08 gennaio 2013

Machiavelli: espressione dell'uomo moderno

di Marcel de Corte
Non si può comprendere l'opera di Machiavelli e la sua portata, senza comprendere prima la concezione dell'uomo e del mondo che la governa.
Il pensiero di Machiavelli viene ridotto spesso al solo studio dei procedimenti, dei meccanismi, delle trappole, e anche delle forche, necessarie per conquistare e conservare il potere; il tutto, ben condito da una sapienza psicologica di volta in volta esaltata o condannata.
Ora, questo aspetto dell'opera di Machiavelli non è falso: è certo, cioè, che Machiavelli è il padre di tutte le ricette machiavelliche; ma è altrettanto vero che il machiavellismo non esaurisce tutto il pensiero di Machiavelli. Non c'è opera di genio che esaurisca il genio che l'ha creata. Platone è più grande del platonismo, perché porta in sé tutto un mondo del quale la sua opera è solo un frammento. Balzac è più grande della "Comèdie humaine". È caratteristica del genio di essere inesauribile: al contrario del chiacchierone, dice sempre la stessa cosa senza stancare mai. È quanto accade per Machiavelli. Nell'intimo dei meccanismi politici dei quali il Fiorentino smonta pazientemente gli ingranaggi, c'è una certa visione dell'essere umano inserito nel mondo, che ne organizza le relazioni e ne coordina le giunture. I consigli che Machiavelli dà a chi aspira al potere acquistano il loro senso soltanto se riferiti all'intuizione filosofica e antropologica che strategicamente li orienta. Per darli, e per essere certo che fossero bene accolti, Machiavelli doveva sapere che cosa fosse l'uomo del suo tempo, e quale concezione questo si facesse di sé e del suo posto nell'universo. Non era tipo da predicare ai sordi.
Se non si enuclea questa concezione iniziale, dalla quale nasce tutto il pensiero di Machiavelli, come da una specie di fonte sotterranea, non resta della sua opera che un ammasso informe di comportamenti, direttrici, atteggiamenti ed artifici, senza legame e senza unità.
In questo errore sono caduti la maggior parte degli esegeti di Machiavelli, e degli uomini d'azione che hanno voluto conformare la loro condotta alle massime dell'autore del "Principe": si sono cioè costruiti un Machiavelli convenzionale, hanno fatto di lui una specie di virtuoso del machiavellismo, se lo sono rappresentato come un puro tecnico della politica. Ora, se Machiavelli è una volpe sempre sulle tracce della preda, è tuttavia una volpe che pensa, le cui astuzie e furberie dipendono dal tipo d'uomo che egli vede nella sua epoca, e del quale porta in se stesso l'immagine. È troppo intelligente per non sorpassare di mille miglia il machiavellismo volgare al quale troppo spesso è ridotto il suo pensiero: conosce l'uomo nuovo portato dal Rinascimento, e se ne è fatto, nell'intimo, un'idea esatta, ferma, lucida. La sua arte di governare non è lasciata agli arbitri del caso, all'improvvisazione, ma neppure alla sola conoscenza dei motivi psicologici dell'animo umano. Tutto questo lo conosce a fondo, d'accordo, ma conosce soprattutto la natura umana, come la concepisce il Rinascimento.
Per cogliere la concezione dell'uomo che sta costantemente alla base delle implacabili analisi di Machiavelli, e che pure non risulta esplicitamente in nessun punto, bisogna contrapporla a quella medievale.
Il medioevo è dominato dalla concezione aristotelica dell'uomo, integrata nel cristianesimo dal genio di san Tommaso. Dell'uomo medievale, si può dire, all'ingrosso, che è tutto d'un pezzo, senza rotture e crepe fra le componenti del suo essere, come un contadino la cui semplicità ignora i conflitti psicologici propri del cittadino, sollecitato in direzioni diverse dalle seduzioni della civiltà urbana e portato così spesso a spingere all'estremo la sua visione cerebrale del mondo. Il suo atteggiamento di fronte al reale è sintetico, non analitico, ed egli riconosce se stesso come un tutto, proprio alla maniera degli esseri e delle cose della natura che osserva intorno a sé e alla cui vita si mescola. Un albero non è per lui delle radici più un tronco più delle fronde, perché le parti ricevono la vita da un principio unico. Un animale non è un'addizione d'organi e di membra giustapposte come gli ingranaggi d'una macchina, ma un essere vivente che trae la sua vita da un'entità misteriosa serpeggiante, senza distinzione, in tutte le sue parti: quella che i sapienti chiamano anima. L'universo appare all'uomo medievale come una vasta rete di corrispondenze che concordano fra di loro in maniera organica. La sua concezione dell'uomo e del mondo è essenzialmente vitalistica.
