08 gennaio 2013

Quando manca una morale comune: Leopardi e i costumi degli italiani

di Ezio Raimondi
Quasi un secolo e mezzo fa, nel 1870, un interprete di genio delle ragioni vitali del nostro Risorgimento, Francesco De Sanctis, consacrava nella sua Storia della letteratura italiana, quasi alla stregua di un romanzo, una plurisecolare odissea spirituale, al lume della raggiunta unità politica della nazione celebrata in quelle pagine con l’urgenza e l’entusiasmo di un fatto nuovo, desiderato per secoli: «In questo momento che scrivo - egli annotava mentre abbracciava col pensiero l’Italia letteraria di Petrarca e di Machiavelli - le campane suonano a distesa, e annunziano l’entrata degl’italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida il viva all’unità d’Italia. Sia gloria al Machiavelli». La Storia si concludeva poi con una sorta di programma proiettato nel futuro, nella prospettiva problematica anche se fiduciosa della ricerca e dell’attesa, ove la storia del libro ridiventava tutt’uno con la storia dei suoi lettori. E proprio nelle ultime pagine, intitolate alla "Nuova letteratura", con l’idea che finalmente l’Italia aveva attinto la dimensione di uno Stato, di un paese moderno nel concerto delle nazioni europee, De Sanctis affermava che per vivere appieno la nuova condizione occorreva battere fino in fondo la strada intrepidamente indicata da una delle grandi voci della modernità, Giacomo Leopardi, quando aveva chiesto all’uomo moderno dilacerato e infelice di procedere impavido a «esplorare il proprio petto». Partendo da una memoria comune, depositata nella nostra tradizione letteraria, poteva così delinearsi, a giudizio di De Sanctis, l’identità ancora da conquistare della nuova letteratura e della nuova Italia. Conviene ascoltare le parole che suggellano il grande affresco epico della Storia:

Guardare in noi, ne’ nostri costumi, nelle nostre idee, ne’ nostri pregiudizi, nelle nostre qualità buone e cattive, convertire il mondo moderno in mondo nostro, studiandolo, assimilandolo e trasformandolo, "esplorare il proprio petto", secondo il motto testamentario di Giacomo Leopardi, questa è la propedeutica alla letteratura nazionale moderna, della quale compariscono presso di noi piccoli indizi con vaste ombre [...]. Il grande lavoro del secolo decimonono è al suo termine. Assistiamo a una nuova fermentazione d’idee, nunzia di una nuova formazione. Già vediamo in questo secolo disegnarsi il nuovo secolo. E questa volta non dobbiamo trovarci alla coda, non a’ secondi posti.

Dopo la esaltante conclusione civile del Risorgimento alla letteratura spettava dunque il compito di una «ricerca degli elementi reali» della nostra esistenza, in una sperimentazione franca e appassionata di tutti quei generi letterari che apparivano i più congeniali a questa scoperta di noi stessi e alla visione del nostro ruolo attivo nella modernità. E nel riproporre la frase leopardiana restituendola alla pienezza del suo significato, De Sanctis faceva intendere che la poesia dell’individuo, a cui quelle parole alludevano, finiva poi per essere un modo per descrivere la nuova società italiana contemporanea. Nel momento in cui in tutta Europa si veniva affermando un senso nuovo dei fatti e delle cose concrete, con l’esigenza inderogabile di un impegno diretto nell’attualità, occorreva che noi non rimanessimo più ai «secondi posti» o «alla coda», ma ci allineassimo al fronte più avanzato della modernità europea, diventando a pieno titolo uno dei suoi centri costitutivi di irradiazione e di interpretazione.

