23 gennaio 2013

L’umanità nello specchio di «Matrix»

di Giuliano Zanchi
​I due fratelli sceneggiatori Andy e Larry Wachowski il 31 marzo 1999 mandavano nelle sale degli Stati Uniti il primo episodio della triologia fantascientifica di Matrix.
L’ambientazione del film, che immagina una guerra fra uomini e macchine agli sgoccioli del XXII secolo, in cui un Eletto, a lungo annunciato dalle profezie di un oracolo, guida nella battaglia contro le macchine un popolo che vive nella roccaforte sotterranea di Sion, è intrisa di evidenti riferimenti alla tradizione religiosa cristiana, circonfusi tuttavia di un rimpasto teosofico vagamente zen.
Mai come in questo caso la fantascienza, genere degno dell’attenzione che si deve riservare ai più impegnati testi di filosofia, si è saldata al sacro. Nel modo tipico del sacro postmoderno, quello di riciclare gli elementi della tradizione all’interno di una nuova narrazione.
Questo rivestimento sacro, che attinge alla mitologia cristiana, ha come aspetto più interessante il fatto di presentare sotto una chiave di emozione religiosa le immaginarie sorti dell’uomo nei suoi rapporti con gli artifici della tecnologia. Il film immagina una sterminata massa di essersi umani «collegati» attraverso il cervello a un gigantesco programma informativo chiamato sintomaticamente Matrix (la matrice, il grembo, l’utero): ciascuno di essi, con il corpo immerso in cellule liquide che ne garantiscono la sopravvivenza, vive attraverso la sua mente in un mondo che è in realtà una simulazione digitale.
Ma dal punto di vista delle emozioni del tutto realistico. Pochi documenti della cultura sono riusciti con tanta immediatezza a visualizzare il tasso di ibridazione fra realtà e artificio tipico della condizione postomoderna, mettendo in luce con visionaria lucidità l’interrogativo sulla «natura» dell’uomo come l’autentica posta in gioco della transazione che stiamo vivendo. La condizione postmoderna può difatti essere definita come “il problema posto dalla decostruzione dell’umano”.
La cultura della modernità era nata per costruire l’intero impianto della conoscenza sulle ragioni dell’uomo. Il «soggetto» era il crocevia delle traiettorie che potevano ancora far incontrare la trascendenza del fondamento con l’immanenza della natura. Ma, nell’età secolare persino il vocabolario con cui si esprimeva quell’ambizione si è trasformato in moneta fuori corso. L’autocoscienza dell’uomo postmoderno, assieme all’ovvia inesistenza del fondamento, ha accettato anche la propria iscrizione sul registro della pura semplice comune immanenza. Nella macchina umana Cartesio aveva un tempo concesso il comfort di uno speciale transitor per la ricezione dell’idea di Dio. Prolungava per qualche secolo un’idea della «differenza umana» che da qualche decennio paleontologi, zoologi, neurobiologi vanno metodicamente smontando come un mito senza fondamento. L’uomo è solo materia evoluta quanto a struttura ma del tutto ordinaria quanto a tipologia.
La perfetta trasparenza clinica del corpo umano ha permesso in maniera determinante questa operazione di demitizzazione dell’umano. Con curiose e comiche simmetrie. Mentre si animalizza l’uomo, si umanizzano gli animali. Addirittura candidati a detenere dei diritti. L’antropologia postmoderna appoggia difatti su una vistosa schizofrenia. Mentre l’inalienabile spazio dell’individualità formale del citoyen d’Europe viene proclamata e tutelata fino a esiti parossistici, la concezione che i saperi pubblicamente accreditati divulgano dell’uomo lo proiettano nello spazio ordinario del puro oggettivismo.
Fino a non molto tempo fa si trattava di un oggettivismo naturale: l’uomo è solo materiale secondo natura con qualche abilità che l’evoluzione gli ha fatto raggiungere prima di altri elementi della biosfera. L’uomo non è che una scimmia nuda. Ma ora si sta profilando un’immaginazione umana legata alle possibilità di un oggettivismo artificiale, l’uomo è una macchina di cui la tecnologia ha imparato a gestire gli elementi.
Non ha dunque nulla di diverso dalle stesse macchine che quella stessa tecnologia ha costruito a immagine e somiglianza del congegno umano. Poiché non esiste una differenza apprezzabile fra i due generi di prodotto è lecito immaginare un tempo nel quale l’essere umano sarà un ibrido costruito con elementi artificiali. Ma anche, come preconizzato nel 1987 da Ridley Scott in Blade Runner, ricostruito artificialmente in toto. Un giorno non molto lontano, si preannuncia, sarà la tecnologia a partorirci. Per ora non è necessario che tutto questo sia del tutto attuabile. Sta già cambiando la concezione dell’uomo per il solo fatto che tutto questo possa essere anche solo immaginato.
Andando oltre l’umanesimo della modernità, il postmoderno non poteva coerentemente che portare con sé il progetto di un «postumanesimo», che non significa andare «contro» le ragioni dell’uomo, ma pensare di poter immaginare un «altro» modello di essere umano, sulla base delle enormi risorse manipolatorie che la tecnologia ha messo nelle mani di un uomo ormai capace di costruire se stesso. Quello che sta prevalendo in questo progetto di ricostruzione postumanistica dell’uomo è l’analogia, oggi considerata ovvia e trasparente, fra capacità cognitive e del cervello umano e forme digitali dell’intelligenza artificiale. L’uomo in fondo è un computer contenuto in un involucro di carne.
La nostra vita è già molto legata alla rete informatica delle comunicazioni globali. Basta aspettare il giorno in cui questo collegamento sarà operato direttamente da nostro cervello. A pensarci bene siamo di nuovo al transistor di Cartesio. Salvo il fatto che la «trascendenza» a cui si accede è quella del gigantesco oceano di dati ormai divenuto la «cosa» più reale del mondo.
Siamo in qualche modo tornati a Cartesio anche perché in questa immaginazione di un uomo ormai fisicamente legato ai processi di elaborazione della macchina il corpo perde definitivamente la sua essenzialità. Siamo appunto in quella che è stata chiamata cultura «postorganica».
Già in molti modi oggi il corpo umano è integrato artificialmente. Basta attendere del tempo perché la differenza fra organico e artificiale perda di senso. Il terzo episodio di Matrix si conclude con la spettacolare scena dell’Eletto perfettamente trasfigurato nella luce verdognola dei cristalli liquidi. Scena innegabilmente evocatrice dell’episodio evangelico.
Ma anche decisa a sigillare nell’estetica cinematografica il declino definitivo di un principio essenziale del vecchio mondo. Quell’esaltazione del corpo, che vedeva nel «sacramento della carne» il luogo della verità umana e della rivelazione divina, sembra destinata a esaurire la sua forza di persuasione, portandoci verso soglie dell’ignoto che hanno le sembianze della fine.
«Avvenire» del 17 gennaio 2013

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