Nulla di strano quindi che l'uomo del medioevo, formato dal contatto con la natura, abbia adottato nel suo comportamento, in modo conscio per i colti, inconscio per gli incolti, la dottrina aristotelica, che gli si adatta come un guanto. Per Aristotele infatti l'anima non è separata dal corpo, né lo spirito dalla carne: le due entità, incomplete, esistono l'una per l'altra. L'anima penetra il corpo fino all'ultima fibra, il corpo impregna l'anima fino nel profondo. È stato l'aristotelismo cristiano a orchestrare questa concezione unitaria dell'uomo, secondo cui lo spirituale è carnale, per riprendere la formula di Péguy, uomo del medioevo capitato per sbaglio nel secolo xix. Senza dubbio, la grazia è distinta dalla natura, ma, lungi dall'abolirla, la porta a compimento, incarnandovisi. (1) Non è affatto una mano di pittura, o un compensato deposto sull'uomo, ma è invece intimamente mescolata alla sua vita, come il nutrimento al sangue, e costituisce il principio di tutte le sue azioni soprannaturali e l'origine delle sue virtù teologali. L'aristotelismo cristiano è governato dalla legge dell'incarnazione radicale della grazia e dell'anima nel corpo, con il quale fanno un tutt'uno.
Non ci sono dunque per l'uomo medievale l'anima da una parte e il corpo dall'altra, come un pilota in un vascello, ma un solo essere tutto d'un pezzo. Non c'è da una parte il soprannaturale e dall'altra il naturale, ma un essere umano completo: l'uomo battezzato, completamente naturale e completamente soprannaturale, nella misura in cui realizza in sé le esigenze della natura e della grazia. L'essere umano è dunque per il medioevo un individuo nel senso più forte della parola, vale a dire un essere indiviso. Soltanto la morte viene a rompere questa fondamentale unità; ma la morte, nella prospettiva cristiana, non è altro che la porta aperta verso la risurrezione, nella quale anima e corpo si ricongiungono, e si ricostituisce l'unità concreta dell'essere umano. Le scene della risurrezione che si vedono sui portali delle cattedrali romaniche o gotiche del medioevo non sono soltanto la traduzione in immagini del giudizio finale, ma anche il simbolo della ricostituzione dell'essere umano integrale, dotato di un'anima, provvisto di carne ed ossa, destinato ad una gioia eterna, o ad una sofferenza eterna, a seconda del modo in cui ha vissuto. Il dogma della risurrezione dei corpi è strettamente legato alla concezione unitaria dell'uomo passata dall'aristotelismo al cristianesimo.
Il macrocosmo dell'universo non è altro che il gigantesco ingrandimento del microcosmo dell'uomo. Anch'esso è sottoposto alla regola d'oro dell'unità delle parti che lo compongono. Ogni fenomeno terrestre ha il suo corrispondente celeste, e viceversa; il dogma del corpo mistico della Chiesa, nel suo triplice aspetto militante, sofferente e trionfante, sottolinea ancora una volta la stretta solidarietà che esiste fra la concezione gerarchizzata e unitaria del cosmos aristotelico e la teologia cristiana.
L'uomo si trova dunque in accordo fondamentale con l'universo nel quale s'inserisce per destino di nascita. Senza dubbio, il peccato originale ha allentato questa relazione, ma non l'ha rotta completamente. L'uomo è stato escluso dal beneficio della grazia ma la natura in lui, per quanto ferita, non è stata corrotta al punto da non essere più natura. Cristo, del resto, è venuto per restaurare l'unità della creazione e offrirla nuovamente, sublimata dal suo sacrificio redentore, al Padre, creatore di tutte le cose, visibili ed invisibili. Il cristiano che imita in questo modo Cristo è un uomo che, sollevato dalla grazia soprannaturale, offre alla paternità divina se stesso e l'universo intero di cui fa parte.
La prospettiva aristotelica e cristiana del medioevo è dunque decisamente vitalistica, consonantistica e ottimistica. La vita formicolante della natura viene da Dio e ritorna a Dio per mezzo di Cristo, "per ipsum et cum ipso et in ipso est tibi, Deo Patri omnipotenti, in unitate Spiritus Sancti, omnis honor et gloria". Questa grandiosa visione teologica di un mondo la cui molteplicità è anche unità, non sarebbe stata possibile senza il lungo travaglio della sistemazione intrapresa da Aristotele che porta al suo perfetto compimento l'idea greca d'universo ordinato come un coro; il cosmo sospeso, per amore, a un Bene supremo che è Dio. Lo spirito medievale s'applicherà, dunque, come quello greco, ad ordinare la convergenza di tutti gli esseri, di tutti i beni verso il Bene, di tutti gli interessi materiali, intellettuali e spirituali verso l'armonia universale. La cristianità del medioevo è in questo modo l'erede diretta del cosmos greco e la sua trasposizione al piano superiore del soprannaturale.
Ora, questo universo è tanto più ordinato quanto più i suoi membri dipendono fino all'ultima radice da un Dio creatore. Ciascuno ha nell'universo un posto predestinato, ciascuno vi rappresenta ciò che vuole la volontà divina, senza poter aggiungere nulla alla sua figura, senza poter diventare diverso da quello che è, senza poter evadere dal suo proprio essere. Superarsi, andare al di là del potere che Dio ha assegnato a ciascuna delle sue creature, costituisce il peccato per eccellenza: l'orgoglio, che precipita chi ne è in preda nel disordine, fuori della creazione divina, e lo fa cadere tra le mani del demonio.
