09 gennaio 2013

L’essenza del comico plautino

Brano tratto da Da Sarsina a Roma, Firenze, 1967, pp. 287-289
di Francesco Della Corte
Il comico plautino nasce da una realtà trasfigurata, da un senso profondo della vita esposta agli scherzi del Caso, in cui i personaggi sono in balia di una sorte che è già segnata, di cui a volte come Demipho nel Mercator e Daemones nel Rudens, hanno persino presagi e sogni premonitori, ma di cui non posseggono ancora la spiegazione. Del corso dei fatti due soli sono in possesso: il poeta e, grazie al prologo, che spesso è una divinità (Mercurius, Arcturus, Lar familiaris), il pubblico. Per contro è ignaro il personaggio, in questa trepidazione dell’ignoto, di quello che gli sta per avvenire: il giovane teme che la sua fanciulla gli sia sottratta; il servo teme che, se il suo raggiro sarà scoperto, egli sia mandato a girar la macina del mulino; il padre teme che il figlio e il servo non gli combinino qualche tranello; il lenone teme che la fanciulla che egli possiede non sia scoperta di nascita ingenua e quindi non perda il denaro che ha speso per comprarla e mantenerla. In questa trepidazione generale, il pubblico, spesso informato di come le cose andranno a finire, vede placato e compiaciuto lo svolgersi delle vicende, sorride pensando agli inutili sforzi, alle vane cautele che il gabbato prende per difendersi, si compiace dei futili argomenti addotti da chi, non al corrente di quanto si sta svolgendo sopra di lui, ha sempre qualcosa da temere.
Il comico è dunque in questa superiorità del pubblico o del lettore sul personaggio che appare così in trepidazione. A ridere non sono mai, o quasi mai, i personaggi, perché «le comique, la puissance de rire est dans le rieur et nullement dans l’objet du rire»; il comico, che si sviluppa interamente presso lo spettatore, il lettore, gli dà la gioia della sua superiorità, lo priva di ogni emozione, di ogni incertezza, di ogni mistero. La tragedia vuole il mistero, vuole una atmosfera di incubo e di angoscia. La commedia ha soltanto per scopo di fare assistere a quelle medesime vicende umane, rapimenti, scomparse, smarrimenti, morti, viaggi, lontananze, ma senza che lo spettatore partecipi alle sofferenze che colpiscono il personaggio. La conoscenza da parte di Plauto del corso degli eventi non è cosa che interessi lui solo. Tutti debbono esserne fin dal principio informati; tutti debbono constatare che, nonostante gli impedimenti che il Caso frapporrà, le cose si svolgeranno come era stato previsto, che la soluzione risponderà al quod erat demonstrandum.
Perché il comico sorga da queste premesse il giuoco del Caso, che puntualmente si verifica, occorre che la vita terrena sia oggettivamente riprodotta con tutti i suoi contrasti, anzi sia gustata con senso edonistico proprio nella sua varietà molteplice. Di tutto il Caso si può servire: navigazioni, commerci, guerre, viaggi, occupazioni professionali, vicinanza di abitazione, coincidenze fortuite, proprio come avviene nel teatro di tutti i tempi. Di tutte le definizioni tentate fino ad oggi del comico plautino, scartate quelle formali, fondate sulla metrica e sulla linguistica, e scartate anche quelle contenutistiche, dell’ironia, dello scherno, della satira, dell’umorismo o dei sentimenti come l’amore, la pena, la gioia, rimane per noi soltanto possibile quella che fa nascere il comico dal contrasto della vita, visto con distacco dal poeta e con la superiorità avvertita dallo spettatore o dal lettore sul personaggio zimbello del caso.
Poiché tale distacco dalla passione dell’umano operare e tale superiorità sui proprii simili non sono della vita quotidiana, ma si determinano soltanto nel gioco dell’arte scenica, il comico di Plauto resta sempre una delle più felici creazioni che l’illusione teatrale abbia dato a un pubblico, vero o immaginario, che sia entrato nel cerchio magico appositamente creato dal poeta.
Postato il 9 gennaio 2013

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