II fatto singolare è che molte pagine leopardiane erano in quegli anni necessariamente ignote a De Sanctis. Egli tuttavia, da vero lettore, intuiva anche ciò che non poteva essere esplicitamente detto nei versi dei Canti o nella prosa delle Operette morali ma che la riflessione acuminata del poeta aveva affidato a testi di natura saggistica rimasti ignoti per tutto l’Ottocento e finalmente restituiti al nostro patrimonio letterario solo nel primo decennio del secolo scorso. Fra questi c’è un saggio, scritto forse per la maggior parte nel 1826 durante quel soggiorno bolognese nel quale Leopardi, sentendo disseccata la propria vena poetica, attendeva a divenire sempre più "filosofo", e intitolato Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani. Verrebbe da pensare che i quasi quindici mesi trascorsi in una città viva, fra intense relazioni di vita associata, dovettero condurre il poeta a riflettere sui costumi degli uomini, in particolare su ciò che rende diversi i costumi degli italiani da quelli di altre tradizioni, di altri paesi, di altri popoli. Erano poi anni quelli, se si sta alle battute d’esordio del Discorso, in cui sia per l’incremento dello «scambievole commercio e dell’uso de’ viaggi» sia perché, venuta meno l’egemonia della Francia, «si è introdotta fra le nazioni d’Europa una specie d’uguaglianza di riputazione sì letteraria e civile che militare», era accaduto che si fosse dilatato il desiderio di una conoscenza reciproca dei popoli, di là dagli orgogli nazionali che in passato avevano indotto a spregiare i vicini quando non a ignorarli del tutto.
Occorre tuttavia a questo punto, prima di entrare nelle ragioni più profonde del saggio, riandare per un momento a un altro Discorso, a quelle pagine straordinarie che un Leopardi appena ventenne, dalla sua cruda solitudine recanatese, aveva scritto in dialogo con uno dei più acuti romantici del gruppo milanese, Ludovico Di Breme, interprete lucido e appassionato dell’immaginazione poetica dei moderni. Rifiutato dalla "Biblioteca italiana" e rimasto inedito fino al principio del Novecento, il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, dopo avere sostenuto le ragioni di un classicismo moderno e sentimentale, si chiudeva con una perorazione finale tutta affidata al pathos. Non riuscendo, alla fine, a «costringere i moti» del proprio animo, Leopardi non si rivolge più soltanto ai lettori, ma a tutti quanti i «Giovani italiani», a cui si sente legato da un vincolo di solidarietà, dal destino comune di una medesima generazione. Dalla consapevolezza dell’infelicità presente tanto più dolorosa se commisurata alla ricchezza di una grande tradizione, letteraria e umana insieme, nasce una compassione che si traduce in un appello accorato a un’Italia tradita, sventurata, perché il suo passato glorioso non sia perduto ma torni, rinnovato, a vivere nella storia e nella letteratura del presente. Ascoltiamolo:

Ma già sul finire, essendomi sforzato sin qui di costringere i moti dell’animo mio, non posso più reprimerli, né tenermi ch’io non mi rivolga a voi, Giovani italiani, e vi preghi per la vita e le speranze vostre che vi moviate a compassione di questa nostra patria, la quale caduta in tanta calamità quanta appena si legge di verun’altra nazione al mondo, non può sperare né vuole invocare aiuto nessuno altro che il vostro. Io muoio di vergogna e dolore e indignazione pensando ch’ella sventuratissima non ottiene dai presenti una goccia di sudore, quando assai meno bisognosa ebbe torrenti di sangue dagli antichi prontissimi e lieti; né c’è una penna tra noi che s’adopri per quella che gli avi nostri difesero e accrebbero con milioni e milioni di spade. Soccorrete, o Giovani italiani, alla patria vostra, date mano a questa afflitta e giacente, che ha sciagure molto più che non bisogna per muovere a pietà, non che i figli, i nemici.

C’è senza dubbio l’iperbole dell’oratoria, ma vi si sente anche un fondo autentico, una sofferenza reale, in una prosa intrisa di cadenze e di aperture poetiche: quasi il linguaggio alto di un canto. Del resto, basterebbe aprire il libro dei Canti per trovare che i primi tre, scritti negli anni 1818-20, All’Italia, Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze e Ad Angelo Mai, sono tutti costruiti sulla stessa antitesi fatale fra la grandezza del passato e un presente privo di onori, che solo in quel passato può trovare l’impulso e la forza per rinascere. Così comincia la canzone All’Italia:

O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l’erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi 5
I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè quante ferite,
Che lividor, che sangue!

Ancora più duro suona il giudizio sul presente, sul «secol morto», che apre la canzone Ad Angelo Mai, il filologo umanista a cui si deve la riscoperta del De re publica di Cicerone:

Italo ardito, a che giammai non posi
Di svegliar dalle tombe
I nostri padri? ed a parlar gli meni
A questo secol morto, al quale incombe
Tanta nebbia di tedio? E come or vieni 5
Sì forte a’ nostri orecchi e sì frequente,
Voce antica de’ nostri,
Muta sì lunga etade? e perché tanti
Risorgimenti?

