugli smartphones, mentre in America il presidente Obama progetta un wi-fi gratuito coast-to-coast per rendere universalmente accessibile il nuovo ambiente digitale.
Questo mutamento di contesto, che è tutt’altro che una moda passeggera, sollecita almeno una considerazione, una preoccupazione e una cautela. La considerazione è che, per le giovani generazioni, i nuovi media non sono strumenti. La rete non è uno spazio "altro" ma l’estensione dei territori relazionali quotidiani. Dai quali non si entra e non si esce, ma che sono sempre presenti come una quarta dimensione dell’esistenza. Parlare di "generazioni connesse" è quasi pleonastico. Questo spiega anche perché la crisi non ha colpito gli smartphones, che non sono vissuti come beni di consumo, bensì come "beni di relazione". Non strumenti, ma estensioni di sé e cordone ombelicale con la rete, vitale, delle proprie relazioni. Le preoccupazioni sono legittime: in quanto ambiente sociale, anche la rete ha le sue insidie, che forse, però, vanno messe a fuoco con maggiore chiarezza e minore emotività. Certamente i rischi ci sono; certamente i giovani hanno poca consapevolezza degli effetti di ciò che scrivono, postano, pubblicano in rete e di come queste informazioni siano accessibili, archiviabili, conservabili e utilizzabili a scopi diversi. Aumentare il grado di consapevolezza è opportuno e doveroso. Ma i rischi più gravi non sono tanto quelli più comunemente paventati (l’abboccamento a scopo sessuale da parte di singoli malintenzionati) quanto la raccolta di dati che possono essere aggregati, rielaborati e venduti per la produzione di comunicazioni pubblicitarie mirate e subdole o per forme di controllo sociale o censura politica. La rete è un gigantesco sistema di produzione di dati, a cui ciascuno di noi collabora spontaneamente, e quello dei Big data è uno dei temi più caldi, e più interessanti per il businnes e la politica del futuro.
Il lupo cattivo è tanto più pericoloso perché indossa giacca e cravatta, e non è interessato alla singola Cappuccetto Rosso. Anche le pur opportune analisi sul cyberbullismo rischiano di produrre una distorsione prospettica: non è il "cyber" che produce il bullismo, ma una cultura individualista, competitiva, insofferente all’alterità e a tutto ciò che non corrisponde ai canoni del successo. Un male interpretato bisogno di appartenenza e una diseducazione all’alterità sono, a mio avviso, le radici antiche di un fenomeno che è ben poco "cyber", anche se trova in rete nuove forme e nuovi terreni per manifestarsi. E qui viene la cautela. Va bene l’informazione, va bene la prevenzione. Ma come i corsi di educazione sessuale nelle scuole sono inutili – se non fuorvianti – quando manca una cornice antropologica di riferimento sul significato e il valore della sessualità per la persona, così l’educazione alla sicurezza in rete deve poggiare su un’idea positiva di che cosa vuol dire, oggi, vivere con altri in un ambiente "misto", insieme materiale e digitale. Ci sono, a mio avviso, solo due alternative: o assumiamo la deriva allarmista e difensiva e ci adeguiamo a quella che Bauman definisce «la società sotto assedio», fatta di porte blindate, fili spinati, sistemi di allarme e codici di sicurezza, che cerca di tenere "fuori" l’altro pericoloso; oppure cerchiamo di formare persone, consapevoli della complessità e delle ambivalenze, aperte al nuovo e all’alterità, capaci di declinare la sicurezza come un "surplus di cura" nei confronti di uno spazio da abitare con altri, che è quindi un bene comune, anziché come sine cura, nel senso etimologico, da cui deriva l’accezione che usiamo comunemente: non doversi preoccupare, stare tranquilli, non avere paura. Non importa a quale prezzo.
«Avvenire» del 6 febbraio 2013

06 febbraio 2013

E i cattolici applaudono il gran rabbino di Francia

Gilles Bernheim, guida dell’ebraismo transalpino, promette battaglia: «Non è oscurantismo contrastare il pensiero corrente»
di Stefano Montefiori
L’«Osservatore Romano» cita la lezione della tradizione cabalistica
«Battersi, discutere, ragionare, è un modo per fare riflettere le persone, affinché non si limitino ad adeguarsi al pensiero corrente, anche se ormai il dato è tratto», dice il gran rabbino di Francia, Gilles Bernheim, a proposito della sua opposizione al matrimonio tra omosessuali. Che la Francia avrebbe approvato le nozze gay si sapeva dall’estate scorsa, da quando il presidente François Hollande confermò che avrebbe mantenuto la promessa elettorale. Ciò nonostante, da allora Bernheim spiega perché a suo avviso si tratta di un errore, così come fanno gli altri rappresentanti religiosi: il cardinale André Vingt-Trois, il presidente del Consiglio del culto musulmano Mohammed Moussaoui, il pastore protestante Claude Baty, il metropolita greco-ortodosso Emmanuel Adamakis. Il no è espresso per motivi diversi, e un vero e consapevole «fronte delle religioni» si è formato esclusivamente per affermare il diritto di intervenire nella questione. Il Partito socialista al governo e alcune voci dell’esecutivo nei mesi scorsi hanno più volte evocato un’ingerenza indebita visto che la legge in discussione riguarda i matrimoni civili. «Ma la fede non è un oscurantismo dal quale occorre liberare gli spiriti», dissero i religiosi in una dichiarazione comune. Per il resto, ogni culto ha più volte ribadito che non c’è un’alleanza dei credenti contro i laici, che la riflessione sul matrimonio è trasversale. Le posizioni più vicine sono comunque quelle tra Chiesa cattolica e comunità ebraica. Il 18 ottobre scorso Bernheim ha pubblicato il saggio «Quel che spesso ci si dimentica di dire », che il 21 dicembre è stato lungamente citato da Benedetto XVI nel suo discorso annuale alla curia romana. «Il grande rabbino di Francia Gilles Bernheim — scrive il Papa — in un trattato accuratamente documentato e profondamente toccante, ha mostrato che la minaccia all’autentica forma della famiglia, costituita da un padre, una madre e un bambino, raggiunge una dimensione ancora più profonda (...); in gioco in realtà c’è quel che significa essere una persona umana». Ieri il testo di Bernheim è stato commentato anche sull’Osservatore Romano, dal rabbino di Torino, Alberto Moshe Somekh, che ha ricordato «la lezione dello Zòhar». Lo Zòhar è il libro più importante della tradizione cabalistica, nel quale si trova l’idea (in parte simile al mito platonico del Simposio) dell’amore come ricongiunzione di due creature nella loro unità preesistente. «Lo Zòhar sostiene che Dio creò esclusivamente androgini—scrive il rabbino Somekh —: "Li divise in due, separando il maschio dalla femmina, e li mise uno di fronte all’altro. E quando la donna si ricongiunse con l’uomo D. li benedisse, come nel corso della cerimonia nuziale"». «L’omosessualità non fa parte del piano della Creazione — conclude il rabbino —. Solo nell’unione solenne di marito e moglie trova dimora la Presenza Divina».
«Corriere della Sera» del 6 febbraio 2013