Anche qui, la concezione cristiana del peccato come rottura della legge divina si incontra con la concezione greca della sproporzione, dell'orgoglio, secondo la quale ogni uomo che esagera del potere di cui dispone e oltrepassa i suoi limiti, è immediatamente castigato della sua temerarietà con la distruzione della sua potenza.
Voler essere più di quel che si è, esclude l'uomo dall'ordine universale. Tutti gli abusi di potere sono immediatamente puniti: chiunque infranga i limiti della condizione umana per erigersi a superuomo, o Dio, si sottrae a questa armonia.
Questa concezione è stata demolita nel Rinascimento. Per difficile che sia definire in poche parole questo prodigioso movimento, il meno che si possa dire è che le influenze aristoteliche e cristiane, che con tanta forza si esercitarono nel medioevo, vi si attenuano, e finiscono in certi casi per sparire. La scuola di Padova resta sì fedele ad Aristotele, ma l'aristotelismo che essa divulga non ha più nulla a che vedere con quello greco e tomista. È così fortemente colorato di averroismo, che si stenta a riconoscerlo. Il posto di Aristotele viene preso da Platone, o piuttosto dalla sua trasposizione neoplatonica, e anche l'aristotelismo padovano non è che un neoplatonismo camuffato, proprio come l'averroismo del quale ha subito l'influenza. Dal Rinascimento in poi, non c'è più un solo filosofo peripatetico di rilievo.
Così pure, la struttura solidamente contadina della fede cristiana si altera, e si lascia invadere da elementi che vi separano le robuste relazioni strette fra la Sopra-natura e la natura. Mentre la natura, nel senso medievale del termine, è l'insieme degli esseri creati riuniti nella creazione e concretamente sottoposti al Creatore, la natura, nel senso nuovo del termine, diventa astratta e degenera in naturalismo, vale a dire in una dottrina che sottrae l'universo e la condotta umana agli imperativi della legge divina trascendente.
Privata del suo sostrato naturale, la fede cristiana si trasforma: perde il suo carattere carnale e s'immanentizza; è molto più pensata che vissuta, trasformandosi in un puro fideismo. Certo, l'uomo del Rinascimento resta un credente, ma la sua convinzione si mescola con tutte le sue elucubrazioni sull'universo, si rinchiude in se stessa, e spezza tutti i rapporti che il medioevo aveva solidamente stretto fra la filosofia, campo della prova, e la teologia, campo della rivelazione. Scriveva Poggio Bracciolini del suo amico Lorenzo Valla: "Egli condanna la fisica di Aristotele, distrugge la religione, professa idee eretiche, disprezza la Bibbia. E non ha forse professato che la religione cristiana non si fonda su delle prove, ma sulla fede, superiore a ogni prova?". Come si vede, il Rinascimento rompe con Aristotele e con la teologia cristiana tradizionale.
Le due fratture sono parallele, e si ritrovano, in gradi diversi, in tutti gli spiriti dell'epoca: l'uomo del Rinascimento non considera il mondo come un cosmos creato e riscattato da Dio, ma si colloca fuori di questo mondo che affronta soltanto più nella sua dimensione puramente mondana.
Non lasciamoci ingannare dalle metafore che si adoperano spesso parlando di questo periodo storico, secondo le quali il Rinascimento avrebbe sostituito l'antropocentrismo al teocentrismo medievale. L'immagine del "centro" è piuttosto falsa. Migliore quella del cerchio: per l'uomo medievale, il ciclo del reale va da Dio come principio a Dio come fine, passando per gli esseri finiti, naturali e soprannaturali. Questo accordo circolare è ora spezzato: l'uomo si trova all'esterno del ciclo della realtà: non è più un essere nel mondo, ma un essere fuori del mondo, di fronte a un universo spogliato della profondità naturale esplorata dall'aristotelismo e della profondità soprannaturale comunicatagli dal cristianesimo. Il mondo del Rinascimento è "snaturalizzato e dissacrato". Non v'è più nel mondo il principio vitale di cui parlava Aristotele; non più il fermento della grazia come diceva san Paolo: il mondo è ora un mondo nudo, disincantato. Non vi si cercheranno più le tracce dell'intelligenza divina che l'ha creato, né le vie dell'amore divino che l'ha riscattato. Può essere soltanto più un oggetto di conquista per l'uomo, che gli si colloca di fronte come il padrone dinanzi allo schiavo o l'artista di fronte alla materia da modellare.
Un simile mutamento di concezione avrà come conseguenza pratica immediata la sostituzione ai filosofi e ai teologi, cioè ai contemplativi del medioevo, degli uomini pratici: gli artisti, gli artigiani, i guerrieri, i conquistatori: in una parola, i tecnici. E siccome, per impadronirsi del mondo e imprimergli una forma è necessario conoscerne la resistenza e la malleabilità, così bisognerà scoprirne le linee di forza, proprio come se il mondo fosse una macchina da costruire; perché il mondo non è più un organismo come lo pensava Aristotele, ma un meccanismo, dal quale è esclusa ogni idea di causa, nel quale ci sono soltanto più dei fenomeni che si succedono e i cui antecedenti e conseguenti si rivelano invariabili all'osservazione. Come sottolinea Emile Bréhier, la nuova concezione del mondo è una di quelle che si realizzano, non una di quelle che si pensano. L'uomo rinascimentale di cui Machiavelli analizza il comportamento è il primo uomo faustiano: "Im Anfang, war die Tat!". Si può anche dire che è il primo marxista, se è vero che non si tratta più di conoscere il mondo, ma di cambiarlo, come dice il profeta del comunismo.