Questi versi e il Discorso di un italiano nascevano dentro un’uguale temperie, dove chi parla si sente parte della generazione a cui si rivolge, vuole renderla partecipe degli stessi impeti e della sua stessa commozione. E il richiamo costante al passato non è un’evasione nel tempo perduto: è piuttosto un modo per giudicare criticamente il proprio tempo, per ammonirlo a essere più moderno di quanto non sia, a costruire, pur nella percezione di una trasformazione radicale della società, una patria dove possa ancora valere quel mito dell’eroico e della giovinezza che Leopardi sentiva vividamente presente nel mondo antico come una sorta di etica trasfusa nella storia.
Se si torna a questo punto al Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, si riconoscerà un tono completamente diverso, per dir così a distanza, dove l’eloquenza del discorso è come trattenuta dalla razionalità delle osservazioni, regolata dalla cadenza del moralista che scruta il proprio essere e, attraverso questo, anche l’essere dell’altro, interrogandosi alla fine sui comportamenti del vivere sociale. E «considerando le opinioni e lo stato presente dei popoli», osserva Leopardi in una delle pagine iniziali, non può essere dissimulato che, tramontati i principi morali del passato, la conservazione delle società sembra opera del «caso», dal momento che nelle costituzioni moderne, che pure hanno leggi e una forza pubblica deputata a farle rispettare, è venuto meno ciò che rende quelle leggi capaci di tradursi naturalmente nei rapporti della vita quotidiana, vale a dire i «costumi». E i costumi – Leopardi lo dirà in pagine successive – non sono semplicemente qualcosa che si tramanda attraverso un’accettazione per dir così meccanica: questo vale semmai per le usanze e le abitudini, mentre i costumi esigono una risposta, una vera e propria assunzione di responsabilità da parte di chi li accoglie e li fa propri. D’altro canto, gli stessi costumi, per continuare a sussistere, hanno bisogno di fondamenti, con la garanzia di opinioni condivise, e tutto ciò appare generalmente perduto nella moderna civiltà europea. Tuttavia in questa società moderna così incerta sul proprio futuro, i paesi più avanzati come l’Inghilterra, la Francia e la Germania hanno elaborato «un principio conservatore della morale e quindi della società, che benché paia minimo, e quasi vile rispetto ai grandi principii morali e d’illusione che si sono perduti, pure è d’un grandissimo effetto». E questo principio per Leopardi è la «società stretta», cioè una vita associata intensa, fondata su rapporti quotidiani autentici, su un dialogo vero, su «un commercio più intimo degl’individui fra loro». Certo, è tutt’altra cosa dall’etica antica della grandezza e dell’eroismo, dell’ambizione e della gloria, della progettualità e dello slancio magnanimo verso il futuro, ma ne è forse, per il momento, l’unico surrogato possibile concesso all’uomo moderno. E se in passato l’ambizione coincideva con il «desiderio di gloria», ora l’«amore della gloria è incompatibile colla natura de’ tempi presenti», nei quali, là dove si dia il vincolo di una società "stretta", «l’ambizione produce un altro sentimento tutto moderno, e di natura sua, siccome di fatto e di nascita, posteriore alle grandi illusioni dell’antichità. Questo sentimento è quello che si chiama onore. È un’illusione esso stesso, perché consiste nella stima che gl’individui fanno della opinione altrui verso loro». Lettore profondo dei grandi moralisti del Seicento e del Settecento e conoscitore attento dei nuovi strumenti di comunicazione e divulgazione dell’attualità come le riviste e i giornali, Leopardi può a questo punto affermare che all’etica della vita pubblica del passato si è ora sostituita «l’opinione pubblica». Non può esservi società "stretta" senza un’opinione pubblica, quando questa s’intenda come una forza della vita comune che impronta di sé le vite dei singoli, una misura di valore in sostituzione di altre morali. E come non osservare, a questo proposito, che i problemi di straordinaria importanza sollevati da Leopardi valgono ancora per noi a quasi due secoli di distanza? Verrebbe da chiedersi secondo quali valori e quali costumi si definisca l’opinione pubblica nel mondo inondato di voci in cui oggi ci troviamo a vivere.
Ora, dove esiste un’opinione pubblica esiste anche la conversazione, un libero parlare che circola fra gli uomini colti e che non può andare disgiunto dal «buon tuono», il bon ton della lingua e della cultura francese: è qualcosa di più di un’educazione alla parola, perché implica il rispetto dell’altro, il riconoscimento di un valore che si manifesta già nel modo di parlare. Né una morale pubblica né l’esistenza di buoni costumi pubblici e privati possono darsi là dove manchi il «buon tuono».