La lezione dello Zohar

Un commento al trattato di Gilles Bernheim sul matrimonio omosessuale
di Alberto Moshe Somekh
Ebrei e cattolici per la dignità, la stabilità e la sacralità della famiglia
Leggo con piacere il testo del rav Gilles Bernheim sull'omosessualità. È questo un tema assai delicato, trattato di rado nel mondo ebraico e ringrazio pertanto il gran rabbino di Francia per aver rotto il silenzio con tanta chiarezza, competenza e apertura. (...) Mi limiterei soltanto a fare alcune osservazioni di carattere generale e di ordine metodologico per guidarne la lettura, sgomberando anticipatamente il terreno da possibili fraintendimenti e confusioni.
L’antico diritto talmudico proibisce in linea di principio che questioni di natura sessuale vengano trattate coram populo per il timore che ascoltatori non adeguatamente preparati possano fraintendere i dettagli talvolta sottili della Legge e compiere atti illeciti pensando che siano permessi (Chaghigah, 11b). In realtà negli ultimi decenni queste tematiche sono state affrontate dai media in modo tanto plateale quanto incompleto e parziale, facendo sì che una puntualizzazione adeguata e accurata degli argomenti in questione si rendesse non soltanto permessa, ma addirittura necessaria.
A differenza di quanto avviene in altri credi, nell’ebraismo è l’azione che ha importanza teologica assai più del sentimento e del pensiero.Sul tema in oggetto la tradizione ebraica guarda negativamente all’attività omosessuale, ma non alla natura omosessuale di per sé, quale che sia la sua origine. Mentre, come si è detto, l’attività omosessuale è sempre proibita, cionondimeno dobbiamo evitare il giudizio nei confronti di coloro che soccombono.
Ben venga dunque la collaborazione con i vertici della Chiesa cattolica, con la quale per molti versi il mondo ebraico può sviluppare un’adeguata azione comune per la difesa della dignità, della stabilità e della sacralità della famiglia, richiamandosi agli insegnamenti della tradizione biblica fin dai primordi: «E l’uomo lascerà suo padre e sua madre, si unirà a sua moglie e saranno un’unica carne» (Genesi, 2, 24).
Un’ultima considerazione, che credo sia al centro del messaggio del rav Bernheim, riguarda lo Stato. Il Talmud ci insegna che, in linea di principio, non si devono riconoscere benefici legali a un comportamento trasgressivo (Ketubbot, 11a e a.). In un passo più specifico è scritto che a quell’epoca, millecinquecento anni fa, anche quei “figli di Noè” che non si astenevano dalle pratiche omosessuali avevano almeno il pudore di non redigere un contratto nuziale fra le parti (Chullin, 92a-b). Pur con tutta la comprensione del caso, scelte che attengono alla sfera più intima del singolo individuo, alle sue inclinazioni e alla sua coscienza personale, non possono divenire oggetto di un riconoscimento formale, né dar luogo a un iter legislativo, e tanto meno assurgere a valore di riferimento del costume sociale, pena la dissoluzione della società stessa. «Maschio e femmina li fece» (Genesi, 5, 2).
«Osservatore romano» del 6 febbraio 2013