Con straordinaria acutezza, Machiavelli intuisce questo aspetto nuovo dell'uomo che nasce sotto i suoi occhi sulla scena della storia; per questo, egli volge risolutamente la schiena ai filosofi del Rinascimento rimasti prigionieri del vecchio schema dell'universo, come Nicola Cusano e Campanella, e adotta la nuova visione della natura, perché non vuole versare il vino nuovo, del quale vede la fermentazione, nei vecchi otri del passato. È la strada dei grandi capitani, dei grandi capi politici, dei grandi artisti.
Per Machiavelli, come per i suoi contemporanei consci dell'avvento dell'uomo nuovo, non c'è più un universo armonioso, articolato nelle sue parti da Dio creatore e salvatore, ma ci sono da una parte gli uomini, e dall'altra un mondo che gli uomini possono impunemente violare, purché siano abbastanza intelligenti e astuti. Per libertà, egli non intende più, contrariamente al medioevo, la possibilità di fare il bene o il male, ma - vedi i "Discorsi" - il potere di dominare un mondo divenuto plastico e malleabile, banale e profano, e tale che la ragione vi scopre soltanto più materia percettibile con i sensi. Al di fuori di questo mondo materiale, null'altro v'è che un lontano soprannaturale, fluttuante come un pallone senza ormeggi.
Non che Machiavelli sia un ateo nel senso moderno del termine: egli resta attaccato alla fede tradizionale, ma questa non ha più la possibilità di incarnarsi nel mondo nuovo che ha scoperto. Perciò, potrà scrivere altrettanto bene una esortazione alla penitenza o un discorso morale - è il titolo di una delle sue prose - quanto il regolamento per una società di piaceri - è un altro titolo. Machiavelli morirà in grembo alla Chiesa: scrive suo figlio Pietro a Francesco Nellio, avvocato fiorentino a Pisa, il 22 giugno 1524: "Si è lasciato confessare da frate Matteo, che gli ha tenuto compagnia fino alla morte". Ed è tutto: Machiavelli muore fedele ad una istituzione, nulla più. Non è un miscredente, un negatore, un nemico del cristianesimo. Non imita neppure la fede, come pensa Abel Le Franc di Rabelais: semplicemente, vive in due mondi diversi, separati da diaframmi a chiusura stagna. La conoscenza umana del mondo non è per lui integrata dalla fede cristiana, e questa non si appoggia più in modo vitale sulla prima. Pratica, come gli averroisti del suo tempo, la dottrina della doppia verità: verità religiosa e verità profana, indipendenti l'una dall'altra. Il suo atteggiamento è fideistico: "credo quia absurdum", e non "credo ut intelligam". Ragione ed esperienza non conducono più alle soglie del mistero soprannaturale, e questo non è più un prolungamento delle loro ricerche. Il vero mondo terrestre è quello dell'azione, il vero mondo celeste è quello della fede irrazionale, sentimentale, affettiva, contenuta nelle istituzioni e nei riti della Chiesa. Machiavelli li adotta entrambi, senza scoprire più il loro legame, come accade alla maggior parte dei suoi contemporanei. I due mondi sono dissonanti e Machiavelli vi si adatta, come d'altronde Montaigne, Hobbes e tanti altri.
Soltanto che non basta più fare questa constatazione, come la maggior parte degli storici, o semplicemente dichiarare insostenibile e ipocrita questo atteggiamento ambivalente, come Abel Le Franc. Bisogna comprenderlo, e non lo si comprenderà se non s'immerge Machiavelli nell'atmosfera specificamente neoplatonica nella quale affondano tutti gli spiriti del Rinascimento sotto l'influenza di Proclo. Per i neoplatonici, come per Platone, ci sono due mondi che coesistono senza penetrarsi a vicenda: il mondo intelligibile e armonioso, e il mondo materiale, disordinato. Ma mentre Platone parlava da poeta del mondo sensibile come d'una degradazione del mondo delle idee o come di un'ombra, i neoplatonici lo considerano un ammasso di parti esteriori le une alle altre, e prive di ogni principio organizzativo. La materia è per loro completamente indeterminata: è il male, o almeno, come ritiene Proclo, l'assenza di ogni consonanza, accordo, armonia.