Le categorie che è venuto fin qui definendo - la «società stretta», l’«onore», l’«opinione pubblica», il «buon tuono» - permettono alla fine a Leopardi di enunciare un giudizio che non giunge inaspettato: a differenza di altri paesi europei, l’Italia non è riuscita in alcun modo a fare di questi principi e di questi costumi i fondamenti di una nuova morale comune. D’altro canto, le principali «occasioni di società» di cui gli italiani paiono saper fare uso si limitano al «passeggio, gli spettacoli e le Chiese», e Leopardi di certo ricordava le pagine di un grande scrittore come Pascal, là dove questi parlava del divertimento come desiderio di sfuggire al dovere della riflessione e come tentativo di eludere qualcosa che appartiene alla condizione vera dell’uomo. Gli italiani, in fondo, non hanno neppure un «centro» paragonabile a quello che Parigi, Londra e Berlino rappresentano per la Francia, l’Inghilterra e la Germania, e, per quanto riguarda la letteratura, la mancanza di un centro comporta l’assenza di un «pubblico»:
Lascio stare che la nazione non avendo centro, non hawi veramente un pubblico italiano; lascio stare la mancanza di teatro nazionale, e quella della letteratura veramente nazionale moderna, la quale presso l’altre nazioni, massime in questi ultimi tempi è un grandissimo mezzo e fonte di conformità di opinioni, gusti, costumi, maniere, caratteri individuali, non solo dentro i limiti della nazione stessa, ma tra più nazioni eziandio rispettivamente. Queste seconde mancanze sono conseguenze necessarie di quella prima, cioè della mancanza di un centro, e di altre molte cagioni. Ma lasciando tutte queste e quelle, e restringendoci alla sola mancanza di società, questa opera naturalmente che in Italia non havvi una maniera, un tuono italiano determinato.

Mancando una conformità di opinioni, gusti, caratteri, non solo ogni «città italiana [...] ma ciascuno italiano fa tuono e maniera da sé». È una diffrazione, una frammentazione che per Leopardi non ha nulla di positivo, diversamente – andrà ricordato – da quello che di lì a qualche anno, analizzando lo stesso fenomeno con gli strumenti della filosofia e della sociologia, un lombardo come Carlo Cattaneo avrebbe osservato a proposito della ricchezza che la varietà delle città italiane conferisce ai caratteri dell’identità nazionale.
Dunque in un paese come l’Italia, dove l’assenza di una società "stretta" ha impedito di porre un rimedio alla crisi delle credenze antiche, di trovare un senso "umano" al vuoto della vita, non rimane che una «indifferenza profonda, radicata ed efficacissima verso se stessi e verso gli altri, che è la maggior peste de’ costumi, de’ caratteri e della morale». Ma l’autore delle Operette morali sa bene che una via di salvezza di fronte alla "vanità del tutto", al disinganno irrimediabile dell’uomo, alla mancanza di coraggio e all’inutilità di una disperazione troppo debole, è il riso: «il più savio partito è quello di ridere indistintamente e abitualmente d’ogni cosa e d’ognuno, incominciando da se medesimo». Eppure neanche questa attitudine riesce in Italia a creare una sorta di adeguato sostituto all’assenza della conversazione poiché quella che da noi si pratica è una derisione che non mira a correggere nulla, è solo un divertimento alle spalle di qualcuno. E quasi per osservare più da vicino questo fenomeno Leopardi ricorre a tre parole della lingua francese, raillerie (il motteggiare), persifflage (la canzonatura) e polissonerie (la battuta audace, volgare), sottolineando soprattutto che, mentre altrove si ride delle «cose», gli italiani, incapaci di una conversazione vera, «passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi fino al sangue». E anche a questo proposito varrebbe la pena di interrogarsi su ciò che accade oggi, sui meccanismi della satira nel mondo contemporaneo.
Ciò che emerge, alla fine, è una mancanza di rispetto di sé e degli altri, una piccola guerra quotidiana combattuta là dove mancano rapporti umani autentici, dove sui problemi che riguardano il bene pubblico prevale di gran lunga la mediocre contingenza delle ragioni personali. Con parole radicali, con un tono severo in cui la tensione oratoria del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica ha ceduto il posto a un ragionamento analitico, a una sorta di ansia fredda di guardare, distinguere, diagnosticare, l’autore riconosce nell’«egoismo» e nella «misantropia» «le maggiori pesti di questo secolo», dalle quali non può che derivare «l’infelicità sociale e nazionale».
Autori vari, Cultura umanistica e scuola: riflessioni e analisi, Pearson Italia, 2011 (pp. 61-67).

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