Le tre libertà

Sviluppo e vero benessere
di Leonardo Becchetti
Esistono tre forme di libertà. La "libertà di" è quella più comunemente nota, e alla quale in genere ci riferiamo istintivamente quando si parla di libertà. Ma essere liberi non si esaurisce e non coincide necessariamente con la libertà di fare qualunque cosa ci venga in mente. Esistono infatti altre due forme importantissime di libertà che sono la "libertà da" e la "libertà per".
La "libertà da" indica tra le altre cose l’affrancamento e l’emancipazione da costrizioni di carattere economico e da limiti all’esplicazione delle nostre potenzialità. Per questo motivo essa rappresenta un tema caro a coloro che lottano contro le diseguaglianze, per l’accesso ai diritti degli ultimi ed è ben rappresentata dai concetti di capacità e funzionalità, introdotti dall’economista e premio Nobel Amarthya Sen. Il concetto di "libertà da" si estende però anche al problema della libertà da forme di dipendenza in cui anche persone che non hanno vincoli economici o di accesso ai diritti possono incorrere. Oltre a quelle più tradizionali (alcool, tossicodipendenze) esistono oggi forme di dipendenza nuove e insidiose, recentemente assurte alla cronaca come la ludopatia (ovvero dipendenza dal gioco) e la dipendenza dalla rete (ovvero l’incapacità di disconnetterci).
La "libertà per" è un concetto ancora meno visitato della "libertà da". Per "libertà per" intendiamo la decisione volontaria e, appunto, liberamente scelta di colui che sceglie di dedicare le proprie energie a un obiettivo ideale in grado di mobilitarlo. La "libertà per" è il vero segreto della felicità come ci ricorda il filosofo ed economista inglese John Stuart Mill in un bellissimo aforisma nel quale afferma che non si è felici se si cerca la propria felicità per se stessa, ma si trova piuttosto la propria felicità lungo la strada quando si dedica la propria vita a una causa degna di essere perseguita (gli esempi addotti dal pensatore sono l’arte, la scienza, la filantropia).
La riflessione attorno ai tre diversi concetti di libertà ci aiuta a comprendere un principio molto importante. Pensiamo che il benessere e il progresso della nostra società sia nell’espansione lineare e illimitata della "libertà di" (più beni di consumo, più canali televisivi, più connessione, più strumenti fruibili in rete). In realtà la "libertà di" esercitata senza controllo può stordire fino ad arrivare a limitare la "libertà da" quando appunto la cornucopia delle possibilità a disposizione crea delle dipendenze. E può impedirci di accedere alla "libertà per" attraverso l’abbondanza di beni che ci confortano, ma non ci stimolano a intraprendere percorsi più difficili e più produttivi. Possiamo applicare il giochino delle tre libertà anche a problemi di attualità. Ad esempio a quello del funzionamento dei mercati finanziari.
Anche qui l’illusione che il progresso coincida con l’estensione incontrollata della "libertà di" è molto pericolosa. È quell’illusione che ci ha portato ad ampliare sempre più la diffusione e l’uso incontrollato (senza opportuni trattati di "non proliferazione") di strumenti derivati sempre più complessi, prototipi imperfetti il cui funzionamento sfugge persino ai loro creatori, nella convinzione che la capacità di autoregolamentazione del mercato ci avrebbe messo al riparo da effetti sociali negativi. Un po’ come pensare che nella circolazione stradale l’unico obiettivo debba essere quello di costruire macchine sempre più potenti abolendo i limiti di velocità e i semafori (tanto il traffico si autoregola).
Sappiamo quello che è successo e quello che purtroppo continua a succedere. In verità il progresso dell’uomo sta nella capacità di accettare limiti alla "libertà di" quando questa rischia di provocare danni ai propri simili. Ma il progresso ancora maggiore (il progresso al quadrato) è quando anche soltanto una piccola minoranza fa una libera scelta di "libertà per" che emancipa chi non ha accesso ai diritti e al mercato aumentando pertanto con la propria opera la "libertà da" e la "libertà di" di altri soggetti. È questo il caso della finanza etica e solidale e del microcredito che si pongono espressamente l’obiettivo di dare dignità attraverso l’accesso al credito e la possibilità di svolgere un’attività produttiva a soggetti poveri privi di garanzie che non hanno accesso alla finanza tradizionale. E come dice John Stuart Mill sono proprio coloro che interiorizzano il principio della "libertà per" ad aver colto il senso più profondo del concetto di libertà e a realizzare la maggiore felicità.
«Avvenire» del 6 febbraio 2013