L'uomo è dunque collocato in un universo radicalmente segnato dal sigillo della dualità: quaggiù un mondo dissonante, lassù, un mondo armonioso. Con lo spirito appartiene al primo, con il corpo al secondo. Ci sono soltanto due atteggiamenti possibili, proprio quelli che adottano gli uomini del Rinascimento secondo le loro inclinazioni: o fuggire il più possibile il mondo di quaggiù e rifugiarsi in quello della speculazione cerebrale (ed è quanto fanno molti filosofi, come Marsilio Ficino, Nicola Cusano e Campanella), oppure ricusare il mondo di lassù, o perlomeno rinchiuderlo in una silenziosa solitudine, e adattarsi al mondo terreno con la ferma intenzione di farcisi un posto, in mezzo alle divergenze.
Ci sono poi molti spiriti che oscillano da un polo all'altro: Leonardo da Vinci va dall'esoterismo alla tecnica. Certi filosofi ricostruiscono astrattamente un mondo ideale, ma sono anche medici, astrologi e occultisti. Gli umanisti edificano una religione della bellezza, ma sono anche dei filosofi delle scienze esatte. Machiavelli, da parte sua, si butta con avidità sul mondo terrestre, pronto però a conservarsi un'uscita di sicurezza verso il mondo di sopra, con quell'estrema prudenza che lo caratterizza, e il senso del calcolo che costituisce il fondo del suo carattere.
Tutto il genio di Machiavelli sta nell'aver compreso il significato di questo passaggio da un mondo unificato ad uno disarticolato, e di averne tratto le conseguenze. Machiavelli coglie mirabilmente la causa di questa immensa trasformazione; il suo occhio esercitato lo afferra a prima vista: se il mondo è disarmonico, è perché l'uomo stesso si è incrinato, e le componenti della sua natura, magari ancora organizzate da un aristotelismo e un cristianesimo diffuso e passato nei costumi, si sono separate le une dalle altre. In realtà non è solo la fede che si isola nell'uomo del Rinascimento e che, sotto l'aspetto d'un fideismo disincarnato, si stacca dalla natura umana, a sua volta degradata in naturalismo, ma è l'uomo concreto, quello quotidiano, l'uomo della strada, per così dire, che divorzia da se stesso. L'uomo tutto d'un pezzo che il medioevo ha conosciuto, cede il posto a un uomo le cui estremità spirituali e vitali si sono separate. L'angelo che abita nell'uomo sotto l'aspetto dello spirito, contempla d'ora in poi dal di fuori la bestia che abita nell'uomo sotto l'aspetto delle passioni e degli istinti: una triplice rottura scinde l'uomo dall'alto in basso. Non c'è più comunicazione organica fra il credente, l'essere ragionevole e l'animale. Fino a poco prima, quest'uomo era riuscito a superare le contraddizioni della sua natura, sublimandole in un'arte di vivere ispirata all'aristotelismo e al cristianesimo: ora, l'invasione neoplatonica ha eliminato questa possibilità.
Pico della Mirandola lo ha detto perfettamente nel suo famoso discorso sulla dignità dell'uomo. Dice il Creatore ad Adamo: "Ti ho messo in mezzo al mondo perché tu possa più facilmente guardarti intorno e vedere ciò che il mondo racchiude. Facendo di te un essere che non è né celeste né terrestre, ho voluto darti il potere di formarti da solo: tu puoi discendere fino al livello della bestia e puoi elevarti fino a diventare un essere divino".
Tutte le filosofie dell'epoca rifiutano la concezione unitaria dell'uomo: la ragione umana è autonoma, e non ha nulla a che vedere con il corpo, materia vile. La ragione è divina, o partecipa del divino, e si può introdurre nei misteri delle realtà superiori alle quali la sua natura la apparenta. Ne viene che le passioni del corpo, non più regolate dallo spirito presente nella carne, hanno libero corso. È il famoso adagio di Pascal: "Chi fa l'angelo, fa la bestia". Si trova con difficoltà un altro periodo della storia in cui la cultura dello spirito in tutti i suoi aspetti, normali o aberranti, abbia coinciso in tal modo con la peggiore dissolutezza dei costumi. Un esempio ne è la corte pontificia.
Machiavelli non fa che appropriarsi di questa concezione dell'"homo duplex". Scrive: "È felice, vale a dire raggiunge la perfezione del suo essere, chi sa ben governarsi secondo la qualità e la condizione dei tempi". Ma il suo tratto di genio sta nell'aver invertito i termini, e nell'aver capito che la polvere di esoterismo che tanti suoi contemporanei respiravano con delizia dai manoscritti dell'antichità decadente, non valeva un soldo. Anche per Machiavelli l'uomo è doppio: vi è la ragione, e vi è l'animale nell'uomo, ma è l'animale che è in lui che lo mette a contatto con il reale. La caratteristica della ragione non è quella di involarsi nel regno delle chimere, lasciando che passioni e istinti animaleschi se ne vadano per conto loro, ma al contrario è suo compito seguirli per fare in modo che raggiungano lo scopo, e conferir loro il massimo di potenza con le tecniche sapienti inventate ad hoc.