04 febbraio 2013

Borromini, la divina sapienza del costruire

di Dominique Ponnau
Francesco Castelli, detto il Borromini: fin dalla mia vagabonda gioventù, perseguo quest’uomo e quest’uomo mi persegue. Non ricordo un solo passaggio a Roma o un solo soggiorno in questa città in cui non gli abbia fatto visita, e spesso parecchie volte, soffermandomi a lungo nei luoghi dove, grazie alla sua arte, la presenza, apparentemente lontana oggi, si fa infinitamente vicina, avvincente e, nel contempo, liberatrice, palpabile nelle vestigia stesse.
Amo accarezzare una colonna di San Carlino alle Quattro Fontane,
rimanere abbagliato dal candore del chiostro e dai vocalizzi delle balaustre, perdermi nella vertiginosa esigenza della navata dove le più estreme complessità, le più inesorabili lotte delle forme contrarie si risolvono in una miracolosa unità, in una semplicissima armonia, come giunta da un altro mondo. Più di una volta, mi sono visto scandire delicatamente le ali e i sorrisi degli angeli nelle navate laterali di San Giovanni in Laterano.
Ho salutato spesso i cherubini del Campanile di Sant’Andrea delle Fratte, dai volti racchiusi sul mistero, dalle ali raccolte dove si sgranano sotto la loro egida, i suoni che invitano gli orecchi del corpo ad altre armonie che echeggiano amabilmente nel cielo eterno. Spesso, più spesso ancora, ho meditato, scordandomi di me, davanti alla cupola di Sant’Ivo alla Sapienza, arrotolando lo sguardo dalle onde del basso allo slancio della lanterna che da vita alla spirale inaudita nel rigoglio fino allo sboccio del fiore ultimo, l’estasi della suggestione della struttura del Cosmo, fino al simbolo che solo le da senso: la croce. Forme all’assalto dell’azzurro; materia che aspira umilmente, ma con l’umiltà di un nobile principe, a rendere gloria all’Eterno.
L’architettura del Borromini mi è sempre parsa, oltre la vertiginosa complessità – complessità risolta in miracolosa, paradossale semplicità –, un’architettura vigile. Un’architettura per la coscienza desta, a costo di perdersi, di perderci talvolta, nella sottigliezza dell’indicibile fascino, frutto di una precisione matematica, di una musicalità a null’altra paragonabile, un’architettura in cui la coscienza incessantemente sollecitata, senza mai rinunciare a tali sollecitazioni, consente allo spirito di perdersi più si trova, di trovarsi più si perde. Un’architettura dall’infinita dolcezza, dalla serenità infinita, ma mai in riposo. Un’architettura mistica insomma, nella quale echeggiano le parole agostiniane e di Pascal: «Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato».
Ora mi rendo conto, è tutto un percorso sempre incompiuto finché vivrò la mia vita terrena, questo è per me il percorso delle opere romane del Borromini. È un pellegrinaggio sempre ricominciato, sempre da ricominciare, da cominciare? Non so. Ma so che questo percorso è per me come un libro fonte di pensiero spirituale; di luminosa meditazione sempre incompiuta. Un libro iniziato allorché André Chastel, la guida della mia gioventù di cui fui un deludente discepolo, mi incitò a imboccare il cammino del Borromini.
Un libro che non fece certo di me uno studioso dell’arte nel senso classico della parola, ma fu e rimane uno di quelli, essenziali, che segnarono e segnano la mia esistenza. Un libro tanto importante da non sembrarmi estraneo a quelli di san Giovanni della Croce. È questo libro che voglio sfogliare per condividere, non tanto delle nozioni, quanto una musicalità, la musicalità che mi fa vivere l’opera del Borromini. Tra i molti capolavori, ci invita una chiesa, dove l’anima del Borromini canta il più bel canto forse del silenzio: Sant’Ivo alla Sapienza. Dunque, Sant’Ivo della Saggezza. Ma di quale saggezza? Solo della sagezza presente, lo si spera, nelle leggi giuste, nelle leggi favorevoli ai piccoli, ai poveri di questo mondo nei quali si manifesta la Legge suprema, quella dell’Amore di Cristo, quella dei sette doni dello Spirito Santo.
Legge suprema posta qui sotto il patrocinio del bretone Sant’Ivo di Tréguier, nel quale irradiò, ai suoi tempi, il XIII secolo, la giustizia d’amore del Paracleto. Al di là di sant’Ivo, è al Santo Spirito, invisibile, incomprensibile, insondabile mistero di luminosità, che è consacrata questa chiesa. Chiesa dedicata alla scienza il cui più alto grado è la «dotta ignoranza», nella quale si fondono, si completano, e completandosi si aboliscono tutti i concetti. Che cosa vediamo, ancor prima di varcare la soglia della chiesa? Vediamo una sorprendente cupola, una cupola unica al mondo, che contrasta assolutamente lo spirito di una cupola.
Che altro vediamo? Un immenso timpano. Un timpano in apparenza sproporzionato rispetto alle architetture che lo sovrastano e su di lui si appoggiano. Un timpano fatto di onde, ma di onde verticali, guarnite da delicati pilastri, dove la luce traspare attraverso alte finestre, culminate anch’esse dal simbolo, o dall’allegoria, del Santo Spirito, a forma di colomba, come lo si vide, nel battesimo di Cristo, planare sul suo capo, quando echeggiò la voce del Padre: «Questi è il mio Figlio, il Prediletto: Ascoltatelo!». Colomba del Santo Spirito che gioca, peraltro, con altri simboli: ghirlande, visi d’angeli, corone, palme, impressioni d’api, come le api dei Barberini, fiaccole, stelle, al di sopra dei monti come i tre monti e la stella dei Chigi; Agnello dei tempi ultimi, del Libro sigillato da sette sigilli che Lui solo può svellere per svelare il mistero. Agnello mistico qui incastonato in queste onde di pietra. Ecco, dunque, un timpano assai alto. Sproporzionato, dicevo: ma mi sbagliavo di molto! Nella sua sproporzione, è l’esattezza precisa, la proporzione stessa. Sostiene, e regge sopra di lui l’impossibile.
Quale impossibile? La calotta della cupola. Infinitamente leggera la calotta poiché consacrata all’invisibile, all’evanescente e, proprio per questo, inimmaginabilmente pesante e greve agli occhi corporali. Questo timpano dunque, sproporzionato agli occhi del corpo e, proprio per ciò, misteriosamente proporzionato all’attesa dello sguardo spirituale, è un timpano animato da onde. Viva è l’ondulazione di quelle onde, certamente, ma è poi così dolce come pare? Lo si crederebbe.
E spesso al primo sguardo, veramente al primo sguardo, lo si crede. Ma presto ci si disillude di questa pace delle apparenze, eppure senza cessare di lasciarsene ammaliare. Potenti, violenti, imperiosi sotto l’aspetto di un meraviglioso sorriso, ecco i contrafforti, dal timpano alla lanterna, forza tanto armoniosa quanto terribile, impietose concavità che vengono a contraddire i dolci movimenti delle onde e ci sollecitano a leggere e ad accogliere l’anima delle onde in verità. Se questi possenti contrafforti concavi fossero assenti, nulla impedirebbe le umili ondulazioni della cupola di dilatarsi nel cielo, di riempire il cielo, come in tutte le altre cupole, con l’ampia e colma rotondità di un microcosmo che riproduca, come in San Pietro, come in Sant’Andrea della Valle, come nella chiesa degli Invalidi a Parigi, come dovunque, il macrocosmo di cui è il segno e l’immagine: il cielo nella sua immensità. Nient’altro, se non i contrafforti, violenti e soavi, costringe, ma con una grazia infinita come la loro crudeltà, le umili onde a dilatarsi nel cielo come materiale allegoria del cielo. Nient’altro.
Occorreva che le dolci onde umiliate e felici di esserlo, trovassero uno sbocco all’estrema violenza alla quale sono sottomesse. Lo sbocco, eccolo: un’immensa lanterna, altissima, imponente eppur leggera, certamente ispirata dalle vestigia di Roma e delle ville antiche come quella di Adriano, ma più che ispirata, libera e tutta nuova, la lanterna che accoglie, disciplina l’inaudita potenza costretta nell’umile ondeggiare della cupola, e la lascia sfociare nel vigore di une forza assolutamente irresistibile, tutta ornata di nuovi simboli, corone, fiamme, palme, gigli, uccelli, angeli, gemme di pietre erette di fronte alla violenza abolita in sfere di frutti, in corna di tori fasciate, dicono, ma più in alto, dischiuse nuovamente, e questo senza fine, fino alla corona di fuoco vivo, dispiegata, forza esplosiva ardentemente lanciata all’assalto dell’azzurro, trionfante dell’azzurro sotto la potente armatura di ferro che offre all’invisibile infinito la crudele e tenera ferita di un’allegoria del Cosmo, ellisse che evoca, proprio qui, a Roma, l’ombelico del mondo, ancora più in alto, fino all’assenza di qualsiasi forma davanti all’abbozzo dell’ultimo simbolo che tutto regge «opus aere perennius»: la croce; un abbozzo della Croce, nell’azzurro.
Ma anche quando, entrando nella chiesa, non contempliamo cogli occhi del corpo la divina Saggezza attraverso le alte finestre che ricevono la luce del giorno, intuiamo, in questa luce, il primo raggio di un’altra luce alla quale, senza vederla, aspirano i nostri occhi. Sappiamo che è lì, ci aspetta, ci chiama. E percepiamo, sentiamo che la luce diurna generosamente offerta dalle alte finestre, non è soltanto la luce del giorno terreno, ma quella del Giorno celeste, del Giorno senza ombra nè fine, del Giorno eterno. Del Giorno che regna già al vertice della volta, nel cerchio perfetto, perfetta allegoria del tutto, in cui tutte le differenze, tutte le dissonanze, si aboliscono, pur senza annullarsi, perchè in lui che nulla contiene, tutto è contenuto.
Si discute qui, come sempre a proposito di questo architetto tecnico, matematico, artigiano, musico, metafisico, se egli si accordi più a Cartesio o a Platone, se questo architetto teologo non sarebbe per caso un teologo negativo, apofatico. E si ha ben ragione di discutere. Ma allora non si deve anche ricordare, come suggerisce Platone, che l’Altro è nello stesso e che lo stesso è nell’Altro? Penso di sì, in questo si ha ragione. E ancora più ragione se si accetta di riposarsi con questo architetto, nella sua dimora, nella veglia senza riposo degli interrogativi del nostro spirito. Incantiamoci ancora un istante di un altro splendore, del genere di splendore che amò l’austero Borromini.
Tutto questo paradiso è fatto non di marmo, non di oro, ma di piccoli mattoni, semplicissimi, poverissimi, a parte il fatto che nulla è più esigente, nulla più perfetto del loro assemblaggio. Il Borromini è un principe senza uguali nel regno di Dama Povertà. Dama Povertà che mai fu così fastosamente ricca. Permettetemi di evocare tra tanti tesori, il tesoro che fu ammassato e i cui gioielli furono creati, durante l’intera vita dal Borromini: San Carlino alle Quattro Fontane, così strana, così diversa, così contradditoria nelle varie parti. Ammiriamo la straordinaria facciata, anche se non fu terminata dal Borromini e che fu un poco trasformata (alcuni dicono, esagerando credo, rovinata dal nipote Bernardo). Ammiriamo la violenza potente, forte, così fortemente e potentemente viva delle onde che rinchiudono la facciata e cercano invano di scatenarsi, scavandosi invece più profondamente di quanto non vorrebbero, il campanile e il meraviglioso timpano, visibili o invisibili secondi i luoghi dai quali, non senza pericolo, si alzano gli occhi per vederli.
Entriamo. Restiamo un attimo storditi. Che senso ha lo spazio ovoidale, non circondato ma cullato da colonne come le avrebbe amate Valéry nel cantico che a esse dedicò? Ma alziamo lo sguardo verso il cielo della cupola. A un tratto sentiamo l’inintelligibile. Percepiamo, non tutto, ma qualcosa di quella ragione che supera infinitamente la ragione, svolgendosi e concentrandosi in straordinari vocalizzi intorno ad un’arnia dove cantano non le api ma gli angeli invisibili, nelle alveole di croci, di ottupli e di sestupli. E riposiamoci di questo divino apiario contemplando colui nel quale ogni perfezione trova la fonte e dal quale essa si espande: sotto forma di colomba, il Santo Spirito.
«Avvenire» del 4 febbraio 2013