Siamo così al centro del pensiero di Machiavelli. È la fine dell'intelligenza aristotelica e cristiana che pone il fine ultimo della vita umana nel bene supremo, Dio: il bene supremo, Dio, invita la volontà a riavvicinarsi il più possibile, armonizzando di volta in volta il mondo materiale e quello spirituale. È la fine della ragione, nel senso antico e medievale, che svela all'uomo la sua natura di animale ragionevole e le sue funzioni gerarchicamente organizzate, e che illumina la volontà incaricata di realizzare l'architettura ordinata. La ragione si trova alla presenza di un animale che manifesta i suoi desideri, le sue aspirazioni, i suoi amori e i suoi odi, e che desidera soltanto soddisfarli. Ma come soddisfare pienamente un essere che non ha più dei fini propri e che è travagliato da un'aspirazione illimitata? Privo del suo bene soprannaturale, l'uomo non è altro che incolmabile appetito. L'animale s'imbatte nei suoi limiti: respinto, si arresta; sfamato e dissetato, dopo aver soddisfatto gli altri desideri, si riposa. Eppure l'uomo, per quanto profonda sia la sua caduta, conserva i tratti della sua natura, e desidera ancora realizzarla e giungere al bene supremo (2).
Ma poiché questa strada gli è impedita, seguirà la sua animalità con una sola parola d'ordine: sempre di più. L'uomo di Machiavelli non ha altra mira che la potenza, e la definizione della potenza è sempre di più. Il potere è come un gas, scriveva Simone Weil, parafrasando Tucidide: si dilata all'infinito fino a che non incontra un ostacolo. Così tutto il problema di Machiavelli, il solo problema di Machiavelli, è questo: in che modo l'uomo, che non è altro che potere, possa estendere questo potere senza perderlo. La risposta: elaborando una tecnica razionale della potenza che le impedisca di dissiparsi.
Machiavelli vede l'uomo nella sua duplicità agire esattamente come un ingegnere. La ragione dell'ingegnere si trova di fronte a delle forze materiali, che si tratta anzitutto di conquistare e poi di utilizzare in modo che non sfuggano più. È anche il problema di Machiavelli. L'ingegnere è un machiavellico inconscio, Machiavelli è un ingegnere dell'animo umano senza il titolo ufficiale.
Per raggiungere lo scopo, egli spingerà fino all'estremo limite dell'investigazione l'analisi del potere, e incomincerà a liberarlo di tutte le sue impurità. Il potere, per prima cosa, non è nient'altro che potere allo stato puro, che ha come fine soltanto se stesso. Non si è potenti per godere del benessere, o delle donne, o dei piaceri, e così via, ma si è potenti soltanto per dispiegare la propria potenza. Nella storia, Machiavelli va a ricercare tutti gli esempi del potere e scruta a fondo Tito Livio. Roma antica, archetipo del potere, gli fornisce materiale inesauribile che gli permette di definire come il potere si conquisti, si conservi, si perda.
E come l'ingegnere che applica dall'esterno la sua intelligenza alle forze materiali, egli finisce per vedere nel potere il puro scheletro quantitativo, che ne da’ l'esatta misura. Leggendo i consigli di Machiavelli, si è colpiti dall'importanza che egli da’ al "più" e al "meno". Si tratta di arrivare ad un dato punto stabilito dal calcolo: a volte bisogna ammazzare, ma non troppo, salvo eccezioni, e se "la grandezza del delitto ne copre l'infamia".
Tutti i modi d'agire dell'uomo devono essere soppesati, conteggiati, anatomizzati, come delle cose, perché l'uomo è una cosa, e anche il Principe è per se stesso una cosa calcolata dalla sua ragione tecnica, se vuole restare principe. Napoleone è un degno allievo di Machiavelli quando scrive: "Per me, non ci sono delle persone, ma soltanto delle cose, con il loro peso e le loro conseguenze" e aggiunge: "Io sono il più schiavo degli uomini, perché mio padrone è la necessità, e la necessità non ha cuore". In altre parole, per l'uomo-ragione, l'uomo animale è soltanto un meccanismo.
Lo ha detto Machiavelli stesso nella famosa lettera da S. Casciano: "Metto a fuoco la mia lente da orologiaio, prendo con dita delicate i miei piccoli aghi, smonto e rimonto continuamente le piccole rotelle, esamino i minuscoli perni, scruto le reni nervose di tutte le molle dell'anima umana e la faccio funzionare sotto i miei occhi, come funziona in tutti gli uomini". Naturalmente, non nega la possibile presenza del caso e della sorte negli avvenimenti: ma si tratta, per il Principe che voglia rimanere tale, di prevenirli e di porvi riparo in anticipo, costruendo meccanismi che valgano ad ovviare il venir meno di quelli che avrebbero dovuto funzionare. Per la prima volta nella storia dell'umanità, la condotta dell'uomo è considerata come un sistema di riflessi meccanici che permettono quasi sempre previsioni infallibili.
Infine, la ragione dell'uomo, nell'applicarsi ad oggetti e situazioni puramente meccaniche, diventa anch'essa un meccanismo. Non c'è altra forma d'intelligenza per Machiavelli se non quella del calcolo. Cartesio diceva che la sua fisica era tutta geometria: prima di lui, Machiavelli avrebbe potuto affermare che la sua politica era tutta matematica, con i suoi segni fondamentali: più, meno, uguale. Del resto, per cogliere nell'uomo soltanto gli aspetti quantitativi, occorre evidentemente che la ragione che li coglie sia essa stessa completamente matematizzata e meccanizzata. Si può dire, senza cader nella caricatura, che Machiavelli vede nell'"homo duplex" il meccanismo della ragione che agisce su quello della passione e degli istinti, e la loro giustapposizione che agisce a sua volta sulla macchina del mondo.