03 febbraio 2013

Quei genitori sindacalisti dei figli. «Lo cambi di banco? Ti denuncio»

Cresce il contenzioso a scuola
di Riccardo Bruno
Da Milano a Palermo: docenti sotto accusa per un rimprovero o per aver requisito un cellulare. I prof: insegnare impossibile
MILANO - Lo studente, che si nasconde dietro il nome del pilota Fernando Alonso, chiede aiuto su Internet: «Un prof mi ha ritirato il cellulare e se l'è tenuto, posso denunciarlo?». Risposta pronta di Woody: «Sì. È Furto!!! Potresti registrare una conversazione, lo porti a dire che te lo ridarà quando vuole lui!!! Fallo, avrai il coltello dalla parte del manico!!! Odiosi prof!!!». Benvenuti nel campo di battaglia della scuola italiana. Studenti in guerra contro insegnanti. Come sempre. Ma, ed è questa la novità, sempre di più spalleggiati dai genitori. Liceo di Roma: alla professoressa gli studenti fanno sparire gli occhiali, lei perquisisce gli zaini. Quando a casa i ragazzi raccontano tutto, qualche papà invece di sgridare il figlio va dai carabinieri e denuncia l'insegnante per abuso dei mezzi di correzione. Noale, Venezia, scuola media: un ragazzino viene scoperto a imbrattare le aule. La dirigente scolastica lo convoca, la madre non la prende bene. Le si presenta davanti, l'afferra per il collo e la spinge contro il muro. La donna torna a casa, la preside va al pronto soccorso.

FAMIGLIE ANSIOSE - Imperia, scuola elementare. La bimba, sei anni, graffia e punta la matita contro i compagni. La maestra la fa sedere vicino alla cattedra. I genitori minacciano un esposto alla Procura: così la danneggiano psicologicamente. «Li ho chiamati, ragionando è stata trovata una soluzione. Abbiamo fatto dei gruppi, che a turno girano nella classe». In questo modo Franca Rambaldi, a capo dell'ufficio scolastico provinciale, è riuscita a calmare le acque. «Le famiglie sono troppo ansiose, vanno subito in crisi, si irritano facilmente, alla minima difficoltà partono all'attacco». I genitori non si fidano più degli insegnanti, credono che tocchi a loro sopperire all'educazione inadeguata, alle carenze della scuola. Insomma, si sentono «sindacalisti dei propri figli». «Se non si restituisce dignità alla professione degli insegnanti, se non si rinnova la partecipazione dei genitori e degli studenti, allora la microconflittualità è destinata a crescere», ipotizza amaramente Gianna Fracassi, segretaria della Flc-Cgil.

PROF ALL'ANTICA - I docenti si sentono sotto assedio. «Non metta per favore il mio nome, non voglio avere problemi...». Chi parla insegna in un liceo psicopedagogico della provincia di Milano. È una prof all'antica. «Lo ammetto, sono un po' rigida. Ma le regole vanno rispettate». Ogni giorno è una trincea. Capitolo primo: «Vedo una studentessa durante la lezione che armeggia con il cellulare. Le chiedo di consegnarmelo. Lei si rifiuta, glielo ritiro. Il papà va dalla preside, dice che gliel'ho strappato, che non era mio diritto...». Capitolo secondo: i compiti in classe. «Vogliono le fotocopie, controllano le correzioni. Cercano di incastrarti, di sindacare il tuo lavoro...». A una collega di Treviso, istituto professionale, è andata peggio. Anche lei preferisce restare anonima. «C'è un ragazzo che insulta i compagni. Io lo rimprovero, ma, mi creda, in modo tranquillo. Il padre si arrabbia, inizia a mandare lettere: mi accusa di essere un cattivo docente, di manipolare gli studenti. Scrive al preside, al provveditore...». Va a finire che viene chiamata a Roma, audizione alla sezione disciplinare del ministero. «Prima di me ascoltavano un pedofilo... Per fortuna i ragazzi hanno testimoniato in mio favore...». Dice che di storie così ce ne sono tante. Racconta che, sempre a Treviso, hanno scoperto degli studenti che per gioco facevano la pipì a terra. Il preside ha ordinato loro di pulire. I genitori hanno minacciato denuncia: violazione delle norme igieniche.

DISAGIO IN CLASSE - I sindacati raccolgono ogni giorno casi e lamentele. «In classe si vive con molto disagio - osserva Massimo Di Menna, della Uil scuola -. Il docente conquista a fatica il riconoscimento della sua funzione. E molti sono spinti a pensare: ma chi me lo fa fare...». Giacomo Siracusa, insegna a Palermo, scuola primaria. «Una mia collega ha impedito a un bambino di dare fastidio ai compagni. I genitori hanno invece detto che l'aveva picchiato, l'hanno portato al pronto soccorso. Si sono fatti fare il referto. Tutto inventato. Siamo scoraggiati, amareggiati». Il segno di quanto sia serio il conflitto lo danno i dati del 114, il numero dell'Emergenza infanzia gestito dal Telefono azzurro. Tu ti aspetti che chiamino per violenze o episodi gravi. E invece uno su cento telefona per denunciare «difficoltà relazionali con gli insegnanti». Episodi come questo. Una madre di un bambino di 9 anni si sfoga con l'operatrice: «Mio figlio ha problemi di adattamento, ma gli insegnanti invece di aiutarlo lo puniscono ingiustamente...». Il 114 raccoglie la testimonianza, contatta la scuola. La dirigente spiega che «la madre è una persona poco collaborativa, che urla e insulta...». Viene organizzato un incontro, c'è anche il servizio sociale. La situazione migliora: la madre diventa più disponibile, il bambino finalmente si integra. La soluzione in fondo era semplice: bastava guardarsi negli occhi e dialogare.
«Corriere della Sera» del 2 febbraio 2013

01 febbraio 2013

Il mondo gay e le vestali di un certo conformismo

Senso comune
di Ernesto Galli Della Loggia
C'è una frase di George Orwell che mi è venuta in mente leggendo sul Foglio del 15 gennaio le obiezioni di Luigi Manconi a quanto da me scrittosul Corriere della Sera del 30 dicembre scorso («Le religioni che sfidano il conformismo sui gay»): quando ho osservato che la discussione pubblica italiana sul riconoscimento del diritto al matrimonio e all'adozione per le persone omosessuali è caratterizzata da una mancanza di voci fuori dal coro rispetto al mainstream, il flusso delle idee dominanti.In specie da parte di chi, per professione (gli psicanalisti) o per vocazione (gli intellettuali in genere), in quella discussione, invece, dovrebbefar mostra della massima indipendenza di giudizio. Ma come? obietta Manconi, come si può parlare di obbedienza al mainstream delle idee dominanti in un Paese dove a tutt'oggi non c'è neppure uno straccio di legge sulle unioni civili, dove nel codice non figura ancora il reato di omofobia? Invece si può. Si può benissimo proprio ricordando le parole di Orwell di cui sopra: e cioè che «Il conformismo degli intellettuali non si misura su ciò che pensa la gente comune, bensì si misura su ciò che pensano gli altri intellettuali». Ora si dà il caso che oggi, nell'intero Occidente, l'opinione ultramaggioritaria di costoro sia tutta, in linea di principio, dalla parte delle rivendicazioni dei movimenti omosessuali. Per una ragione ovvia, e cioè che gli intellettuali occidentali, da quando esistono, amano atteggiarsi a difensori elettivi di ogni minoranza la quale si presenti come debole, oppressa, o addirittura perseguitata: al modo, per l'appunto, in cui di certo è stata storicamente, specie nei Paesi protestanti, la minoranza omosessuale. Per questo è abbastanza ovvio che nell'ambiente intellettuale chi pure dentro di sé è magari convintissimo che la natura esiste, che il genere corrisponde a una base sessuale biologica, che non si possa parlare di alcun diritto alla genitorialità ma che semmai il solo diritto è quello del bambino ad avere un padre e una madre, chi è pure dentro di sé, dicevo, è magari arciconvinto di tutte queste cose, esita tuttavia a dirlo chiaramente. Per la semplice ragione che non ama sottoporsi al giudizio negativo che una tale affermazione gli attirerebbe immediatamente da parte dei suoi simili. Perlopiù, infatti, gli intellettuali non temono affatto il giudizio della gente comune (che anzi assai spesso si compiacciono di contrastare); temono molto, invece, quello del loro ambiente, degli altri intellettuali. Come Orwell per l'appunto aveva capito benissimo. Anche per una ragione più generale. Essi sanno bene che in una società democratica di massa ? in specie per ciò che riguarda l'ambito dei valori personali e del costume ? l'opinione degli addetti alle mansioni intellettuali è destinata inevitabilmente, prima o poi, a divenire l'opinione dominante. Da questo punto di vista è davvero difficile ? a proposito del matrimonio gay e delle questioni relative ? accettare quanto obietta sempre Manconi, e cioè che seppure il giudizio degli intellettuali è in tale materia un giudizio massicciamente favorevole, non si può però parlare di un loro conformismo dal momento che in Italia «la mentalità condivisa e i sentimenti collettivi sono in prevalenza altri». Forse ? e almeno parzialmente ? ancora oggi è così. Forse: ma può qualcuno dubitare davvero che in un brevissimo giro di tempo anche la maggioranza della nostra opinione pubblica non si adeguerà all'opinione attualmente già dominante quasi dappertutto in Europa come nell'America settentrionale? Davvero non significa nulla, ad esempio, che proprio su questo giornale ? per carità con le migliori intenzioni del mondo ? sia comparsa appena la settimana scorsa un'intera pagina intitolata «Genere neutro», dove si illustrava la positività moderna, culturalmente molto à la page, di un'educazione dei bambini all'insegna del rifiuto delle obsolete categorie «maschietti» e «femminucce»? Da che parte sta, allora, il conformismo? Mi chiedo, in quale direzione va il mainstream? In quella di Obama o del cardinale Bagnasco? Nella sua essenza non è un mainstream politico: è qualcosa di molto più profondo percepibile adeguatamente adoperando non già categorie ideologiche e neppure giuridiche, bensì il parametro rivelatore delle immagini, il linguaggio della pubblicità con il suo ovvio rimando a quell'ambito supremo che è l'economia. Il confronto appare immediatamente impari. Basta gettare uno sguardo sulle riviste e in genere sulle pubblicazioni dell'editoria cattolica. In modo particolarissimo sulle copertine dei libri a grande tiratura, della pastorale «per tutti». Al primo colpo d'occhio famiglie effigiate appaiono irreali, perlopiù sdolcinatamente felici, sorridenti e circondate di debita prole, impegnate nell'esplicita quanto disperata edificazione del lettore: lei magari ancora con gonna plissettata (nel 2013!) e lui con lo zainetto. E così è quasi sempre per la raffigurazione di donne e uomini: immagini inerti e senza alcuna profondità, senza storia. Da cui emana perlopiù un'eterosessualità piatta e tristissima, una convenzionalità di ruoli oggi più che mai destinata a risultare irrimediabilmente patetica. Che differenza con ciò che invece si vede altrove! Qui ? dai magazine alla pubblicità, dalla tv al cinema, e che si tratti della pubblicità di un profumo o di un orologio o di un film di successo ? dappertutto domina la più intrigante ambiguità dei corpi, spesso dalle fattezze allusivamente ermafrodite, seminudi, accostati l'uno all'altro senza distinzione di sessi. E per giunta tutto sempre terribilmente «moderno», oggettivamente accattivante, sullo sfondo degli ambienti e dei paesaggi più seducenti, tutto sempre culturalmente in piena sintonia coi tempi: tanto per dire, mai una famiglia, mai una fede al dito (come ostensibilmente, invece, nel Bersani dei ritratti elettorali odierni). Dove sta allora ? mi piacerebbe continuare a chiedere a Manconi ? qual è il pensiero dominante? E in quale campo si manifesta? Su Famiglia cristiana o su Vogue?Non basta. Chi dice pubblicità dice economia. E non a caso l'omosessualità e le sue rivendicazioni ad ampio raggio sono da tempo anche un florido business. Era noto, ma ora ce lo racconta bene Il Fatto del 16 gennaio. «Essere gay friendly ? si legge ? non è più un costo ma un beneficio. Offre innumerevoli possibilità di guadagno e attrae un elevato numero di consumatori. I gay americani, ad esempio, spendono oltre 835 miliardi di dollari l'anno. E anche in Italia i numeri non possono essere sottovalutati». Ancora: «I maggiori istituti finanziari del mondo fanno quasi a gara nel lanciare iniziative pro gay: JP Morgan ha per esempio sponsorizzato l'organizzazione dei gay pride a Londra e New York; la banca londinese Lloyds stima che all'interno del gruppo lavorino circa 2.500 omosessuali e transgender e ne favorisce l'inserimento tra i colleghi, con i clienti e all'interno della comunità». Dal canto suo «l'amministratore di Goldman Sachs, sposato con tre figli, fa uno spot tv a sostegno dei matrimoni gay perché, dice, "la tolleranza è un buon affare"». La tolleranza e gli affari certo. Meglio però se entrambi «politicamente corretti»: non si ha notizia, infatti, che ad alcun presidente della Apple o più modestamente della Fiat sia mai venuto in mente di presenziare al Family Day. Chissà perché. Ps: vorrei fosse chiaro, questo non è un articolo sull'omosessualità, sugli omosessuali o sui loro diritti. È un articolo sulle vestali dell'illuminismo che non si sono accorte di essersi trasformate col tempo in devote sentinelle delle maggioranze silenziose.
«Corriere della Sera» del 23 gennaio 2013