Soltanto in questo modo è possibile conservare il potere conquistato. Nell'equazione della potenza ci sono tutti i rischi di perdere il potere, e insieme tutti gli stratagemmi che servono a conservarlo: i primi con il segno positivo, i secondi con il segno negativo. Resta da fare l'operazione, e il risultato sarà senza errore.
Machiavelli lo ripete continuamente, e aggiunge, con la consueta ardente freddezza, che "bisogna dare al popolo soltanto dei risultati".
Egli non è dunque, in nessun modo, il tecnocrate puro della politica che troppo spesso ci si compiace di immaginare. Le sue tecniche affondano in una concezione dell'uomo e del mondo dissonantistica e dualistica ben determinata. Basta leggerlo attentamente per convincersene. Quando si dice che l'interesse e la potenza non hanno bisogno di giustificazioni e di fondamenti, che vanno da sé, che sono dei fatti che il fiorentino semplicemente constata, si fa torto all'intelligenza dell'autore de "Il Principe". Machiavelli ha davanti un tipo d'uomo del tutto nuovo, avido del solo potere su gli altri uomini e sulle cose, la cui struttura precede tutte le tecniche ch'egli preconizza; ha operato di fronte a questo tipo neoplatonico dell'uomo lo stesso rovesciamento che Marx effettuerà più tardi nella dialettica hegeliana, con la stessa intenzione: dominare gli altri uomini ed il mondo.
È chiaro che un pensiero rigorosamente matematico come quello di Machiavelli ignora le nozioni di bene e di male. In matematica, non c'è ne bene ne male, non c'è neppure vero o falso nel senso proprio del termine, ma soltanto esatto o inesatto. Per questo Machiavelli è il pensatore contemporaneo per eccellenza, in un mondo in mano alla tecnica: il suo pensiero non può non suscitare scandalo, ed è dal nome di Nicolò Machiavelli che gli inglesi hanno tratto l'appellativo che danno al diavolo: "old Nick".
È naturale che questa rigorosa meccanizzazione dell'uomo e del mondo sotto il governo d'una intelligenza puramente quantitativa appaia satanica al cristiano. Eppure, il satanico di Machiavelli non è in questo, ma piuttosto nella sua concezione dissonantistica dell'uomo e del mondo, che i suoi calcoli metodici si sforzano di ridurre e mascherare sotto rapporti di forza. Satana è in realtà l'essere disgregato per eccellenza, perché deriva il suo essere da Dio, e da Dio si è allontanato: non ha più unità interiore, è lacerato fin nel profondo. De Vigny gli ha fatto dire:
Tanto grande è la distanza fra me e me,
che non capisco più quel che dice l'innocenza.
Satana comprende soltanto più il peccato, separazione da sé e separazione da Dio, dal quale dipende tutto l'essere. Secondo i Padri della Chiesa, la definizione stessa del peccato originale è lo scegliere arbitrariamente una parte del proprio essere a danno delle altre, e sottrarla al dominio divino: "Con il primo peccato", scrive uno di essi, "Adamo si è separato da se stesso e dagli altri". Adamo ha rotto i legami che lo uniscono come creatura a tutte le altre e al resto della creazione nell'amore per il Creatore.
È esattamente la posizione di Machiavelli, la cui concezione dell'uomo e del mondo è la più pessimistica possibile. "Si può dire che gli uomini in generale sono ingrati, incostanti, falsi, vili, interessati... e il Principe che si è basato sulle loro parole, senza prendere altre precauzioni, crolla... Lo dimostrano tutti coloro che hanno trattato della vita pubblica, e la storia ne offre esempi su esempi: chiunque organizzi una repubblica e ne ordini le leggi deve per forza supporre che tutti gli uomini siano cattivi, e diano sfogo alla malvagità della loro anima ogni volta che possono farlo liberamente... Gli uomini non fanno mai nulla di bene se non per necessità". Di passi come questo se ne trovano a centinaia nell'opera del Fiorentino.