Dare a Cesare

Habermas: la fede può entrare nel dibattito solo attraverso l´uso pubblico della ragione
di Jürgen Habermas
Perché nelle società democratiche la religione deve cambiare linguaggio
Nelle democrazie a Stato sociale dell´ultima metà del Ventesimo secolo la politica era ancora capace di imprimere la propria guida ai sotto-sistemi divergenti; era ancora in grado di controbilanciare le tendenze alla disintegrazione sociale. Di conseguenza, sotto le condizioni del "capitalismo incorporato" (embedded capitalism), la politica riuscì ad assolvere questo compito all´interno della cornice dello Stato nazione. Oggi, sotto le condizioni del capitalismo globalizzato, le capacità politiche atte a proteggere l´integrazione sociale si stanno pericolosamente restringendo. Con il progresso della globalizzazione economica, l´immagine della modernizzazione sociale dipinta dalla teoria dei sistemi sta acquisendo nella realtà contorni sempre più nitidi.
La politica come mezzo di auto-determinazione democratica è diventata, secondo questa interpretazione, tanto impossibile quanto superflua. Sotto-sistemi auto-poieticamente funzionali si conformano alle loro stesse logiche; essi formano degli ambienti l´uno per l´altro, e da molto tempo si sono autonomizzati nei confronti delle reti sotto-complesse costituite dai diversi mondi vitali (lifeworlds) della popolazione. "Il politico" (the political) è stato trasformato nel codice di un sistema amministrativo che si auto-conserva, e di conseguenza la democrazia rischia di diventare una mera facciata che le agenzie amministrative rivolgono verso i loro indifesi clienti. L´integrazione sistemica risponde a imperativi funzionali e si lascia alle spalle l´integrazione sociale come un meccanismo fin troppo ingombrante. Poiché questo meccanismo funziona ancora tramite le intelligenze degli attori, il suo operare dovrebbe contare sulle strutture normative dei mondi della vita, le quali vengono comunque sempre più marginalizzate.
Sotto le costrizioni degli imperativi economici che dominano in misura crescente le sfere di vita privata, gli individui, intimiditi, si ritirano tra le bolle dei loro interessi privati. La disponibilità a impegnarsi nell´azione collettiva, la consapevolezza da parte dei cittadini di poter dare forma collettivamente alle condizioni sociali delle loro vite attraverso un´azione solidaristica, sbiadisce sotto quella che viene percepita come la forza degli imperativi sistemici. Più di qualsiasi altra cosa, l´erosione della fiducia nel potere dell´azione collettiva e l´atrofia della sensibilità normativa accrescono uno scetticismo già divorante nei confronti dell´auto-comprensione illuminata della modernità. Il pericolo imminente di una democrazia che sta diventando un "modello obsoleto" (Lutz Wingert) è, allora, quella sfida che fornisce rinnovata attualità (topicality) al concetto apparentemente antiquato del "politico".
Almeno per alcuni filosofi francesi e italiani contemporanei, appartenenti alla tradizione di Carl Schmitt, Leo Strauss e Hannah Arendt, e per alcuni studenti di Jacques Derrida, il concetto classico del "politico" serve come antidoto contro le tendenze depoliticizzanti dell´epoca (fatemi menzionare solo Ernesto Laclau, Giorgio Agamben, Claude Lefort e Jean-Luc Nancy). Questi colleghi estendono il loro ragionamento politico a domini metafisici e religiosi che sembrano trascendere l´idea triviale di politica come scontro (wrestling) amministrativo e di potere che conosciamo noi. Per renderci consapevoli «che una società, dimenticato il suo fondamento religioso, vivrebbe nell´illusione di una pura immanenza», Claude Lefort fa appello alla differenza tra le politique (il politico) e la politique (la politica). [...]
Dobbiamo le prime concezioni del "politico" elaborate discorsivamente al pensiero del Nomos (Nomosdenken) di Israele, Cina e Grecia, e, più generalmente, all´avanzamento cognitivo che ha avuto luogo durante l´epoca assiale, cioè alle visioni del mondo metafisiche e religiose che stavano emergendo a quel tempo. Tali visioni del mondo misero capo a prospettive che permisero alle élite intellettuali formate da profeti, saggi, monaci e predicatori itineranti di trascendere gli eventi del mondo, inclusi i processi politici, e di adottare nei confronti di ciascuno di essi un atteggiamento distaccato. Da lì in avanti anche i governanti politici furono soggetti alla critica. [...]
In opposizione ai classici della tradizione del contratto sociale, che avevano rimosso il concetto del "politico" da ogni serio riferimento alla religione, John Rawls riconosce che il problema dell´impatto politico del ruolo della religione nella società civile non è stato di per sé risolto dalla secolarizzazione dell´autorità politica. La secolarizzazione dello Stato non è la stessa cosa della secolarizzazione della società. Ciò spiega l´aria di paradosso che fino a oggi ha alimentato, nei circoli religiosi, un subliminale risentimento nei confronti della giustificazione dei princìpi costituzionali «che provengono dalla sola ragione». Per quanto una costituzione liberale sia fatta in modo da garantire a tutte le comunità religiose eguali opportunità di libertà nella società civile, essa deve allo stesso tempo proteggere da ogni pressione religiosa i corpi pubblici che hanno la responsabilità di prendere decisioni collettive vincolanti. Quelle stesse persone che sono espressamente autorizzate a praticare la loro religione e a condurre una vita devota, nei loro ruoli di cittadini devono partecipare ai processi democratici i cui risultati non devono essere "contaminati" religiosamente. Il laicismo pretende di risolvere questo paradosso privatizzando interamente la religione. Ma fino a quando le comunità religiose rivestono un ruolo vitale nella società civile e nella sfera pubblica, la politica deliberativa è un prodotto dell´uso pubblico della ragione tanto da parte dei cittadini religiosi quanto da parte di quelli non religiosi.
Certamente il concetto del "politico" rimane un´eredità sospetta fino a quando la teologia politica tenta di preservare connotazioni meta-sociali per un qualsiasi tipo di autorità statale. In una democrazia liberale il potere statale ha perso la sua aura religiosa. Ed è difficile vedere, stando al fatto del persistente pluralismo, su quali basi normative possa mai essere invertito lo storico passo verso la secolarizzazione del potere statale. Questo passaggio richiede a sua volta una giustificazione degli elementi costituzionali essenziali e dei risultati del processo democratico secondo modi neutrali nei confronti delle pretese cognitive di visioni del mondo in competizione tra loro. La legittimità democratica è l´unica a disposizione oggi. L´idea di rimpiazzarla o di completarla in un modo generalmente vincolante mediante qualche fondazione presumibilmente "più profonda" della costituzione conduce all´oscurantismo. Non è da negare, tuttavia, la grandiosa intuizione di John Rawls: la stessa costituzione liberale non deve ignorare i contributi che i gruppi religiosi possono apportare al processo democratico all´interno della società civile. Pertanto, anche l´identità collettiva di una comunità liberale non può non essere coinvolta dal fatto dell´interazione politica tra le parti religiose e non religiose della popolazione, a patto che esse si riconoscano l´un l´altra come membri eguali della stessa comunità democratica. In questo senso "il politico", migrato dal livello dello Stato alla società civile, mantiene un riferimento alla religione. Non è qui anzitutto rilevante la concezione di un consenso per intersezione (overlapping consensus) tra dottrine concorrenti e visioni del mondo. Con la sua idea dell´«uso pubblico della ragione», Rawls offre piuttosto una chiave promettente per spiegare come il vero e proprio ruolo della religione nella sfera pubblica contribuisca a interpretare razionalmente ciò che potremmo ancora chiamare "il politico", cioè qualcosa di distinto dalla politica [politics] e dalle politiche [policies]. [...]
Nel discorso democratico i cittadini secolari e religiosi stanno in una relazione complementare. Entrambi sono coinvolti in un´interazione costitutiva per un processo democratico che sorge nel terreno della società civile e si sviluppa attraverso le reti comunicative informali della sfera pubblica. Fino a quando le comunità religiose rimangono una forza vitale nella società civile, il loro contributo al processo di legittimazione riflette almeno un riferimento diretto alla religione che è conservato dal "politico" anche in uno Stato secolare. Sebbene la religione non possa essere ridotta alla moralità né essere assimilata agli orientamenti etici ai valori, essa mantiene in vita una consapevolezza di entrambi gli elementi. Allo stesso modo, l´uso pubblico della ragione da parte di cittadini religiosi e non religiosi può incoraggiare la politica deliberativa in una società civile pluralistica e portare al recupero, per la cultura politica nel suo complesso, dei potenziali semantici depositati nelle tradizioni religiose. [...]

Traduzione Federica Gregoratto
«La Repubblica» del 29 gennaio 2013