L'immoralismo di Machiavelli, cristallino e glaciale, ha per conseguenza almeno di mettere in guardia l'uomo politico contro i fumi del moralismo. In realtà se c'è un campo in cui il fine giustifica, nella maggior parte dei casi, i mezzi, è proprio la politica. Il bene comune che l'uomo di stato è incaricato di conservare comporta sempre una forte dose di elementi "impuri" e la salvezza d'una nazione non è il risultato di una sterilizzazione di microbi. L'uomo di stato è spesso indotto, in funzione del bene superiore al quale veglia, ad essere crudele o perfido. Se fa mettere a morte gli autori di gravi disordini, non è più "immorale" del chirurgo che amputa un membro in cancrena. Se nasconde ai suoi avversari le sue vere intenzioni, non "mentisce" più di quanto faccia un medico che nasconde a un paziente riottoso i veri scopi della cura. Essendosi posti fuori del bene comune che li avrebbe fatti partecipare alla vita della "Città", questi oppositori sono soltanto più delle cose da trattare come tali. Inoltre, la prospettiva dell'uomo di stato deve tenere conto di numerosi fattori che sfuggono al suo libero arbitrio, e quindi alla sua volontà, morale o immorale: situazione geografica del paese, sviluppo o regresso demografico, ricchezze naturali, scambi commerciali con i popoli vicini, e così via. La sua azione perciò è analoga alle tecniche che hanno per oggetto realtà materiali, quando colpisce i rappresentanti di queste forze impersonalmente sottomessi al suo governo, e non può applicar loro strettamente i princìpi che regolano le relazioni fra esseri coscienti e liberi.
Gli antimachiavellici che insorgono contro il machiavellismo dell'uomo politico, sono sempre dei farisei del machiavellismo, quando misconoscono l'enorme dose di realtà fisica che fa da zavorra all'arte di governare. Il loro moralismo deriva da una segreta o confessata adesione al culto del "grosso animale", che erige le nazioni e i popoli in individui giganteschi dotati di libertà e responsabilità. Non sono più dei singoli che essi sacrificano all'idolo della loro pseudo-morale, ma dei gruppi, delle classi, dei paesi, delle razze. Impregnando di "morale" i mezzi fisici che sono costretti ad impiegare, li giustificano a loro volta senza alcuna vergogna. Il machiavellismo che verbalmente ripudiano è sceso nelle loro midolla come una vecchia malattia vergognosa che li distrugge e della quale imbiancano i sepolcri. "Da conquistare con l'idealismo", diceva Lenin dei suoi interlocutori. Il mondo d'oggi è pieno di questi "moralisti" che, come termiti, rodono il tessuto vitale delle nazioni, e ammantano di gloria le rovine che provocano.
Machiavelli, la grande belva solitaria, era un agnello in confronto a questi insetti che si ritengono atleti della moralità.
Machiavelli è anche l'antitesi esatta di Rousseau. Per lui, l'uomo è radicalmente cattivo, come se mai fosse stato creato né riscattato da Dio. Per il ginevrino, l'uomo è radicalmente buono, come se non avesse mai peccato, come se fosse Dio stesso.
La nostra epoca ha combinato le due concezioni. Sotto un rousseauismo di diritto, tradotto nelle grandi parole di libertà, uguaglianza, fraternità, si nasconde in politica un machiavellismo di fatto che utilizza l'influenza ipnotica di queste parole in favore della volontà di potenza degli assetati del potere, individui, gruppi, nazioni. Rousseau dà a Machiavelli la buona coscienza e la buona fede di cui il Fiorentino si fa beffe, copre le sue imprese d'un involucro galvanoplastico di rispettabilità. Non è più in nome del potere che si pongono in atto divisioni, conflitti, e perfino crimini, ma in nome della Giustizia con la maiuscola. L'uomo di cui Rousseau ha fatto un idolo nasconde in sé un demonio, l'angelo di Rousseau si unisce con la bestia machiavellica. Ne viene fuori una eccellente mistura esplosiva. Da due secoli, tutte le rivoluzioni la utilizzano spudoratamente. Ne è simbolo la fissione nucleare, presentata nello stesso tempo come la chiave che aprirà il paradiso terrestre, e come lo strumento della catastrofe assoluta scatenata dalla volontà di potenza.
Noi non potremo sfuggire a questo disumano dilemma se non con un ritorno all'umano. La conversione è semplice ed insieme difficile. L'uomo non è ne buono né cattivo, ma tutte e due le cose insieme. L'uomo di stato autentico deve avere il compito di stabilire con tutti i mezzi un clima sociale cosiffatto che anche le potenze del male concorrano allo sviluppo del bene. Una sana politica è quella che fa coincidere l'interesse, sempre personale, che sottrarrebbe l'uomo alla comunità se abbandonato a se stesso, con il dovere che, quando esercita il suo onnipotente dominio, assorbe l'uomo nella comunità. Questa tensione è senza fine: il lavoro politico è sempre da rifare, come la tela di Penelope.
Per superare Machiavelli e Rousseau, c'è una sola via: il ricorso a qualche potenza trascendente e intemporale, mitologica o meno, che sola può rivolgere il male verso il bene. Per questo gli antichi dicevano della politica che è una scienza divina. Senza la chiave di volta della religione, l'edificio sociale crolla.

NOTE

[1] "Perficit", dice san Tommaso, e si potrebbe tradurre: porta al massimo grado di perfezione e di maturità, pur restando, come principio di questa trasformazione, superiore alla natura.


[2] Ancora una volta Pico della Mirandola ha visto bene. Nel suo "Discorso", Dio dice all'uomo: "Venendo al mondo, gli animali hanno ricevuto tutto ciò di cui hanno bisogno... Tu invece puoi diventare grande e svilupparti come vuoi".
Non sono riuscito a trovare la fonte - postato l'8 gennaio 2013

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